approfondimenti
EUROPA
Albania: un’inedita mobilitazione transnazionale per la libertà di movimento
Le contraddizioni, i pericoli e la battuta d’arresto del progetto di esternalizzazione dei migranti in Albania getta una luce sinistra sulle nuove politiche migratorie della Ue. Le mobilitazioni locali e transnazionali narrate attraverso un’intervista alle attiviste italiane e albanesi
L’1 e il 2 dicembre 2024, l’Albania sarà attraversata da una mobilitazione transnazionale contro l’accordo tra Rama e Meloni e le politiche di detenzione delle persone migranti. Organizzata dal Network Against Migrant Detention, la manifestazione rappresenta un inedito esperimento politico a cavallo dei due paesi.
Le piazze di Tirana e i luoghi simbolo del trattenimento, Gjader e Shengjin, si trasformeranno in spazi di lotta contro un modello che le attiviste e gli attivisti definiscono neocoloniale, caratterizzato da processi di selezione tra chi è “vulnerabile” e chi è “trasferibile” profondamente violenti, da trattenimento generalizzato e dal confinamento geografico.
L’iniziativa promossa dal Network Against Migrant Detention assume una doppia rilevanza politica. Da un lato, rappresenta un’occasione cruciale per spostare il dibattito sull’accordo tra Italia e Albania dal piano della legittimità formale della sua applicazione a quello della mobilitazione attiva. Dall’altro, questa azione non si limita a essere una reazione alle politiche adottate da Italia e Albania attraverso il protocollo, ma si inserisce in una prospettiva più ampia, di respiro europeo. Molti altri paesi e diverse articolazioni della governance europea osservano attentamente la dimensione applicativa del protocollo: il confinamento dei migranti in Albania costituisce infatti un esperimento su scala continentale. In questo contesto, la mobilitazione assume un significato particolarmente innovativo, inviando un messaggio forte a chiunque ipotizzi di replicare il “modello Albania” in altri contesti territoriali.
Questa mobilitazione si inserisce in un percorso che ha visto il consolidarsi di alleanze inedite tra realtà albanesi e italiane: un fronte transnazionale che sfida l’assioma della delocalizzazione e dell’esternalizzazione dei confini e la sua matrice detentiva, articolandosi in due giornate di mobilitazione tra Shengjin, Gjader e Tirana. In questa intervista, grazie al confronto con Nicoletta Alessio e Alexia Malaj, attiviste del Network Against Migrant Detention, esploriamo le ragioni alla base di questa mobilitazione e le voci di chi, in Italia, in Albania e oltre, lotta per la libertà di movimento.
Quali sono le ragioni principali dietro questa mobilitazione organizzata per l’1 e il 2 dicembre in Albania?
Alexia. La mobilitazione del 1° e 2 dicembre in Albania nasce dall’urgenza di opporsi a un modello neocoloniale di esternalizzazione dei confini, che calpesta i diritti fondamentali delle persone in movimento e compromette il principio di sovranità dell’Albania. Si tratta di un accordo disumano, che non può essere accolto con silenzio o indifferenza. Al contrario, ci uniamo nella lotta per la chiusura dei centri italiani per migranti in Albania e per impedire che un simile modello venga replicato da altri paesi europei. Lottiamo inoltre contro il sistema disumano dei CPR, che criminalizza e deumanizza le persone migranti e viola numerosi diritti umani.
Nicoletta. L’accordo è sospeso in attesa della pronuncia della Corte di Giustizia Europea, ma pensare che ciò basti a fermare queste politiche sarebbe ingenuo. Il protocollo Italia-Albania è una sperimentazione del Patto UE su migrazioni e asilo, che i Paesi membri dovranno implementare dal prossimo anno, con l’esternalizzazione al centro e impatti devastanti anche sui Paesi extra-UE. Da anni terreno di esternalizzazione, l’Albania vede ora la società civile italiana e albanese unite contro questo modello, per impedirne la diffusione e le sue gravi conseguenze.
In che modo l’accordo Rama-Meloni rappresenta una minaccia per i diritti dei migranti e per la democrazia nello spazio europeo?
Alexia. L’accordo Rama-Meloni rappresenta un piano di matrice coloniale che viola gravemente i principi di dignità umana e del diritto internazionale. Le operazioni della nave Libra del 16 ottobre e dell’8 novembre scorsi, entrambe fallimentari, hanno dimostrato l’inutilità pratica di questo accordo, con tutti i migranti sbarcati in Albania poi rimpatriati in Italia. L’accordo viola il principio di non respingimento sancito dalla Convenzione sui Rifugiati e le norme internazionali sullo sbarco in luoghi sicuri, aggravando le condizioni fisiche e mentali di persone già vulnerabili.
Preoccupante è il trattamento riservato a soggetti fragili, come minori, che, dopo un’identificazione sommaria, sono stati subito rimandati in Italia, senza ricevere adeguata assistenza. Il trasferimento in Albania ha causato ulteriore stress e condizioni inumane, configurandosi come un abuso sistematico che calpesta anche la sovranità dell’Albania. Queste misure, con il pretesto del controllo delle frontiere, perpetuano dinamiche neocoloniali e richiamano oppressioni storiche.
L’esperienza italiana con i CPR dimostra chiaramente che strutture di questo tipo generano violazioni gravi, tra cui morti e torture. Estendere questo modello all’Albania aggrava tali problemi, riduce la responsabilità e aumenta i rischi di ulteriori tragedie.
Nicoletta. Gli accordi di esternalizzazione delle politiche migratorie europee verso paesi extra-UE trovano spesso la complicità di leader con scarsa legittimazione democratica, che cercano alleanze estere per mantenere il potere quando manca il consenso interno. Un esempio evidente è la Tunisia, dove tali politiche aggravano le derive autoritarie attraverso finanziamenti agli apparati securitari e repressivi.
Le compagne albanesi del Network segnalano indicatori preoccupanti anche in Albania: spopolamento per la migrazione all’estero, libertà di espressione e stampa limitate e un contesto politico contestato. Rama, criticato dai connazionali all’estero, come nel Regno Unito dove la popolazione albanese subisce discriminazioni legali, sceglie invece di stringere accordi con il governo Starmer. La Meloni, intanto, parla di una «storica amicizia italo-albanese», che appare più come una “partnership in crime” ai vertici, a scapito delle società civili di entrambi i paesi.
Quali sono i rischi di estendere i centri di detenzione per migranti in altri paesi come l’Albania e oltre l’Albania?
Alexia. L’esistenza dei centri di detenzione per migranti è già problematica, figuriamoci estenderli a paesi in cui strutture del genere non esistono e in cui di opera in un contesto di potere asimmetrico. Non è la prima volta che l’Italia stipula accordi simili con paesi terzi, come Libia e Tunisia. L’Italia e l’UE esercitano una pressione significativa su un’Albania corrotta e in attesa di entrare nell’Unione Europea da oltre 10 anni.
Queste politiche dipingono l’Albania come subordinata alla necessità di accettare Frontex nei propri confini e costruire centri di detenzione per migranti, quasi fosse una condizione per aspirare all’Occidente. Non è un caso che, subito dopo la prima operazione della nave Libra, l’UE abbia ufficialmente avviato i negoziati con l’Albania. Diventare complici di violazioni dei diritti umani sembra essere stato trasformato in un requisito per l’ingresso nell’UE.
L’Albania non conosce questo sistema, se non attraverso l’esperienza diretta degli albanesi oppressi nei centri di detenzione europei, soprattutto nel Regno Unito, dove rappresentano la maggioranza delle persone rinchiuse. Questo accordo è una vergogna e, come diaspora albanese e figli di migranti, siamo ancora più indignati.
Esternalizzare il sistema significa meno controllo, meno responsabilità e maggiori violazioni dei diritti umani. È allarmante che Ursula von der Leyen consideri questo modello un esempio da seguire per altri paesi europei. Ancora più preoccupante è l’interesse del Regno Unito a replicare questo modello, dopo l’incontro tra Edi Rama, Giorgia Meloni e Keir Starmer.
Il paradosso è evidente: l’Albania si spopola, i giovani rischiano la vita attraversando la Manica, mentre il paese diventa complice di abusi sistematici. Le due operazioni Libra hanno dimostrato il fallimento di questo sistema, con migranti strumentalizzati per propaganda e milioni di euro sprecati senza risultati. Questo sistema deve cessare di esistere in Albania e non deve mai essere esteso ad altri paesi.
Cosa rispondete a chi sostiene che i centri di detenzione per migranti e la delocalizzazione delle frontiere sono una soluzione necessaria per gestire i flussi migratori?
Nicoletta. Rispondo che nei nostri territori assistiamo allo smantellamento del welfare pubblico, dalla sanità all’istruzione, fino ai diritti sul lavoro e in famiglia. Rispondo che, mentre attendiamo mesi per un intervento chirurgico essenziale, il governo ha stanziato oltre 600 milioni per l’accordo Italia-Albania. Rispondo che, mentre siamo costretti a cercare casa per l’aumento dei canoni d’affitto, lo stesso governo spende nove milioni di euro all’anno per alloggiare forze di polizia italiana in Albania, che sembrano girarsi i pollici o, peggio, torturare persone che non conosciamo e che non ci hanno fatto nulla.
Rispondo che siamo abbandonatə sotto il fango delle inondazioni, che non possiamo più permetterci una casa, che veniamo sfrattatə e spostati fuori città per lasciare spazio ai big degli affitti brevi. Che manca l’edilizia pubblica, che gli ospedali sono al collasso, che persino le scuole cadono a pezzi. Che ci ripetono continuamente che non ci sono soldi, che bisogna tagliare, che serve fare spending review.
Rispondo che passeggiamo accanto ai turisti per le strade delle nostre città, cercando di ignorare la disumanità di lasciare persone vivere per strada, dormire al freddo, esposte alle intemperie, mentre deleghiamo al volontariato la distribuzione di pasti caldi e un supporto temporaneo. Cosa dice questo della nostra società? Cosa racconta della nostra idea di democrazia? È questa l’immagine di un paese di cui andare fieri?
Rispondo che dobbiamo superare quel senso di impotenza che ci porta a prendercela con chi sta peggio di noi. Rispondo che non saremo mai sicurə finché la nostra società non sarà fondata sulla cura: una politica che garantisca il bene comune e in particolare scuole, case e sanità pubblica, affinché ciascunə sia liberə di pensare ai propri progetti o unirsi ad altrə in modo creativo e consapevole.
Rispondo, quindi, che non c’è alcuna necessità di “gestire” i flussi migratori: i problemi sono altrove e il trattamento riservato alle persone migranti è una cartina tornasole dello stato delle nostre democrazie. Rispondo che detenzione ed esternalizzazione non sono una gestione, ma una forma di non-gestione: drenano risorse pubbliche per allontanare le persone, rinchiuderle e sottrarle allo sguardo della collettività.
Alexia. Rispondo con rabbia. Sono arrabbiata per come i corpi dei migranti vengano continuamente strumentalizzati e disumanizzati, ridotti a numeri e strumenti di propaganda. Sono stanca di queste politiche portate avanti dai paesi occidentali, dove vige un sistema razzista e capitalista che dipinge la migrazione di persone non-occidentali come un problema e una minaccia che giustifica il rafforzamento delle frontiere. Sono proprio quelle stesse frontiere ad alimentare la cosiddetta immigrazione “clandestina”.
Non sono una soluzione e non c’è la volontà politica di trovare una “soluzione” ma quella di portare avanti politiche razziste e di dominio dei paesi occidentali sotto il nome della democrazia e dei diritti umani, demonizzando le persone in movimento e trasformarle in capri espiatori. L’esternalizzazione delle frontiere in paesi come l’Albania non solo perpetua un sistema neocoloniale ma rafforza un controllo oppressivo dell’Italia e dell’Europa sull’Albania, trasformandola in complice di violazione dei diritti umani. Queste politiche altro non sono che un modo per le élite politiche di distogliere l’attenzione da altri problemi sociali, come la disuguaglianza e l’erosione dei servizi pubblici. Infatti, mentre centinaia di milioni di euro vengono sperperati per portare avanti politiche disumane che non fermeranno assolutamente le persone ad attraversare i confini ma alimenteranno tragedie inevitabili, vediamo e viviamo le ingiustizie e le disuguaglianze che questo sistema porta avanti, incurante dei propri cittadini che muoiono sui posti di lavoro, che non hanno diritto alla casa, che vengono sfrattati, che non hanno accesso alla sanità.
Quali iniziative di sensibilizzazione e strumenti di consapevolezza ritenete più efficaci per raggiungere un pubblico internazionale, al di fuori di Albania e Italia, al fine di informare e mobilitare l’opinione pubblica?
Nicoletta. Ci sono associazioni, collettivi e individui che lottano contro i centri detentivi e i campi chiusi in diversi paesi europei e alle frontiere balcaniche. Molte di noi collaborano costantemente con queste realtà, oltre che con Ong attive nelle operazioni di soccorso nel Mediterraneo Centrale (come Mediterranea, parte del Network Against Migrant Detention). Lo scambio di informazioni con le Ong SAR è stato essenziale per contestualizzare le procedure in mare legate al protocollo e sensibilizzare queste organizzazioni, soprattutto quelle con sede all’estero, sul sistema italiano della detenzione amministrativa e dei CPR. Dentro il network ci sono contatti anche con la Tunisia, dove la situazione peggiora continuamente e dove persino i gesti di solidarietà sono rischiosi, rafforzando il bisogno di dissenso contro gli accordi con Kais Sayed.
Lo scambio di informazioni tra solidali oltre i confini italiani e albanesi è costante e fondamentale. La sfida è sensibilizzare le popolazioni europee, dove si prendono decisioni che penalizzano anche chi vive fuori dall’UE. Non è semplice, con il vento delle destre reazionarie che soffia forte in tutta Europa.
Per questo manifestiamo in Albania, dove l’attenzione mediatica è alta e denunciamo che l’accordo Italia-Albania, nonostante il suo fallimento, rappresenta un modello pericoloso per tutta Europa. Con questa mobilitazione chiediamo anche ad altre realtà europee di attivarsi, perché questo accordo non riguarda solo noi.
Questa mobilitazione nasce da una stretta collaborazione tra attiviste e attivisti dall’Italia e dall’Albania: come nasce il Network Against Migrant Detention? Quali obiettivi persegue?
Alexia. Il Network Against Migrant Detention nasce dall’unione di gruppi di attiviste e associazioni italiane e albanesi impegnati nella difesa dei diritti dei migranti e nella lotta contro le oppressive politiche migratorie europee. Fin dalla firma dell’accordo Rama-Meloni, nel novembre 2023, diverse realtà in Albania e in Italia si sono mobilitate per opporsi a questo patto, con l’obiettivo di impedirne l’attuazione.
Nel gennaio 2024, come Zanë Kolektiv abbiamo pubblicato un comunicato congiunto, scritto insieme a collettivi albanesi in Albania e Kosovo (Shota) e in Grecia (MiQ), che invitava a una mobilitazione collettiva contro l’accordo. Successivamente, abbiamo organizzato incontri online che hanno coinvolto collettivi albanesi come Grupi Ata e la rete italiana Mai più lager – No ai CPR. Qui c’è stato uno dei primi contatti tra realtà italiane e albanesi sul territorio.
Ad aprile 2024, grazie a una collaborazione tra Zanë Kolektiv e Melting Pot Europa, è stato organizzato un viaggio di ricerca in Albania per documentare la costruzione dei centri di detenzione per migranti e raccogliere testimonianze di attivisti, avvocati e giornalisti sul territorio. Questo viaggio ha portato a un contatto più stretto con collettivi locali, come Europe Other, e ha dato vita a due episodi del podcast di Melting Pot. La collaborazione avviata durante questa esperienza non si è più interrotta, consolidandosi nel tempo.
A partire dall’estate del 2024, è stato creato un gruppo WhatsApp che ha unito realtà italiane e albanesi. Il gruppo si è ampliato progressivamente nei mesi successivi, coinvolgendo un numero sempre maggiore di collettivi e associazioni, fino alla nascita ufficiale del Network Against Migrant Detention, una rete transnazionale determinata a contrastare l’accordo Rama-Meloni.
Nicoletta. In parallelo alla collaborazione tra Melting Pot Europa, Zanë Kolektiv e Europe Other, i collettivi NO CPR italiani in occasione della manifestazione organizzata a Milano il 6 aprile hanno rinnovato il loro impegno per un maggior coordinamento nazionale. Lì si sono gettate le basi per l’assemblea nazionale che si è svolta a Bologna il 13 ottobre e da lì in poi la partecipazione delle realtà albanesi e della diaspora è stata costante. Per questo ora il Network Against Migrant Detention è uno spazio dove costruire un percorso collettivo, che al momento ha tutte le energie concentrate sul mettere la parola fine all’accordo Italia-Albania, ma che ha l’obiettivo programmatico di contrastare la detenzione delle persone migranti ovunque si concretizzi.
Oltre a solidali, attiviste e attivisti, come avete coinvolto comunità locali e società civile contro il protocollo?
Nicoletta. Ognuna e ognuno si sforza di sensibilizzare e coinvolgere nuovi attori e attrici sui territori dove opera. Noi di Melting Pot Europa ci siamo messi in ascolto delle compagne di Zanë Kolektiv, di Europe Other nonché delle persone che ci hanno fatto conoscere: Erida Skendaj, direttrice dell’Albanian Helsinki Committee, Endi Shabani, politico e intellettuale del movimento Nisma Thurje e membro del consiglio comunale di Tirana, ma anche cittadini e professionisti che abitano nel comune di Lezha dove entrambi i centri italiani sorgono. Nel nostro viaggio a maggio abbiamo chiesto anche ai passanti a Shengjin e Gjader cosa ne pensassero di queste prigioni e quello che abbiamo raccolto e restituito nel progetto podcast di Radio Melting Pot è un riscontro molto diverso da quanto raccontato da molti media albanesi. Quello che ci è arrivato non è odio xenofobo o orgoglio sovranista, ma rammarico e senso di impotenza di fronte all’ennesima rappresentazione di una politica ingiusta che di certo non pensa ai bisogni del territorio.
Qual è stato il processo organizzativo dietro questi due giorni di azione?
Nicoletta. La mobilitazione non sarebbe stata possibile senza il contributo fondamentale delle attiviste albanesi, il cui impegno è stato decisivo. Un ringraziamento speciale va alle compagne di Europe Other, che si sono assunte la responsabilità e l’onere di organizzare l’alloggio per quasi 150 persone, pur non potendo contare su un’esperienza consolidata o su infrastrutture paragonabili a quelle dei centri sociali storici italiani. Si tratta di giovani donne che, oltre a dedicarsi a questa complessa organizzazione, affrontano quotidianamente le difficoltà economiche e politiche del vivere in Albania. A loro va la nostra più profonda gratitudine; in attesa di poter ricambiare il loro sforzo con un impegno altrettanto significativo, ci impegniamo a far sentire loro la nostra vicinanza e solidarietà piena e incondizionata.
Alexia. Un grande merito va alle compagne in Albania che, con grande impegno, stanno rendendo possibile l’organizzazione di questi due giorni di protesta, nonostante le difficoltà del contesto politico e sociale nel quale operano. Il loro contributo è stato indispensabile per la realizzazione di questa mobilitazione.
Desidero inoltre sottolineare che l’opposizione all’accordo in Albania è iniziata molto prima dell’avvio della costruzione dei centri di detenzione, mostrando una tempestività e una determinazione che in Italia sono purtroppo mancate. Nel nostro Paese, infatti, il tema è rimasto in silenzio fino a quando i lavori di costruzione non sono stati avviati a marzo, forse nella speranza che il progetto non si concretizzasse mai. La differenza di reazione evidenzia l’importanza del ruolo svolto dalle attiviste albanesi nel portare alla luce le problematiche legate a questo accordo.
Cosa può fare chi non ha modo di partecipare direttamente alla mobilitazione per sostenere questa iniziativa e il percorso di questo network?
Nicoletta. Può mettersi in contatto con noi attraverso le pagine social delle realtà aderenti o l’indirizzo email comune: againstmigrantdetention@gmail.com. Possono unirsi alle realtà del network e supportarle nelle attività sui territori. Possiamo noi supportare loro, individualmente o le loro associazioni, nell’organizzazione di momenti di formazione e sensibilizzazione su temi della detenzione amministrativa e dei CPR in Italia e in Albania, sugli accordi con paesi terzi come la Libia e la Tunisia.
Di certo invitiamo tutte e tutti a sostenerci e rimanere aggiornate e aggiornati sulle prossime iniziative, perché dobbiamo riprenderci lo spazio pubblico, in tutti i sensi.
Cosa accadrà dopo questa mobilitazione? Ci sono piani per azioni successive?
Nicoletta. Tutte e tutti nutriamo timori per lo scenario futuro che il DDL 1660, rinominato il “decreto paura”, vuole imporre in tutta Italia. Questo decreto cala l’accetta della repressione e del carcere a chiunque osi esprimere dissenso e se la prende in particolar modo con le persone migranti e già detenute in CPR. Come Network nasciamo anche da questa considerazione e ci siamo già impegnati per prendere parte anima e corpo alle manifestazioni di dissenso in programma su questo fronte.
Per quanto riguarda il lavoro interno al Network, continueremo a pensarle tutte finché l’accordo Italia-Albania non sarà storia passata e parallelamente richiameremo i tavoli di lavoro che abbiamo organizzato per l’assemblea di ottobre a Bologna, per proseguire con la nostra lotta per lo smantellamento del sistema CPR e l’abolizione della detenzione amministrativa in Italia e ovunque essa si manifesti.
La foto di copertina è di Marta D’Avanzo
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