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Diane Abbott: genere, razza e classe nelle lotte di un’afro-britannica

L’autobiografia di Diane Abbott, afrodiscendente e decana dei parlamentari laburisti, fa luce sui tenaci pregiudizi razziali nel partito laburista e sulla prospettive della sua corrente di sinistra dopo l’estromissione di Corbyn e l’infelice gestione Starmer

Quella di Diane Abbott è una storia importante e particolare. È non solo la prima parlamentare britannica afrodiscendente, eletta nelle file del partito laburista nel 1987: oggi detiene anche il titolo «Mother of the House» – cioè la decana della Camera dei Comuni, nonostante nei decenni fino a oggi abbia subito ostracismi e boicottaggi di stampo patriarcale e razzista, anche dall’interno del suo stesso partito. La sua autobiografia, pubblicata nel 2024 per i tipi di Penguin, è quindi non solo la narrazione di una storia personale, ma di quest’ultima come riflesso di una storia politica e sociale di un Paese.

Abbott nasce nel 1953, il papà (operaio) e la mamma (infermiera) sono membri della working class immigrata dalle Indie Occidentali, nel flusso di approdi aperto dal famoso viaggio della nave Windrush nel 1948. Le discriminazioni razziali subite dalla famiglia non le impediscono di distinguersi e di emergere a scuola, tanto che Diane riesce a laurearsi a Cambridge. Dopo la laurea viene assunta al Ministero dell’Interno attraverso il programma Fast Stream per il reclutamento di giovani laureati e laureate nella pubblica amministrazione (Civil Service). Dopo numerose esperienze all’interno dei collettivi femministi, nel campo dell’associazionismo per i diritti delle persone migranti e del giornalismo, nel 1987 viene eletta come prima donna nera deputata, ricoprendo nei decenni incarichi nei governi “ombra” laburisti durante le amministrazioni Tories a Downing Street.

Se si trattasse solo di elencare i suoi successi professionali e di carriera, per quanto notevoli, il libro di Abbott alla fine sarebbe poco interessante e per certi versi un po’ pretenzioso. Non sono queste le intenzioni dell’autrice, pertanto nelle sue 336 pagine divise in nove capitoli gli elementi autobiografici si intrecciano con 70 anni di storia della comunità afro-britannica e quasi mezzo secolo di conflitti politici e sociali sia contro i governi conservatori (da quello di Margareth Thatcher a quello di Rishi Sunak) sia all’interno del partito laburista durante le segreterie che si sono succedute (Kinnock, Blair, Brown, Miliband, Corbyn e Starmer). Di particolare importanza sono i capitoli nei quali Abbott narra le vicende che portarono negli anni Ottanta alla conquista del Greater London Council da parte della sinistra laburista guidata da Ken Livingstone, la strage di New Cross a Londra nel 1981 e il movimento di resistenza della comunità nera che ne seguì, e il grande movimento contro la partecipazione britannica alla guerra in Iraq voluta da Tony Blair.

Anche a seguito delle posizioni radicali assunte in Parlamento e sui territori, Abbott è stata oggetto di attacchi, insulti e molestie, quasi sempre a sfondo razzista, e l’autrice ne ricorda molte, soprattutto nella parte finale del suo volume. Sfogliando le pagine di quest’ultimo, d’altronde, ci si rende conto che questi non sono stati incidenti di percorso nella vita politica e professionale della parlamentare afro-britannica fin dall’inizio: da quando, giovane candidata per il collegio di Hackney South a Londra – quartiere etnicamente diviso a metà fra persone bianche e razzializzate – subì un’aggressione nel suo ufficio elettorale, con i vetri infranti da dei mattoni lanciati da “sconosciuti”.

Apparentemente sorprende, invece, l’ostilità che Abbott ha subito (e subisce tuttora) da buona parte dei segretari che si sono avvicendati alla guida del Labour Party, dagli anni Ottanta a oggi. Neil Kinnock era il leader del partito quando lei è stata eletta insieme a due uomini neri, Bernie Grant e Paul Boateng. Abbott scrive che, lungi dal vedere queste tre elezioni come un successo, Kinnock riteneva che esse fossero la materializzazione di quella «pazza sinistra» legata a Ken Livingstone. D’altronde, Abbott penò non poco prima di ottenere un proprio ufficio a Westminster, come previsto per tutte le persone che vengono elette alla House of Commons. L’autrice ricorda come l’unico segretario e primo ministro laburista pre-Corbyn che la riconobbe come interlocutrice all’interno del gruppo parlamentare fu Gordon Brown, ma solo per chiederle di appoggiare un provvedimento liberticida varato subito a seguito dell’ondata del terrorismo seguita alle Torri Gemelle. Particolarmente interessante è la parte in cui Abbott racconta dell’ascesa e della caduta di Jeremy Corbyn come segretario del Labour Party. In buona sostanza, Corbyn riuscì a battere l’establishment blairiano del cosiddetto New Labour grazie a due elementi: la riforma del processo di investitura, con l’allargamento delle maglie per chi si iscriveva al partito – una sottoscrizione assolutamente simbolica – e un programma che in quel momento toccava le corde degli interessi popolari e della working class britannica. A ciò si aggiungeva un terzo elemento, su cui Corbyn mantenne un atteggiamento ambiguo, ma che alla fine incise sul fallimento della sua segreteria: la sua posizione anti-UE, figlia del vecchio posizionamento della sinistra laburista sull’unità europea (che poi non era così diverso da quello originario della sinistra italiana, sia socialista sia comunista; ancora fino agli anni Ottanta. Infatti fu proprio sullo SME che il PCI di Berlinguer mise fine alle esperienze dei governi di solidarietà nazionale).

Il successo elettorale del 2015, il più grande risultato in termini di voti della storia del Labour, dimostrava comunque che Corbyn aveva allacciato quella che Gramsci chiamava la “connessione sentimentale” con la propria base sociale elettorale. Tuttavia anche nel 2017, sotto la segreteria Corbyn, quando ricopriva la carica di ministra degli interni ombra, Abbott fu costretta temporaneamente a dimettersi.

Continuando la lettura del libro di Diane Abbott si arriva alla sconfitta laburista e alle accuse di antisemitismo che provocarono la cacciata di Jeremy Corbyn dal partito e l’investitura di Starmer. Quest’ultimo definì l’antisemitismo «una macchia sul nostro partito», giurando di sradicarlo e collaborando con l’indagine della Commissione per l’uguaglianza e i diritti umani (EHRC) sulla questione. L’indagine, che è stata presentata nel 2020, ha giustamente individuato «gravi carenze nella leadership e un processo inadeguato per la gestione delle denunce di antisemitismo in tutto il Partito laburista», nonché «molteplici carenze nei sistemi utilizzati per risolverle». Essa ha concluso che ci furono episodi di molestie e discriminazione di cui il Partito laburista era responsabile.

Corbyn rispose che esisteva un problema di antisemitismo nel partito, ma che era stato «drammaticamente sopravvalutato per ragioni politiche». Lo stesso giorno della dichiarazione, Keir Starmer lo sospese dal Partito laburista. Sebbene Jeremy fosse stato riammesso come membro dopo un mese, Starmer si rifiutò di riammetterlo nel gruppo parlamentare del partito, impedendogli quindi di candidarsi come deputato laburista alle ultime elezioni generali.

Nel 2020 Starmer commissionò un altro rapporto all’avvocato Martin Forde, sulla gestione dell’antisemitismo da parte del partito. Il rapporto di Forde confermò che l’antisemitismo era un problema nel partito, confermò anche che l’antisemitismo era stato usato come arma nella lotta interna tra l’ufficio dell’ormai ex-segretario Corbyn e il funzionariato della sede centrale.

Il rapporto Forde rivelò anche l’esistenza di una «gerarchia del razzismo» nel partito, che emarginava coloro che provenivano da altre minoranze etniche, come le persone nere e asiatiche. Questa gerarchia non è mai stata affrontata in modo significativo sotto la leadership di Starmer.

Contro questa situazione, Abbott scrisse un’infelice lettera all'”Observer” nel 2023, un tentativo maldestro – come riconosciuto dalla stessa autrice – di dire cosa c’era di distinto nel razzismo vissuto dalle persone razzializzate e non un tentativo di rivendicare una gerarchia del razzismo o di negare gli orrori dell’Olocausto. Tuttavia Starmer non perse tempo e sospese anche Abbott dal gruppo parlamentare (fortunatamente poi la riammise). Insomma un pastrocchio nella gestione Corbyn (come per la Brexit) ma anche un palese intento strumentale e sotto sotto razzista di Starmer per liquidare la sinistra del partito.

La posizione del governo laburista sulla guerra a Gaza, appiattita sulle posizioni americane come quella di Blair sull’Iraq nel 2003, ovviamente acuisce – se ce ne fosse ancora bisogno – la tensione.

Dietro le ostilità e gli attacchi razzisti contro Abbott non c’è quindi solo una tradizione razzista mai scomparsa nella politica e nella società britanniche, prima imperiale e coloniale o poi nazionalista e xenofoba: c’è anche l’insofferenza verso l’insistenza che Abbott e la corrente socialista interna al Labour di cui fa parte (il Socialist Campaign Group, un caucus parlamentare che si riunisce tutte le settimane), hanno mantenuto nell’opporsi alle politiche draconiane sull’immigrazione e a difesa delle libertà civili. Quando lascia il suo impiego presso il Ministero degli Interni negli anni anni Settanta, scrive, «Non potevo pensare di passare il resto della mia vita lavorativa a rinchiudere persone, a elaborare leggi razziste sull’immigrazione e a violare in generale le libertà civili». Una situazione che oggi ha visto ben pochi cambiamenti.

Dopo il vergognoso trattamento riservatogli dal Labour di Starmer, che ha tentato – seppur invano – di impedirle di candidarsi alle ultime elezioni politiche, l’autrice è sincera nel dire che il partito offre ormai poco spazio alla sinistra, scrivendo: «Qualunque sia la questione che si esamina, la convergenza tra Labour e Tories rimane profondamente deludente». Descrive l’era Corbyn come un «interludio», evidenzia nell’ambiguità tenuta sul tema della Brexit (a cui ella era ed è profondamente contraria) una delle cause del fallimento della segreteria e scrive che il periodo «ha messo a dura prova l’idea che la sinistra possa avere un’influenza significativa nel partito laburista».

Infine, pur essendo sempre stata contraria, Abbott riconosce la necessità di riconsiderare il sistema elettorale proporzionale e prende in considerazione possibili alleanze a essa funzionali, come una coalizione fra Partito laburista e Verdi.

Leggere A Woman Like Me ha a mio avviso una tripla valenza. In primis, ricostruisce e sintetizza in modo efficace gli ultimi quarant’anni di storia politica e sociale della Gran Bretagna, evidenziando l’incredibile affinità di posizioni fra le direzioni di Partito conservatore e Labour Party su alcuni temi “caldi”, dall’immigrazione al sostegno alla politica estera degli USA fino al contrasto verso il movimento sindacale e le minoranze etniche.  Al tempo stesso, e qui sta il secondo valore di questo libro, dà conto di come non sia scomparsa l’anima progressista e socialista all’interno del Labour, dal periodo d’oro di Ken Livingstone alla grande occasione dell’era Corbyn, fino alla ripresa del movimento sindacale e dei movimenti antirazzisti. Infine, il volume ci restituisce l’importanza delle soggettività nei conflitti sociali, di quelle persone tenaci e determinate, mosse da grandi valori di eguaglianza, fratellanza/sorellanza e solidarietà. Oggi, proprio mentre il governo Starmer si manifesta per quello che si sapeva (una brutta copia dei governi Blair), diverse parlamentari elette o ri-elette fra le file laburiste seguono l’esempio di Abbott: da Dawn Butler a Zarah Sultana, da Apsana Begum a Bellavia Janet (detta Bell) Ribeiro-Addy. Guarda caso tutte donne e tutte di origini immigrate…L’economista e docente britannica Faiza Shaheen ha scritto: «la storia, si dice, è scritta dai vincitori, ma come dimostrano questo libro e la carriera della Abbott, la storia scritta dai perdenti può essere di grande ispirazione».

In copertina: Diane Abbot, su Wikimedia Commons

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