ROMA
16 novembre, è tempo di Climate Pride
Nei giorni della COP 29 di Baku una manifestazione di ribellione alle politiche internazionali sul clima attraverserà la capitale. Mentre le conferenze ONU appaiono sempre più una scatola vuota è di fondamentale importanza tornare a mobilitarsi, con l’emergenza climatica che avanza in modo tragico
Sabato 16 novembre a Roma si terrà il Climate Pride che nella convocazione si definisce come «la street parade gioiosa e ribelle che grida al mondo: è ora di uno #ShockTrasformativo per un futuro rinnovabile e di pace».
A lanciare l’iniziativa, un paio di mesi fa, è stato un gruppo variegato di attivist3 di Roma, da tempo attive sulla questione climatica ed ecologista. A radice della proposta soprattutto la consapevolezza della necessità di rinnovare pratiche e forme di mobilitazione collettiva e al tempo stesso il desiderio di non lasciar passare sotto silenzio un evento come la COP sul clima che annualmente ha luogo tra novembre e dicembre. Dopo la COP in Egitto nel 2022 e quella negli Emirati Arabi nel 2023, quest’anno è la volta di Baku in Azerbaijan, una scelta paradigmatica del fallimento politico ed etico dello strumento della Conferenza delle Parti per il Clima.
L’Azerbaijan infatti non solo è una dittatura governata da oltre vent’anni da un sanguinario presidente, İlham Əliyev, ma è pure un paese che basa interamente la sua economia sullo sfruttamento delle fonti fossili, in particolar modo i giacimenti nel Mar Caspio, e che non ha nessuna intenzione di ridurre i propri investimenti nel settore.
Nelle COP, ricordiamo, il paese ospitante non è solo quello che gestisce formalità e logistica, ma coordina il negoziato al fine di raggiungere l’accordo di fine conferenza.
L’ultima COP in cui il movimento per il clima si fece sentire in modo significativo fu quella del 2021 a Glasgow, che registrò, tra le altre cose, uno dei più grandi cortei organizzati in queste occasioni, con notevole partecipazione soprattutto dai paesi del Sud Globale.
Dopo quel momento – e quell’ennesimo fallimento – si cominciò a boicottare o disertare quello spazio di confronto, denunciandone non solo l’inconcludenza ma anche la dannosità per il rischio di perpetuare la logica di fiducia ottimistica nella risoluzione dei problemi tramite un negoziato protratto all’infinito. Inoltre si decise di organizzare le COP successive in paesi fortemente dipendenti dai fossili e pure estremamente repressivi nei confronti di qualunque forma di dissenso e protesta, che ovviamente non avrebbero permesso alcuna forma di manifestazione. Dopo l’Egitto e gli Emirati Arabi, l’Azerbaijan è una sorta di naturale continuità.
Anche a Baku pertanto non ci saranno i movimenti ecologisti, se non in sparute delegazioni di ong e mezzi di informazione, tuttavia è inevitabile che il potenziale simbolico della conferenza rimanga, e che può essere una finestra di opportunità per tornare a parlare e a mobilitare in merito alla crisi climatica, un fatto assolutamente necessario. Greta Thunberg, ad esempio, assieme a una coalizione femminista georgiana contro la guerra ha lanciato una mobilitazione a Tiblisi, “COP29, STOP FUELING OPPRESSION”, proprio in vista del vertice che avverrà nella dittatura confinante e che vedrà negata ogni protesta.
In Italia, nonostante infatti gli sforzi di Fridays For Future nell’organizzare gli scioperi e delle varie realtà dell’attivismo ecologista di mantenere alta l’attenzione, è indubbio che il tema sia fuoriuscito dal discorso pubblico. Varie sono le ragioni che si possono addurre, in parte la repressione di cui il movimento è stato oggetto, in parte pure il governo negazionista che è ora al potere e che ha preso rapidamente il controllo dei mezzi di informazione.
I fatti tragici dell’Emilia Romagna prima e della provincia di Valencia poi non sono bastati a riaccendere la tematica che viene letta ancora nella forma del “disastro naturale”. I costanti report delle Nazioni Unite sul clima sono esclusi dai canali di informazione anche quando descrivono scenari drammatici, come l’ultimo report “Emission gap 2024” che prospetta un aumento di temperatura superiore ai 2,6 gradi per fine secolo se non si cambia radicalmente rotta entro il 2030.
In uno scenario come questo è particolarmente interessante allora provare a organizzare una mobilitazione come quella proposta per il Climate Pride. Infatti la manifestazione del 16 novembre cerca di riporre al centro l’attivazione diffusa e la lotta evitando la rassegnazione o lo sconfittismo che si sono diffusi in un paese come il nostro che, ricordiamolo, nel 2019 aveva prodotto alcuni dei più partecipati scioperi per il clima a livello globale.
I punti cardine della mobilitazione del 16 novembre sono elencati in un documento preciso di richieste «La giustizia climatica non può che essere accompagnata dalla garanzia di una giustizia sociale: contro chi vorrebbe aumentare il divario tra i paesi e mantenere in piedi il ricatto tra lavoro e transizione ecologica è necessario incrociare le nostre istanze, cercare alleanze e convergenze tra i movimenti. È ormai indispensabile capovolgere il sistema, interrompere l’azione antropica forsennata che devasta l’ambiente così come le nostre vite». Pertanto la street vuole essere quanto più possibile intersezionale ed è esplicitato nel documento in cui si esorta «Chiamiamo a raccolta alleate per costruire nuove connessioni verso un mondo che sia realmente sostenibile per tutte le specie, in un’ottica transfemminista e anticoloniale, contro ogni guerra».
Si nota la presenza nell’appello della questione repressione, data la gravità della stessa in tutto il mondo contro il movimento ecologista: «Non c’è giustizia climatica senza una piena giustizia sociale che passi tanto dal rispetto dei diritti umani quanto da quello per le libertà politiche e civili. Rifiutiamo qualsiasi forma di criminalizzazione del dissenso e dell’attivismo, dal Decreto Sicurezza 1660 in Italia alle accuse di terrorismo in Germania contro Letzte Generation, alla brutale repressione in Colombia, prima al mondo per uccisioni di attiviste ambientalisti, fino all’Azerbaijan che arresta arbitrariamente chi denuncia la crisi climatica e l’estrattivismo durante la COP29. Rifiutiamo anche la propaganda della paura verso migranti e straniere, che spesso fuggono proprio dagli effetti estremi della crisi climatica o dalla devastazione ambientale di cui i paesi più ricchi (Italia, con Eni e Snam in primis che sono partner commerciali della COP), sono responsabili».
Infine c’è una attenzione particolare alla lettura antispecista e pertanto il corteo si propone come «La Multispecie – animali, piante, batteri, associazioni ambientaliste e sociali, cittadin3e student3 – si uniscono per chiedere alla #COP29 #giustiziaclimatica per il Pianeta». Costumi, carri, maschere, addobbi creativi daranno l’idea della varietà delle specie che si ribellano a un pianeta condannato alla distruzione per gli interessi e i profitti di pochi.
All’interno di un mese di novembre ricco di mobilitazioni questa data può essere uno spazio importante per riaggregare energie, costruire convergenze e per riportare al centro dell’attenzione il tema, contro il negazionismo della destra nostrana e globale.
Foto di copertina, Renato Ferrantini
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