editoriale
Palestina 1948, una ferita aperta
70 anni dopo la Nakba, la popolazione palestinese vive ancora sotto occupazione, mentre il mondo celebra la nascita dello stato di Israele, e il Giro d’Italia parte da Gerusalemme, cercando di cancellare ingiustizie passate e presenti
Si celebrano quest’anno i 70 anni dal 1948, momento cruciale nella storia del Medio Oriente. Proprio quell’anno, e in particolar modo quel maggio, è celebrato in modo antitetico: per i palestinesi è la Nakba, la catastrofe, per gli israeliani è l’Independence day.
Cosa accadde nel 1948? Per capirlo bisogna tornare al 1947, a quel Partition Plan definito dall’ONU che spartisce il territorio della Palestina storica sotto Mandato Britannico in due entità, da un lato la parte di un futuro stato palestinese (mai concretamente realizzato), dall’altra una struttura che diverrà lo stato ebraico. Lo shock di Auschwitz è ancora vicino e viene strumentalizzato per giustificare una operazione artificiale quale è costruire uno stato su base etnica a seguito di ondate migratorie. Il tutto è infarcito di falsa retorica (“una terra senza popolo per un popolo senza terra” si diceva al tempo) e sopratutto di nazionalismo oltranzista di stampo ottocentesco, rappresentato dal pensiero sionista.
I paesi arabi circostanti rifiutano la spartizione perché viene data alla popolazione ebraica il 56% del territorio e sopratutto le terre più fertili, lungo la costa, nonostante la loro presenza numerica fosse di gran lunga inferiore a quella araba/palestinese. Alla popolazione araba viene affidato solo il 43% delle terre. E così, nel 1948 Egitto, Siria, Giordania attaccano Israele che però non solo regge l’attacco, ma riesce a contrattaccare, sopratutto grazie al fatto che un esercito israeliano era già in fieri in quanto esistevano addestrati gruppi paramilitari (come l’Irgun e l’Haganah) nati sotto occupazione britannica, che confluiscono nel corpo militare del nuovo stato. Arriveranno così all’armistizio del 1949 con una consistente conquista di terre, guadagnando così alla sua nascita quasi il 78% della Palestina storica. Uno stato palestinese non nasce, ma le terre rimaste, cioè il 22% vengono occupate da Giordania (l’attuale West Bank) e Egitto (Gaza).
Ilan Pappè, storico fondamentale per comprendere le vicende di quei tempi, scrisse due libri in merito alla guerra del 1948. In Storia della Palestina moderna racconta quanto un’alternativa fosse possibile. La creazione di uno stato plurinazionale in cui gli immigrati ebrei, cresciuti in numero considerevole dagli inizi del secolo, e in molti fuggiti durante l’olocausto o sopravvissuti ai campi di concentramento, potessero convivere assieme alla popolazione araba/ palestinese locale. Entrambi erano insofferenti alla colonizzazione britannica ed entrambi avevano aspirazioni all’indipendenza nel riconoscimento della propria identità nazionale in via di formazione, ma non necessariamente la soluzione doveva essere creare a tavolino due stati nazione, tanto più in un territorio complesso e stratificato come la Palestina. Invece si scelse di dividere il territorio, e quando si costruiscono confini si creano ingiustizie, situazioni “artificiali” ed inevitabilmente problematiche enormi che avrebbero portato ad anni di guerre.
Nell’altro suo fondamentale libro, “La pulizia etnica della Palestina” Pappè descrive cosa fu la guerra del 48, cioè una pianificazione sistematica finalizzata a estromettere dai propri villaggi la popolazione palestinese per sostituirla con quella ebraica. Si conta che in questa operazione 800 villaggi palestinesi furono rasi al suolo, e molti altri evacuati per fare posto alla popolazione migrante ebraica. In quella occasione furono “creati” 750 mila rifugiati palestinesi, dispersi in campi profughi nei paesi limitrofi. I loro discendenti ancora oggi nascono già con il riconoscimento ONU dello status di rifugiati.
A dicembre 1948 l’Assemblea dell’Onu vota una delle tante risoluzioni mai applicate che dice che «ai rifugiati che avessero voluto tornare alle proprie case e vivere in pace coi loro vicini, sarebbe stato permesso di farlo» e che «sarebbe stato pagato l’indennizzo per le proprietà di quanti avessero scelto di non tornare».
Nessuno dei discendenti dei 750 mila rifugiati ha mai potuto ritornare a vivere nelle terre abbandonate nel 1948.
Sono passati 70 anni da quegli eventi, molte altre guerre, ingiustizie e atrocità hanno devastato quei territori, ma questa sorta di ingiustizia originaria data dai fatti del 1948 rimane impressa nella memoria collettiva di generazioni di palestinesi.
Per celebrare quei fatti, per chiedere ancora oggi il diritto al ritorno, la popolazione di Gaza si è organizzata con una iniziativa di grande impatto e determinazione, chiamata la Great Return March, che sta continuando, ogni venerdì, dal 30 di marzo, nonostante una repressione incontrollata da parte israeliana.
Nel frattempo in Israele tutto è pronto per celebrare l’anniversario della propria nascita e le potenze internazionali hanno ben pensato di contribuire a questi festeggiamenti. Anche l’Italia ha fatto la sua parte, decidendo di far partire il Giro d’Italia da Israele, nel pieno di una operazione di “sport washing”
Per ricordare la Nakba, per raccontare il massacro che sta subendo la Great return march, per criticare l’operazione mediatica del Giro d’Italia chiedere ancora una volta la fine dell’occupazione, sabato 12 maggio si manifesterà a Roma.