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ITALIA

La crisi ecologica è violenza di classe

Decentrare lo sguardo sulla crisi ecologica, analizzandola a partire dalle lotte degli operatori ecologici di Grottaglie di Taranto. Lavoratori in appalto, costretti a fare gran parte del turno camminando sotto il sole cocente, con contratti precari e sottopagati. Un lavoro riprodutivo invisibilizzato per ragioni di genere, classe e razza

Nun vulev fa semplicemente e sordi

Ma far si che sord fussn nu dirit e no un obbligo

Ca si allah o dio o buddah sper ca facessn coccos

Tanti soldi, Ghali, Geolier

Crisi ecologica è crisi del lavoro. I lavori riproduttivi invisibilizzati

Sono di questi giorni le spaventose immagini dell’alluvione a Catania. Di solo qualche settimana fa quelle delle alluvioni spagnole, nella Comunidad Valenciana e a Barcelona, e di quelle italiane, a Bologna e Lamezia Terme. Nonostante la copertura mediatica dell’emergenza climatica sia aumentata negli ultimi tempi, questa tende ancora a preferire gli eventi climatici disastrosi. Poco si sa, ad esempio, della lunga siccità in Sicilia e della lotta dei Comitati Cittadini Acqua. Ciò è comprensibile se consideriamo la monetizzazione del dolore che domina sulle testate giornalistiche italiane, ma anche se riconosciamo che questi eventi, drammaticamente spettacolari, hanno qualcosa di perturbante: ci restituiscono il senso di un livellamento sociale, quasi di una violenta giustizia divina, dove le differenze sono cancellate e tutti sono puniti allo stesso modo.

Si tratta però di un’illusione prospettica. Fermiamoci infatti dopo un’alluvione e vediamo chi ha il privilegio di ricostruire una vita. Quando la precarietà cresce e la cerchia di chi riesce a godere dei diritti si restringe, questi iniziano a sembrare quello che sono: privilegi. Purtroppo, c’è chi l’ha sempre saputo, ma ora inizia a rendersene conto anche qualcun altro. Perché? Perché la crisi climatica non è solo una crisi ambientale: è una crisi di coesione sociale.

Per capire che cosa questo significhi abbiamo bisogno di superare l’idea che la crisi climatica sia un’apocalisse della Natura, per così dire, oppure una crisi di un grande contenitore, ricco e fertile, dentro cui conduciamo le nostre vite. I movimenti per il clima e il dibattito scientifico hanno riconosciuto che la crisi climatica non è solo crisi del clima, ma crisi ecologica, crisi di un intero ecosistema. Tuttavia, facciamo ancora fatica a valorizzare un altro elemento: la crisi coinvolge alle fondamenta quel processo quotidiano di sforzo e cura delle collettività e dei singoli che chiamiamo lavoro riproduttivo, un lavoro di produzione e riproduzione della vita, delle comunità umane e non umane, dei boschi e dei mari, delle campagne e delle città. Nonostante la sua centralità, il sistema economico-politico in cui viviamo ci depriva del valore di questo elemento: scomponendo e organizzando le comunità attraverso la violenza di classe, di genere e razziale, fonda la divisione sociale del lavoro, produttivo e riproduttivo, legittimando l’uso dei corpi e le condizioni di subalternità nelle quali lo conduce.

Detto altrimenti, questo processo di riproduzione sociale ed ecologica si svolge oggi sotto l’organizzazione e il comando capitalistico, delle aziende, delle fabbriche, della finanza; questo comando ne fa un lavoro, a volte regolarizzato e salariato, spesso precario e intermittente, ancora più spesso nero e sfruttato; e questo lavoro è svolto solo da alcuni e alcune di noi, persone precarie, spesso donne e/o persone razzializzate, e impiegate più o meno regolarmente nei servizi agricoli e di raccolta, di igiene urbana, di cura e pulizia.

Se pensiamo la “Natura” come qualcosa di separato da noi è perché materialmente il rapporto di capitale ci nasconde il nesso che abbiamo con lei.

Pensiamo al lavoro dell’operatore ecologico. Esso non produce direttamente delle merci, ma si occupa di riprodurre la comunità cittadina e le sue condizioni di esistenza tramite lo smaltimento dei rifiuti, che è al contempo un servizio logistico di collegamento all’interno della catena di circolazione dei rifiuti e un servizio di cura verso il benessere e la prevenzione delle malattie, che completa così il consumo dei rifiuti nello spazio riproduttivo della città. Come lavoro di riproduzione e lavoro di cura, lavoro femminilizzato, subisce uno stigma analogo a quello del lavoro domestico svolto dalle donne: è dato per scontato, considerato “dovuto”, spesso non riconosciuto come lavoro professionale. Eppure, come scrivevano Dalla Costa e James negli anni ‘70, la casa dove l’operaio consuma la sua colazione ogni giorno torna pulita perché qualcuna ha svolto quel lavoro; e così anche la città il giorno dopo la raccolta degli operatori ecologici. In secondo luogo, il lavoro dell’operatore ecologico è invisibilizzato per delle ragioni di classe: un lavoro che ha a che fare con lo sporco, il rifiuto, è quanto di più lontano dalla desiderabilità borghese di sporcarsi le mani con la vita di tutti i giorni.

foto di Antonio Cascio

Per i cittadini “rispettabili” l’operatore ecologico è una persona di estrazione sociale bassa, senza professionalità e che svolge un lavoro che non richiede alcuna competenza. In terzo luogo, va riconosciuto che questi pregiudizi classisti fanno eco solo a quelli razzisti, anche perché spesso questi lavori riproduttivi (braccianti, operatori ecologici, addette/i alle pulizie, colf) sono svolti informalmente dai lavoratori razzializzati. Nonostante lo stigma, i lavori di riproduzione ecosociale tengono in vita la società quotidianamente: permettono la sussistenza dei lavori produttivi, il mantenimento delle infrastrutture, la salute dei beni comuni.

Ondate di calore e contratti irregolari. La lotta di Grottaglie, Taranto

Come un cane (a sei zampe) che si morde la coda, la crisi ecologica sta aggravando le condizioni dei lavori riproduttivi, minando le fondamenta su cui si basa il sistema economico stesso. Un esempio emblematico in questo senso ce lo porta la lotta dei lavoratori ecologici della città di Grottaglie, in provincia di Taranto. È dal 2020 che il comune ha disposto insieme alla ditta AVR S.p.a. per l’Ambiente un servizio in appalto di raccolta porta a porta per lo smaltimento dei rifiuti domestici, nel tentativo di responsabilizzare individualmente la cittadinanza sulla raccolta differenziata. A parte l’evidente tentativo di strizzare l’occhio alle abitudini delle classi più agiate, a cui «viene raccolta la spazzatura ai piedi di casa» la strategia comunale si rivela evidentemente fallimentare nell’affrontare il problema ecologico perché scarica la responsabilità di un problema strutturale sui singoli, non intervenendo a monte e anzi aggravando da un lato la quantità di sporco in città e dall’altro le condizioni di lavoro degli operatori ecologici. Questi, infatti, si ritrovano a percorrere quotidianamente a piedi distanze di 10-15km per raccogliere le pattumelle delle abitazioni, sotto il sole cocente. A causa della non idoneità dei mezzi in dotazione dall’azienda, sprovvisti di pedana posteriore, i lavoratori sono costretti a preferire lo spostamento a piedi per la raccolta in quanto meno usurante per il fisico e come unica soluzione per entrare nelle strade più strette. Ma ciò avviene nella piena indifferenza rispetto all’aumento delle temperature durante le ondate di calore nel periodo estivo, cosa che rende il lavoro non solo più faticoso, ma realmente più pericoloso: sono molte le persone che hanno vissuto malori e svenimenti, soprattutto nel percorrimento di lunghe zone di raccolta che chiamano, non a caso, «zone disumane». Ad aiutarli non intervengono di sicuro le divise in gomma, che accumulano calore, si attaccano alla pelle e provocano irritazioni e difficoltà respiratorie; né tantomeno la marcescenza dei rifiuti che, decomponendosi, lasciano sul retro dei mezzi un percolato di fumi tossici.

L’indifferenza dell’azienda alle condizioni di lavoro si è estesa anche ai mezzi, che non sono stati né manutenuti né sostituiti nonostante le ripetute segnalazioni di inadeguatezza, aggravate dalla precarietà delle infrastrutture stradali, causando anch’essi problemi per la salute di chi è sul mezzo (slogature, sciatica, problemi articolatori).

Ciò ha portato i lavoratori a organizzarsi e a chiedere al sindaco l’emissione di un’ordinanza che vietasse il lavoro nelle ore più calde. Nonostante l’ordinanza, l’irregolarità del turno di lavoro è rimasta. Oltre al danno anche la beffa: l’azienda ha vinto nuovamente la gara d’appalto con una proposta di inizio turnazione alle 4 del mattino. Tuttavia, poiché non vuole pagare lo straordinario da lavoro notturno, richiede agli operatori di iniziare il lavoro alle 6 del mattino. Non solo ciò è in evidente contraddizione col capitolato, ma gli operatori hanno iniziato a lavorare alle 5 del mattino per autotutelare la propria salute: dovendo lavorare un monte ore giornaliero, iniziando un’ora prima riescono a evitare almeno un po’ del caldo di mezzogiorno. Il problema però rimane, perché quel lavoro notturno non viene pagato in straordinario. Il problema dell’irregolarità della corrispondenza degli straordinari si lega a quello dell’irregolarità dei contratti. Nonostante la medesima partecipazione alla catena riproduttiva, la forza-lavoro è scomposta in due con due tipi di contratto: una parte, assunta col contratto di categoria, guadagna uno stipendio e generalmente svolge il lavoro di autista; l’altra parte, assunta con un contratto multiservizi, svolge il lavoro di raccolta e guadagna 2/3 del primo. E ciò ancora una volta nell’assenza totale di rispetto del capitolato con il quale l’azienda aveva vinto l’appalto, che sancisce l’adeguamento dei nuovi assunti al contratto collettivo dei vecchi. In violazione del principio di parità di trattamento, accade spesso, soprattutto nel settore dei servizi, che la forza-lavoro venga scomposta e che le persone razzializzate, donne, migranti, giovani, precari, vengano impiegate con contratti differenti dal resto, come ad esempio il contratto multiservizi, introdotto circa vent’anni fa, e vantaggioso esclusivamente per le ditte in appalto. Ciò è inaccettabile. Questi lavoratori, messi così alla mercé di uno “stipendio da povertà”, sono più facilmente ricattabili ed entrano in competizione tra loro: quando si sale in paese per la raccolta, “FISE e multiservizi” stanno fianco a fianco con due contratti diversi.

Oltre il capitale: decentrare lo sguardo, pensare la violenza

La lotta degli operatori ecologici di Grottaglie è entrata in una nuova fase, in cui i lavoratori stanno chiedendo una riparazione legale del danno. Grazie all’organizzazione e l’intermediazione del comitato di base, hanno potuto trovare una strada verso la contrattazione. Lo sciopero del febbraio scorso ha reso evidente il potere contrattuale dei lavori di riproduzione: se si fermano i lavori riproduttivi, dicono le femministe, si ferma il mondo. Lo hanno visto anche i cittadini di Grottaglie quando a febbraio i rifiuti si sono accumulati sulle strade perché nessuno aveva più il fisico per raccoglierli. I lavoratori e le lavoratrici continueranno a lottare, di fronte hanno molti ostacoli: la precarietà cresce e l’esternalizzazione dei servizi abbassa i salari e complica le ispezioni sul lavoro. I sindacati confederali sono deboli, faticano a costruire potere contrattuale, e dimenticano una parte della forza-lavoro. Le istituzioni sembrano sorde, laddove non sono complici. È chiaro che il sistema è marcio fino alla radice.

Questo ci permette di fare alcune considerazioni. Il capitalismo non è un sistema capace di prendere in carico la crisi del lavoro, né tantomeno quella ecologica. La crisi finanziaria lo dimostra: guerra, fascismo e genocidio sono lo strumento per rispondere alla crisi senza cambiare il sistema, o meglio ne sono parte integrante, perché è questa la sua maniera di riprodursi.

Se la crisi è un momento strutturale della riproduzione del capitale chiediamoci se anche la crisi ecologica non ne sia diventata in qualche modo una parte. Per rispondere a questa domanda, abbiamo bisogno di ragionare intorno al concetto di “crisi”: esso evoca l’idea di una perturbazione di qualcosa che prima era organico ed equilibrato, un momento di difficoltà da superare.

La crisi ecologica peggiora di anno in anno, da 200 anni. E quali effetti ha avuto? Ha aggravato le disuguaglianze sociali ed economiche, ha avuto effetti dannosi sulla salute delle persone, ha creato emergenze alimentari, mantenuto le persone vulnerabili al conflitto, alla guerra, al ricatto sul lavoro, alla violenza di genere e quella razziale. Ha colpito le comunità indigene dell’amazzonia deforestata, espropriate di minerali e terre natie; ha colpito le donne giovani delle regioni rurali alluvionate del sud-est asiatico, più esposte al consumo di acqua non sicura e all’aumento del lavoro di cura non riconosciuto; ha colpito i lavoratori minerari della Repubblica Democratica del Congo che estraggono i minerali per la transizione energetica del Nord Globale. La crisi ecologica ha colpito le abitanti del quartiere Tamburi a Taranto, che vedono i propri figli ammalarsi dei veleni dell’Ilva, o quelle di Statte, che lottano contro l’ampliamento della discarica Italcave. Ha colpito a Bologna, dove i rider del food delivery si spostano sulle strade allagate della metropoli durante l’alluvione. Ha colpito e colpisce quei corpi e quei territori che poi chiamiamo zone di sacrificio.

foto di Patrizia Montesanti

A fronte di questa devastazione, viene da chiedersi se la crisi ecologica non sia qualcosa di più di una crisi. Se non sia spudorata e infame violenza. Più prosaicamente, se non sia un momento fondativo della subalternità di classe.

Ovvero se non sia il momento di considerare la crisi ecologica non solo come l’effetto del patriarcato capitalista bianco organizzato intorno alla produzione energetica fossile, ma come un suo momento fondativo, come uno strumento violento della sua legittimazione materiale. La crisi ecologica sembra avere il profilo di qualcosa con cui esercitare la violenza di classe. Attraverso cui fondare materialmente la subalternità, rimarcando il lavoro povero e la salute precaria, le linee oppressive di genere e razza.

Il capitale usa la forza e la violenza per creare la classe. Lo vediamo con la guerra e il genocidio; perché non iniziare a vederlo anche con la crisi ecologica? Quando gli operatori ecologici di Grottaglie hanno ritirato le divise dalla lavanderia, indossandole hanno notato delle bolle sulla propria pelle: hanno scoperto che nella stessa lavanderia venivano lavate anche le divise dell’ILVA. Un giorno, se non troveremo un modo per creare l’alternativa, il mondo ci finirà addosso. Per ora, come dice Haraway, ci tocca sopravvivere su un pianeta infetto. Mentre sopravviviamo, ricordiamo: la crisi ecologica è violenza di classe.

Immagine di copertina: wikimedia commons

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