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The Substance: lo sguardo come aguzzino definitivo
L’opera seconda di Coralie Fargeat aggiorna il canone del mostruoso femminile in un body horror che si appropria di infiniti riferimenti per interrogare le nostre ossessioni intorno alla performance della femminilità
Il giorno del suo cinquantesimo compleanno, l’ex-star del cinema Elisabeth Sparkle (Demi Moore, dieci anni in più nella realtà e semplicemente magnifica) viene licenziata dal programma televisivo di fitness che conduce con successo da anni. Umiliata e incapace di ricostruirsi una vita che non sia sotto i riflettori, la donna accede a una misteriosa pratica medica che le consentirà di generare dal suo stesso corpo una versione più perfetta, più giovane, più attraente di se stessa. Nasce così Sue (Margaret Qualley, talento in ascesa), destinata a occupare quello spazio di visibilità che le era stato tolto. La regola vuole che la donna possa vivere una settimana come Elisabeth e la successiva come Sue, in un ciclo continuo, ma la tentazione di infrangere la regola e prolungare l’esperienza eccitante della giovinezza sarà troppo forte, con conseguenze devastanti per entrambe le identità.
Nella prima scena del film, una brillante soluzione narrativa racconta l’ascesa e la caduta della star hollywoodiana Elisabeth Sparkle: una sequenza quasi in time lapse dedicata alla sua stella celebrativa sulla Walk of Fame, una rigida inquadratura geometrica che rimane impassibile, dalla posa materiale dell’ambita mattonella al sopraggiungere delle prime crepe inflitte dal tempo. Nel presente ritroviamo Elisabeth in un altro spazio geometricamente confinato, non più sotto i riflettori del cinema, ma nell’asfittico set di un programma televisivo di fitness. Stilizzazione, claustrofobia, ossessione per il corpo e per l’immagine: il mondo di The Substance è già tutto qui, nell’attrito tra un desiderio di visibilità che evoca un fuori sempre immaginario (non vedremo mai un pubblico se non nell’ultima sequenza) e l’inferno psichico di un dentro che deve conciliare quel desiderio con la realtà di un mondo che attribuisce valore al femminile solo nei termini di una performance estetica. Una performance che nel film viene portata fino alle sue estreme conseguenze, quando Mostro ElisaSue si sarà trasformata esattamente in ciò che gli uomini chiedono a gran voce durante l’arco del film, ovvero una creatura tutta tette e sorrisoni pienamente visibile, al centro di un palcoscenico, in uno scintillante abito azzurro, la notte dell’ultimo dell’anno. Ma è proprio la creatura così plasmata dal desiderio maschile che viene invece rigettata: «sono io, sono sempre io», puntualizza Elisabeth, «non abbiate paura». Ma tutti fuggono nel terrore, la dileggiano, la disprezzano.
Il disagio, la sensazione di scomodità che accompagnano lə spettatorə durante la visione del film sono dovuti proprio a questo: assistere, passo passo, all’incarnarsi dello sguardo maschile, con tutte le conseguenze che questo comporta sul piano sociale e della vita concreta di una donna. Non invecchiare, sii sobria ma sfavillante, non farti vedere mentre mangi, non ti truccare troppo, non essere sciatta. E potremmo andare avanti all’infinito.
La macchina indugia fino al paradosso su Sue, la bambola Sue, che col procedere della narrazione sviluppa una propria personalità e agogna allontanarsi dalla sua matrice, fino a combattere apertamente e con ogni mezzo quel corpo che l’ha generata. Un corpo che, come se non bastasse, è già profondamente in lotta con se stesso, colpevole di non riuscire più a conformarsi ai canoni della femminilità imposta da una pressione sociale soffocante. Femminilità alla quale adeguarsi a ogni costo senza nemmeno capire quanto, dell’esistenza, dell’essenza di una donna, realmente corrisponda a quel non mangiare, non ti truccare troppo, non essere sciatta, non tossire, andrà tutto bene finché continui a sorridere, dovresti avere le tette al posto del naso. Non importa quanto le donne si riconoscano in questi canoni imposti, Fargeat ce lo dice bene: la donna, soggetto passivo dello sguardo maschile, la donna che sa, in ogni momento, di essere guardata, osservata, in un modo tutto fuorché neutro.
E così vediamo Elisabeth sprofondare sempre di più in una non vita, nei giorni in cui non può essere Sue, arrendersi disperatamente all’occhio giudicante della sé ragazza nell’unico momento in cui cerca di riappropriarsi della sua vita: bellissima, davanti allo specchio in un abito rosso, prima di uscire, mette in atto una scena che a ogni donna è capitato di vivere più volte nella vita. Pronta per uscire, si guarda, guarda il corpo di Sue, si strucca, ritrucca, si cambia, cambia di nuovo il trucco, soccombe, ha un crollo, rinuncia a incontrare l’unica persona che sembra vederla oltre il suo non essere più un corpo fertile. Una società della performance continua, dunque, una gabbia alla quale siamo abituate e socializzate sin dalla nascita, tanto da non saperci più riconoscere.
Non senza una certa ironia, The Substance è stato definito come la versione horror di Barbie, volendo battere sulla natura fin troppo evidente del presunto “messaggio” del film. In realtà il modo di procedere di Fargeat è agli antipodi rispetto al film di Gerwig, la cui forza sta nel creare un mondo stilisticamente perfetto (scenografie, controllo del colore, coreografia dell’azione) per utilizzarlo come veicolo di un discorso politico che prende corpo in maniera molto esplicita nei dialoghi, fino alla famosa orazione di America Ferreira. In The Substance il nodo discorsivo è chiaro dopo pochi minuti, ma il tema non è che il punto di partenza attorno a cui costruire una messa in scena di assoluta perfezione, due ore e venti in cui la narrazione non si siede mai, sostenuta da uno straordinario controllo di ogni elemento formale: sound design, musica, movimenti di macchina, ambienti e soprattutto montaggio.
Una messa in scena che può apparire quasi didascalica (Elisabeth assiste alla deposizione di un suo manifesto, il volto strappato cade come una foglia da un albero) è in realtà soprattutto icastica: l’autrice racconta l’ossessione per l’immagine con una fiducia cieca nella forza delle immagini.
Il corridoio del network televisivo che diventa ostile una volta svuotato dei poster di Elisabeth, il volgarissimo produttore Harvey deformato dal grandangolo, l’inquietante sdoppiamento della pupilla, la cicatrice sulla schiena che, evocando l’idea di un parto cesareo, dà forma alla suggestione che quello fra “la matrice” Elisabeth e Sue sia anche un rapporto competitivo tra madre e figlia.
Uno dei tanti riferimenti archetipici che innervano la narrazione del film è proprio Biancaneve: la competizione con una bellezza giovane destinata a rimpiazzarla finisce per trasformare Elisabeth, sempre in conflitto con lo “specchio delle sue brame”, nella vecchia strega delle fiabe. Ma si affacciano anche il rapporto cannibalesco tra vita e immagine di Dorian Gray, la scissione identitaria del dottor Jekyll, e un’infinità di richiami cinematografici a partire dalla trimurti Kubrick-Cronenberg-Lynch. Il risultato è una forma di gotico contemporaneo (la casa di Elisabeth si trasforma sempre più in uno spazio infestato che cela oscuri segreti), che ricorda anche il seminale Occhi senza volto di Georges Franju, dove un analogo intreccio basato su fantamedicina e bisogno di visibilità produce risultati altrettanto disturbanti. Il fitto insieme dei riferimenti incrociati non fa però di The Substance un film-Frankenstein che esibisce le sue cicatrici con orgoglio cinefilo. Fargeat riesce a sublimare in un composto unico e originale gli ingredienti della sua alchimia cinematografica: riferimenti e archetipi, presupposti teorici ed esplorazione del potere del male gaze. Il risultato, con la sua durata decisamente anomala per il genere (due ore e venti), sembra voler candidare The Substance come body horror definitivo dei nostri tempi e una pietra di paragone per gli anni a venire.
Immagine di copertina: Margaret Qualley (Sue) in una scena del film
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