approfondimenti

MONDO

USA oltre il bivio. Trump, il crepuscolo della Repubblica

Prende forma il prossimo governo USA, tra accelerazionisti di Musk, oligarchi della plutocrazia, teocrati apocalittici, uniti per istaurare un regime che aspira a un mondo realmente post-democratico

La scorsa settimana, l’ordine regionale dei giornalisti di Los Angeles, ha inviato una circolare per segnalare agli iscritti a rischio di dossieraggio e ha fornito (per chi possa essere preoccupato della propria incolumità) il nuovo numero verde disponibile ai membri della categoria che il presidente entrante ritiene “nemica del popolo.” In questa segnalazione c’è un po’ il sunto degli infausti presagi che agitano non solo la stampa ma l’università e molte altre istituzioni americane in questo incerto interregno. Per citare Marc Cooper, decano dei giornalisti della sinistra californiana, quelle che il paese ha attraversato non sono state elezioni normali. Il popolo americano non ne ha forse ancora piena coscienza, ma il paese sta per iniziare una transizione in regime autoritario e antidemocratico.

Nelle metropoli USA regna suppergiù l’atmosfera delle città espugnate che attendono il saccheggio delle truppe vittoriose. D’altronde, l’uomo che potrebbe diventare nuovo direttore del FBI, Kash Patel, ha di recente dichiarato: «Snideremo tutti i cospiratori, non solo nel governo, ma nei media. Tutti coloro che hanno mentito, che hanno assistito Joe Biden nel rubare le elezioni, vi troveremo…». Che si arrivi o meno al processo per tradimento a Biden che Trump prometteva nei suoi comizi, l’aria che tira nell’America progressista ricorda quella di Phnom Penh in attesa che i Khmer Rossi svuotino le biblioteche e carichino laureati e insegnanti sui convogli per le risaie. 

Il primo mandato Trump aveva spinto molto sugli argini della democrazia e infine, proprio sul finire della presidenza, quegli argini li aveva rotti con l’assalto al Campidoglio il 6 gennaio 2021. Questa volta le truppe si presentano organizzate e con un manuale, il “Project 2025” che prescrive, per cominciare, il licenziamento degli impiegati pubblici e l’assunzione iniziale di 4.000 funzionari tratti da una lista di 20.000 nominativi “affidabili” preparata dalla Heritage Foundation (di cui abbiamo scritto in diversi articoli della rubrica Usa al bivio). Nelle settimane che mancano all’insediamento di Trump, Biden infila gli ultimi viaggi, accolto con cortesia ufficiale da dignitari consapevoli di salutare un fantasma dell’America “vera” dietro l’angolo, pronta a cancellare ogni promessa e iniziativa dell’anziano leader uscente. Dopo la “restaurazione” del 6 novembre, il ripristino di normalità, intrapreso dall’anziano presidente uscente, è destinato a essere annoverato come anomalia storica e pausa temporanea in un processo epocale che sta per arrivare a compimento per stravolgere radicalmente la natura della superpotenza occidentale.

Il mondo attende il ritorno del presidente più imprevedibile. Gli Americani pure aspettano. Metà con un pessimo presagio, l’altra piena di entusiasmo, che la loro nazione varchi una soglia sconosciuta. Nessuno può sapere l’entità dei danni che il 47esimo presidente arrecherà alla democrazia già così indebolita dalla sistematica extra-legalità del 45esimo, ma vi è la consapevolezza che nulla può ora renderla “a prova di Trump”. Quelle che si preparano non sono semplici riforme liberiste di un entrante governo conservatore ma un progetto per la ristrutturazione integrale dello stato sotto una presidenza imperiale. Le prime avvisaglie sono arrivate con la designazione ella squadra di governo. Le nomine delineano, più che una squadra, un plotone di demolizione addetto, alla famigerata e bannoniana “decostruzione dello stato amministrativo”, propedeutica a un esecutivo ingigantito.  In quest’ottica la palese incompetenza di alcuni selezionati si trasforma in paradossale vanto in quanto utile al sabotaggio di quello che viene ritenuto il principale bersaglio: lo stesso stato. Qui vale ad esempio la selezione di numerosi personaggi di esperienza riassumibile in opinionismo televisivo. Fra i mezzibusti e conduttori ci sono la commissaria per la salute pubblica Janette Nesheiwat; Mehmet Cengiz Öz, meglio noto come “Dr. Oz” al pubblico del suo programma di consigli medici; Pete Hegseth, che assumerebbe la direzione del Pentagono e della “forza militare più letale della storia” sulla base della conduzione di un talk per la Fox. E Linda McMahon esperta di wrestling come dirigente della WWE ma meno di educazione – dicastero a cui sarebbe destinata. 

Secondo le prescrizioni di Russ Vought, architetto del Project 2025, e ora neo direttore del Office of Budget and Management di Trump, «il ruolo unico  di ministri e agenzie deve essere quello di abilitare l’agenda del presidente». Si tratta quindi in gran parte di glorificare un presidente che cercherà di emulare gli autocrati per cui Trump ha spesso espresso ammirazione, leader in grado di imporre davvero la propria volontà sulle nazioni.  Per farlo disporrà, perdipiù, della totalità del governo, entrambe le camere del Congresso, una Corte suprema amica e l’immunità preventiva e senza precedenti costituzionali che quella stessa gli ha già accordato. Parte integrante del governo sarà la narrazione da cinegiornale destinata inevitabilmente ad accompagnare le gesta del presidente/autocrate. Anche qui il Trump bis tenterà di portare a termine l’erosione della realtà condivisa così fondamentale durante il primo mandato. La stessa disinformazione che portò al tentato golpe del 6 gennaio sarà parte fondamentale del regime entrante. In una mediasfera in cui Fox News registra uno strabiliante trionfo, ottenendo il 69% dell’audience via cavo post-elezioni, il pluralismo sarà sempre più a rischio. Non solo le emittenti news concorrenti della Fox come CNN e CNBC rischiano di scomparire, ma anche i blog e le piattaforme che ne hanno eroso in gran parte il terreno, favoriscono maggiormente Trump. 

Per i restanti media non allineati si profilano minacce di ritiro delle licenze, querele per diffamazione e abolizione dei fondi pubblici (già quasi inesistenti, ma fondamentali, ad esempio, per emittenti giornalistiche come la radio nazionale NPR). La repressione del dissenso è stata rodata nell’ultimo anno (con piena corresponsabilità dei democratici) con la crociata maccartista contro l’opposizione alla guerra in Gaza. Trump saprà certamente trarre profitto dal travisamento messo in pratica sui campus americani (ma anche, per esempio, ad Amsterdam). Il pensiero unico promuoverà le culture wars a tutto campo contro l’infido “wokismo” secondo la ricetta che ha fruttato la vittoria elettorale e sdoganato come nuovamente accettabili razzismo, xenofobia e misoginia. Che numerosi ministri designati condividano con Trump accuse legate ad abusi e violenze sessuali e di per sé un messaggio inequivocabile sul “backlash” contro il #MeToo e il maschilismo performativo che tanta parte ha avuto nel ritorno di Trump.

Fra i ministri designati c’è Robert Kennedy Jr., rampollo (pur sconfessato dai parenti) della storica dinastia. RFK Jr. è un negazionista anti-vax che ha traghettato nozioni di salutismo alternativo una volta ancorate nella controcultura e nell’esotismo new age, fino al complottismo. Come ministro della salute avrà competenza sul complesso scientifico-sanitario che ha a più riprese promesso di decimare con la chiusura di interi reparti (NIH, FDA, ecc.). La sua mansione implicita sarà quella di invalidare un dicastero che simbolicamente rappresenta un intero sistema di valori e competenze e di veicolare quindi il sentimento antiscientifico che rientra nella “guerra alle élites” e l’appropriazione dell’autorità al solo potere politico. Non sorprende che le scorse elezioni abbiano registrato il primo “endorsement” politico nei 179 anni di storia della prestigiosa rivista “Scientific American”In Kamala Harris, cioè una presidente che sostenesse «la scienza, la salute e il clima», la pubblicazione che ha ospitato nelle sue pagine scritti di oltre 200 premi Nobel vedeva qualcuno in grado di sostenere in sostanza l’ordine ontologico della modernità. Quello che esce ora perdente dalle elezioni.

Dato l’annichilimento dell’opposizione, l’unico argine a molte iniziative di Trump sarà quel che rimane dell’ala moderata del Partito Repubblicano, che fungerà, ad esempio, come unico  controllo sulle nomine governative, sempre che Trump non tenti la forzatura costituzionale per aggirare la ratifica che spetterebbe al Congresso. Il processo di conferma rivelerà quanto Trump si atterrà alle minacce elettorali e la sua capacità di agire stavolta per davvero al sopra dell’autorità giudiziaria e costituzionale, armato com’è anche dell’“immunità preventiva” accordata dalla Corte suprema. Un’altra prova in questo senso sarà il progetto di deportazioni di massa di undici milioni di immigrati clandestini promesso !per il primo giorno». Un’operazione impressionante per logistica e di probabile forzatura di numerose leggi. Si profila insomma, una presidenza imperiale a fronte di un “plebiscito”: che in realtà ammonta a uno scarto, nel voto popolare, di circa 49.87% dei voti conto il 48.25% di Harris. Molto si è già scritto sulle cause della vittoria di Trump, in particolare le responsabilità del liberismo istituzionalizzato dalla “sinistra” dall’epoca vlinton-blairiana a oggi. Il passaggio di ampi segmenti working-class nel campo trumpiano è chiara conferma di una crisi della proposta progressista. È vero però anche che questa particolare sconfitta è avvenuta al termine, non solo di 15 anni di crescita economica (il tasso si attesta oggi sul 3%), con una disoccupazione sotto al 4% e redditi medi ($82,000) doppi della media dei paesi ricchi. Il ribaltone è arrivato dopo un mandato Biden che ha messo in campo i maggiori interventi di spesa pubblica dai tempi di Lyndon Johnson: tra l’American Rescue and Recovery Plan, l’Infrastructure and Jobs Investment act, l’Inflation Reduction Act ed il Chips and Science parliamo di un investimento pari a sei volte il PNRR europeo. 

È vero anche che il costo della vita, soprattutto quello di benzina e alimentari rimane più alto del 20% rispetto a prima della pandemia – anche con l’inflazione ormai sostanzialmente sotto controllo. E soprattutto che la disuguaglianza rimane una piaga su una società senza vera rete sociale, medicina pubblica o la capacità di porre rimedio allo scandalo, per citare solo l’esempio più visibile, della popolazione senza casa.  Ma la sconfitta dei democratici è pur sempre giunta al termine del mandato di Biden che lo stesso Bernie Sanders ha definito «il presidente più progressista durante la mia vita». Se referendum c’è stato, dunque, dovrebbe considerarsi un giudizio anche sugli strumenti del keynesismo socialdemocratico. Si è molto dibattuto a questo proposito, se il voto si stato determinato da una rivolta economica o dalla recrudescenza “ideologica” nazional populista incentrata sulle “culture wars” e la reazione a “woke” e correttezza politica. Come in altri paesi occidentali, non dovrebbe però sorprendere che si tratti di due facce di una stessa medaglia, che il rancore per l’insicurezza economica si sia fuso con un deficit di riconoscimento demagogicamente sfruttato dalle destre populiste. 

Nel caso americano, l’effetto è stato ingigantito da un sistema elettorale intermediato, con una componente cruciale negli stati deindustrializzati del Midwest. Entrambi i fattori sono stati decisivi quindi, determinando una contingenza storica in cui la disaffezione per un fenomeno decennale di globalizzazione economica ha trovato sbocco in un movimento populista classico che ha abbattuto la maggiore democrazia occidentale. Quel dibattito è a questo punto in gran parte accademico. Anche coloro il cui voto è stato motivato dal prezzo delle uova, avranno infatti ottenuto una “rivoluzione” caratterizzata da una mastodontica privatizzazione nel nome della riforma manageriale della pubblica amministrazione.  Lo stato minimo è sempre stato un cardine dell’ideologia conservatrice che ritiene, come disse Ronald Reagan, che il «governo non (sia) la soluzione dei problemi della società ma semmai il vero problema». Quello che si prospetta ora però non è una semplice diminuzione dell’intervento pubblico, ma la razzia del tesoro nazionale da parte di una plutocrazia uscita come non mai allo scoperto come parte politica “militante”. La “riscossa populista” avrà espresso il governo di una classe miliardaria non vista per concentrazione di ricchezza dai tempi della Gilded Age, che all’inizio del secolo XX, precedettero le riforme di Franklin Roosevelt.

Il progetto odierno, proposto come ripristino di un’”autogoverno” originario e nel quadro messianico della ricerca di una grandezza perduta, promette ora di avere la portata di un New Deal, ma in senso inverso, col potenziale di impattare radicalmente il patto sociale e l’esperimento americano nella sua componente aspirazionale di società plurale e inclusiva. Si prospetta, in soldoni, lo smantellamento del potere di regolamentare un capitalismo che mira stavolta a un “hostile takeover” dello stesso governo. Il capitale è naturalmente una forza costante e “bipartisan” nella politica americana, l’affinità di Wall street per la destra non ha, ad esempio, mai impedito il sostegno anche ai democratici quando strategicamente conveniente. L’influenza politica si concretizza nei contributi che finanziano le campagne elettorali. Da quando la Corte suprema ha considerato le aziende persone giuridiche e i loro contributi sono stati tutelati come libera espressione, un fiume in piena di dollari ha inondato la politica americana. Anche in questo contesto, però, non si era mai visto un miliardario offrire un endorsement ufficiale e aggiungere un monte premi per chi votasse Trump in Pennsylvania. Elon Musk è il volto dell’oligarchia trumpista, ma Mar-a-Lago (il quartier generale di Trump) è una sorta di corte dei miracoli del capitalismo USA, dove baroni e magnati offrono sostegno e contrattano contropartite – famigerato l’incontro di marzo, in cui Trump ha sollecitato una donazione di un miliardo di dollari dai manager delle società petrolifere riunite, in cambio dell’azzeramento dele norme ambientali. Il primo atto ufficiale del presidente entrante sarà probabilmente di prorogare il mastodontico regalo fiscale ad aziende e ceti abbienti.

La novità quest’anno è l’entrata in gioco del nuovo capitale, quello legato all’attuale rivoluzione industriale delle piattaforme e delle tecnologie, in particolar modo l’intelligenza artificiale. Dietro a Musk sono allineati gli interessi di Silicon Valley e dei venture capitalist che li finanziano (compresi quindi i grandi hedge fund come Black Rock). Con l’investimento in Trump – solo la lobby delle criptovalute, ad esempio, ha contribuito $245 milioni alla sua campagna –  le corporation non solo hanno ottenuto il “loro” presidente, ma hanno piazzato uomini in posizioni “operative” di comando come lo stesso Musk e Vivek Ramaswamy all’ “efficienza”, Howard Lutnick (della Cantor Fitzgerald) al Commercio, Scott Bessent (Key Square Capital) al Tesoro. Della cerchia di oligarchi-consiglieri Trump ha detto che «mi assisteranno nel riportare l’America a un età aurea come principale economia mondiale».  Vi è poi il vice-presidente JD Vance, un rampante senatore dell’Ohio convertito alle crociate culturali Maga e protetto di Peter Thiel, l’oligarca di Silicon Valley che con Elon Musk ha una lunga storia. Nato in Germania e cresciuto per un tempo in Rodesia (oggi Namibia), Thiel ha fatto parte con tre Sudafricani (Elon Musk, Roelof Botha e David Sacks) del gruppo fondante di PayPal. Oggi è eminenza grigia della fazione neo-reazionaria della Silicon Valley che assieme alla destra cristiano- nazionalista sostiene Trump. Entrambe le correnti considerano la prossima presidenza ben più che una semplice alternanza. La rielezione di Trump, come ha affermato Thiel, avrebbe semmai sancito la conclusione di un ventesimo secolo “prorogato,” e soprattutto la fine del “liberalismo occidentale” del dopoguerra. In Trump, Thiel e i nuovi oligarchi militanti considerano di aver trovato il necessario ariete di sfondamento per demolire i poteri costituiti che ostacolano un progetto rivoluzionario. È celebre, a questo proposito, la frase dello stesso Thiel per cui «la democrazia non è più compatibile con la libertà».

L’estremismo liberista così diffuso nel mondo delle startup e delle piattaforme trova sponda nel pensiero neo-reazionario, talvolta etichettato “dark enlightenment”, di personaggi come Curtis Yarvin. Secondo Yarvin, le democrazie sono sistemi falliti, fondate sul conformismo politicamente corretto e votate all’auto-preservazione, nemiche dell’innovazione e della meritocrazia. Al loro posto invoca forme di assolutismo benevolo (nei suoi discorsi elogia Luigi XIV quanto Singapore o l’El Salvador di Bukele) in cui autocrati abilitino eroici imprenditori che rimandano al “misticismo capitalista” di Ayn Rand o il prometeico architetto protagonista del Megalopolis di Francis Ford Coppola.  Spregiudicati geni dell’innovazione che sapranno arrivare su Marte per il bene dell’umanità. Certo, per costruire questa “New Rome”, occorrerà prima azzerare il vecchio sistema. Una “disruption,” così venerata a Silicon Valley, che per i comuni mortali comporterà, come ha ammesso lo stesso Elon Musk, «qualche iniziale disagio». 

Si tratta dunque di un progetto rivoluzionario, che si pone chiaramente al di fuori e in opposizione alla democrazia. I prossimi mesi diranno se quella americana, già così pregiudicata, contiene ancora anticorpi per opporvi resistenza. È chiaro, nel frattempo, che ciò che unisce gli accelerazionisti di Musk, gli oligarchi della plutocrazia e i teocrati apocalittici è la volontà di istaurare un regime che potrebbe segnare un primo passo verso un mondo realmente post-democratico.

Foto in copertina e nell’articolo di Miriam Aly, Richmond e Cape Charles (Virginia, USA), settembre-novembre 2024

SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS

Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno