ITALIA

Taranto, la ristrutturazione dello stadio segna la fine di un’epoca

Lo Iacovone ha contribuito a dare forma all’identità della città: oggi è in gioco il futuro del tifo e la sua relazione con il tessuto urbano. Ne abbiamo parlato con “StiT – Sul tifare il Taranto”, un esperimento collettivo sulla Taranto calcistica e tutto ciò che la circonda

Cala il sipario sullo stadio Iacovone di Taranto. L’inizio della demolizione dell’impianto, che sarà oggetto di profondi interventi di riconfigurazione strutturale in vista dei Giochi del Mediterraneo del 2026, segna la fine di un’epoca per la città e per il suo tifo. Lo Iacovone, per lunghi decenni, non ha ospitato soltanto un campo di calcio: ha contribuito a formare l’identità collettiva e ha rappresentato un simbolo di appartenenza culturale per generazioni di tifosi.

La storia del tifo a Taranto si intreccia profondamente con le trasformazioni sociali, politiche e culturali della città. Allo stesso tempo, le vicende del tifo locale si mescolano con la complicata parabola del movimento ultras in Italia. Oggi questo mondo sembra attraversare un momento di profonda crisi: gli interventi normativi a carattere punitivo e i cambiamenti culturali sistemici mettono in discussione l’essenza stessa di un fenomeno che ha rappresentato per decenni un modo alternativo di vivere il calcio e di attraversare la società.

La demolizione e la riconfigurazione dello stadio Iacovone certifica la fine di un’epoca? Cosa resta del movimento ultras a Taranto e nel resto del Paese? C’è spazio per immaginare un rilancio del tifo organizzato? Con quali caratteristiche?

Ne parliamo con StiT – sul tifare il Taranto un esperimento di ricerca pubblica, aperta, diffusa e collettiva che prova ad alimentare il dibattito su ciò che riguarda il Taranto calcio e i suoi dintorni, con particolare attenzione alle implicazioni sociali e politiche, per riflettere sul futuro del tifo a Taranto e della sua relazione con la città

  1. Qual è stato il ruolo dello stadio Iacovone nella costruzione dell’identità collettiva della città?

Nella stragrande maggioranza delle società contemporanee e non solo di quelle cosiddette occidentali, lo stadio è centro aggregatore di energie, pulsioni e desideri come forse nessun altro nei centri urbani e rurali. Possiamo definirlo una contemporanea agorà che ridisegna le geografie del tessuto urbano, dove convergono migliaia di soggettività come forse in nessun altro luogo. Per non parlare di quanto sia importante per la comunità che lo vive. Nelle ultime settimane lo Zaccheria di Foggia è stato teatro di un toccante funerale collettivo, davanti a migliaia di persone giunte da ogni dove, per i tre giovani tifosi morti in un incidente stradale. Lo stadio Iacovone non fa differenza: il feretro di Massimo Battista, tifoso e consigliere comunale deceduto a causa di un tumore, è stato portato in Curva per un ultimo saluto anche ai gradoni che tanto ha frequentato. Non è un caso che, quando qualche anno fa è stato posto il banner di “Acciaierie d’Italia” sugli spalti come primo passo per una sponsorizzazione, sia stato prontamente rimosso da alcuni tifosi. Lo stadio è un luogo rivendicatissimo. Il sociologo tarantino Nistri, nel suo Tarentinità. Un’identità residuale, scriveva che i Riti della settimana santa, molto sentiti in tutto il territorio, sono ormai l’unico momento e luogo dove questa identità collettiva si declina; ci permettiamo di aggiungere, come mostrato perfettamente nel documentario Santa Maledizione (Tommaso Paris, 2024), anche quello che accade allo Iacovone, sia per frequenza e volume – migliaia di persone per due volte al mese – ma anche per quello che viene manifestato: un attaccamento a una squadra che riprende il nome, i colori e i simboli in cui si rispecchia un intero territorio.

2. Quali caratteristiche ha avuto il movimento ultras a Taranto? Negli ultimi anni, quali sono stati i principali cambiamenti che hanno investito questo mondo?

Forse non sta a noi rispondere alla prima domanda, perché il nostro ruolo, qualunque esso sia, non è quello di portavoce della tifoseria o della frangia ultras ma anche perché si tratta di dinamiche interne, in divenire e delicate per cui una breve descrizione ci sembra possa essere controproducente. Tuttavia ci sembra doveroso sottolineare due questioni relative alla sempre più pervasiva mannaia repressiva: la prima riguarda inevitabilmente l’utilizzo di Daspo e di multe per arginare non solo i fenomeni della violenza ma anche quelli relativi al dissenso. I componenti della Gradinata Taranto, ad esempio, sono stati multati per diverse migliaia di euro complessive per aver esposto degli striscioni contro l’ex-Ilva di Taranto e per denunciare le morti sul lavoro. Inoltre, nelle serie inferiori i divieti per le trasferte più importanti e quindi più “a rischio” sono diventati una normalità e questo non può che incidere sulla pratica e sulle gerarchie. Il ricambio generazionale da questo punto di vista diventa sempre più complicato e il rischio è che si giochi su questioni che esulano dalle dinamiche ultras in quanto tali. In ogni caso, anche se cambiano interpreti e generazioni, quello che è accaduto a maggio a Vicenza, la trasferta più importante degli ultimi 15 anni, ci mostra che il “gene” della tifoseria è sempre lo stesso.

3. Qual è stato, dal vostro punto di vista, il momento apicale del tifo organizzato a Taranto? Avete dei ricordi o delle immagini da condividere?

Sin dagli anni ‘80, agli albori del movimento, Taranto ha vissuto uno dei momenti più alti della sua storia. mostrando un certo protagonismo ed entrando di diritto nella storia ultras, anche se la squadra ha partecipato al massimo a campionati di serie B. Il tutto, con uno stile peculiare: ad esempio, Rebels Korps e Kollettivo Alkooliko vennero definiti tra i primi gruppi hooligans italiani, mentre agli albori del nuovo millennio la Curva Nord veniva definita la curva “più argentina” d’Italia. Il tifo organizzato mostrò poi una certa coerenza nel reagire ai provvedimenti restrittivi di fine anni 2000: il decreto Amato prima e l’introduzione della tessera del tifoso poi. In risposta al primo, emanato all’indomani della morte dell’ispettore Raciti a Catania, la curva Nord decise di disertare tutte le partite interne ed esterne di quel finale di campionato, nonostante i risultati esaltanti di una squadra che sfiorò il ritorno in B dopo circa tre lustri. Una volta rientrati sui gradoni, gli ultras decisero comunque di lasciare la curva spoglia piuttosto che piegarsi al gioco delle autorizzazioni preventive di striscioni e bandiere. La stessa “linea della fermezza” si registrò qualche anno dopo, quando la tdt divenne obbligatoria per andare in trasferta. La curva preferì infatti rinunciarvi e non certo per ragioni di comodo: anche quelli erano anni in cui la squadra faceva sognare e restare a casa rappresentava un sacrificio particolarmente doloroso per chiunque fosse legato a quei colori.

  1. La parabola del tifo organizzato a Taranto è in linea con quella del movimento ultras italiano oppure ha caratteristiche peculiari?

Forse definirla parabola è prematuro. Dopo la pandemia si può toccare con mano una voglia di tornare a vivere le esperienze di fruizione dal vivo e da questo punto di vista anche il movimento ultras ci sembra che ne stia giovando in termini numerici. Paradossalmente Taranto è una piazza che vede al suo interno una particolarmente numerosa presenza di gruppi organizzati. Innanzitutto questo preclude la possibilità di sviluppare rapporti di amicizia collettivi e duraturi con altre tifoserie, anche se allo stesso tempo diventa un laboratorio permanente di dialogo tra diverse anime, aspetto molto interessante in una città politicamente frammentatissima. Se questo può a volte rappresentare un problema in termini di coordinamento e organizzazione, di sicuro consente una partecipazione più numerosa e diversificata.

  1. Potete condividere un ricordo particolarmente esaltante e uno drammatico, dal punto di vista sportivo, vissuto nello stadio Iacovone?

È forse una domanda un po’ troppo soggettiva. Forse per individuare l’ultima vera grande gioia c’è la promozione nell’allora serie C1 conquistata contro il Rende sotto un diluvio storico, ai supplementari, davanti a oltre 20mila spettatori. Alla fine della partita, la folla ha invaso il campo da gioco per una modalità di festeggiamento unica. Quelli drammatici invece sono innumerevoli ma non possiamo non nominare il ritorno della finale playoff, valevole per la B, tra Taranto e Catania, che ha visto gli Etnei conquistare la promozione. La partita ha rappresentato uno spartiacque per entrambe: il Catania ha conosciuto il periodo più importante della sua storia, noi invece, che eravamo all’apice di un entusiasmo mai più sperimentato, quello più nero. Anche perché nella memoria collettiva resta il dubbio sul regolare svolgimento della partita e le voci rincorse a riguardo sono moltissime. A ragione o meno, questa lacuna di senso ha radicato nella tifoseria un “retaggio del sospetto”. Un paradigma con cui si interpreta spesso tutto ciò che accade intorno al Taranto, e che è curiosamente in continuità con quello che riguarda il rapporto tra territorio e il dramma sanitario che lo affligge: è sufficiente un raffreddore insolito o una tosse più acuta che subito si instilla il dubbio che la causa sia un cancro, al punto che c’è chi dice che la patologia più diffusa a Taranto non è il tumore ma la paura di avercelo. Forse avrebbe fatto poca differenza, ma solo immaginando cosa sarebbe potuta essere Taranto e la sua tifoseria con un esito diverso ci fa venire i brividi.

  1. Con l’inizio della demolizione dello Iacovone, cosa potrebbe cambiare nel rapporto tra tifosi, società e città?

Abbozzare una risposta anche in questo caso ci sembra prematuro, sono ancora troppi i punti interrogativi; dipende da dove il Taranto giocherà le partite casalinghe e, inevitabilmente, dal destino sportivo della squadra. Ricordiamo che inoltre al momento la frangia più calda della sua tifoseria conta non meno di 150 diffidati e, forse (ce lo auguriamo!), tutto questo potrebbe portare a una nuova compattezza come non si sperimentava da tempo.

  1. Come sarà ristrutturato lo stadio? Quale sarà lo spazio per il tifo organizzato nel nuovo impianto?

Purtroppo non sono ancora pubblici molti dei dettagli del progetto. Sicuramente ci sarà l’apertura di un’ulteriore curva, la “Sud”, ormai da tanti anni chiusa al pubblico locale e destinata solamente ai tifosi ospiti. C’è da dire che comunque Taranto in questo senso è oggetto di una congiuntura per certi versi “fortunata”: il nuovo stadio verrà costruito interamente con fondi pubblici quindi è possibile e auspicabile che alcune idee architettoniche che vediamo in alcuni stadi costruiti interamente da privati possano essere scongiurate.

  1. La nostalgia è una cifra costante nel movimento ultras. Cosa vi mancherà del vecchio stadio?

Sicuramente i gradoni in cemento della curva sprovvisti di seggiolini. Si tratta di una convergenza felice tra due necessità: quella del risparmio di chi ha costruito e pensato – e ristrutturato – quegli spazi; e quella di chi li attraversa, che generalmente assiste alla partita in piedi, negando quindi la necessità di una “comoda” seduta e orientandosi verso una partecipazione “scomposta” e quindi più sguaiata, indecorosa ma anche più improntata al sostegno per la propria squadra o all’opposizione a quella avversaria. Il nuovo stadio, invece, a quanto ci è dato sapere, prevede i seggiolini in tutti i settori, in barba alle norme di sicurezza che si stanno delineando. Nel Regno Unito e in Germania, infatti, in diversi stadi si stanno smantellando i seggiolini in specifici settori, creando delle “safe standing area”, perché ci si è resi conto che in alcuni spazi la presenza dei seggiolini non è solo inutile ma può essere anche pericolosa. Su questo aspetto si poteva sicuramente fare molto di più, sarebbe bastato ascoltare le esigenze della tifoseria o, per l’appunto, guardarsi intorno e vedere in che direzione stanno andando gli ultimi ammodernamenti degli impianti calcistici in Europa. Purtroppo, però, quella che doveva essere un’occasione di confronto sul futuro del ‘luogo collettivo’ per eccellenza è stata persa, trasformando un potenziale momento di partecipazione in una disperata corsa contro il tempo per non perdere Giochi e finanziamenti.

  1. C’è spazio per immaginare, su scala nazionale, nuove forme di tifo organizzato, con caratteristiche diverse da quelle dominanti, segnate – nonostante lodevoli eccezioni – dall’egemonia di gruppi neofascisti e/o razzisti?

Ci sono due ordini di questioni legate tra loro. La prima riguarda l’etichetta di fascista: crediamo che la sua applicazione nel discorso pubblico italiano abbia perso la sua accezione politica rimandando più che altro a una questione di comportamento violento e prevaricatorio, che rende di fatto la sua semantica talmente diluita da poter essere applicata in modo indiscriminato. Pensiamo ad alcune manifestazioni studentesche o a quelle pro-Pal, che alcuni osservatori definiscono “fasciste” per la presenza di cosiddetta “violenza”, sradicandola, più o meno intenzionalmente, dal contesto sociale e politico in cui emerge. La seconda, ormai congenita, è lo sguardo un po’ classista con cui una certa area “progressista” si disinteressa di fenomeni sociali controversi, bollandoli come anti-sociali, anche se quello che succede in spazi attraversati da migliaia di persone, dove vige ancora una ferrea divisione in classi sociali, dovrebbe essere di grande interesse. Allo stadio ad esempio chi possiede più soldi può usufruire di maggiori comodità (e spesso condivide il punto di vista con istituzioni politiche e mediatiche). Chi paga meno, è costretto in una situazione di scomodità e marginalità, ma si “riprende la scena” con modalità di supporto che diventano sovversive e indecorose solo perché non rispettano certi canoni. Questo snobismo non è nuovo ma anzi dura ormai da diversi decenni e ha portato a indebolire alcune istanze (come l’aggregazione legata ad antirazzismo, anticlassismo o alla critica all’autorità repressiva) e contestualmente a lasciare terreno fertile perché le stesse questioni venissero declinate dalla destra. Ovviamente non basta interessarsene: star lì a tifare è una cosa che viene da dentro. E, come nell’arte delle barricate, nessuno è maestro.

  1. Cosa cova sotto le macerie del movimento ultras italiano?    

Sono decenni che si prova ad alimentare il sogno di un movimento ultras unito per rivendicazioni più o meno politiche, ma anche di semplice ingresso nella governamentalità del pallone. Pensiamo alla battaglia contro la finanziarizzazione, o contro i buoni sentimenti del “fair play” che si sgretolano davanti alle evidenze – pensiamo ai due pesi e due misure utilizzati da Fifa e Uefa nei confronti di Russia e Israele. Ma anche, più banalmente, l’abbassamento dei prezzi dei biglietti che ormai, soprattutto nella massima serie e nelle competizioni europee, sono radicalmente esclusivi; ma anche la libertà di trasferta, le sperimentazioni della repressione che hanno visto negli stadi un laboratorio privilegiato e che poi, come molti ultras avevano previsto e come Valerio Marchi aveva indagato, hanno trovato applicazione anche in altri contesti urbani e politici. Per certi versi sarebbe anche auspicabile che un’istanza di rottura si doti di strumenti collettivi e condivisi di critica al sistema calcio che è da sempre qualcosa di marcio, anche se forse essere ultras è innanzitutto un gioco, serio come sanno esserlo solamente i giochi, ma appunto un gioco che si nutre di rivalità e opposizioni conflittuali e quindi un’istanza unitaria è costitutivamente impossibile. Ma, insomma, mai dire mai: chissà cosa ci riserverà il futuro!

  1. Un’ultima domanda: come nasce il progetto “Sul tifare il Taranto”? Quali obiettivi persegue? Con quali modalità?

    Un tentativo di definizione può essere rappresentato dalla modalità con cui sono state costruite queste risposte: in modi diversi, hanno partecipato almeno una decina di persone, tra ultras, “cani sciolti”, fuorisede, che si sono confrontate provando a restituire un punto di vista collettivo, appunto, sul tifare il Taranto. I social – facebook e instagram, per ora – rappresentano un gancio e tutti i nostri interventi si basano sull’anonimato, non perché non vogliamo metterci la faccia ma perché pensiamo sia un modo per evitare protagonismi e perché un’istanza senza volti ci sembra crei le condizioni per una maggiore partecipazione. Per altri versi potrebbe essere intesa come una ricerca-azione, diffusa e collettiva, di ispirazione etnografica, che prova ad alimentare il dibattito e a restituire uno spazio di discussione alternativo a quello degli “ingessati” discorsi mediatici. Al momento, comunque, ci stiamo concentrando in particolare su alcuni temi tra di loro legati a doppio filo: il corpo collettivo, la sperimentazione del desiderio e come questi possono produrre nuove alleanze e coalizioni, diventando magari un laboratorio sociale capace di opporre modelli di città partecipativi e radicalmente differenti da quelli dispotici che la governano, sia in ambito sportivo che politico.

Tutte le immagini sono del collettivo StiT – Sul tifare il Taranto

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