DIRITTI
La denuncia di Amnesty: “In Italia violenze sui migranti”
Un rapporto dell’ONG conferma ciò che tutti già sapevano: negli hotspot i migranti subiscono violenze. Le forze dell’ordine fanno quadrato, ma i fatti sono confermati anche da una relazione parlamentare
Khider, trent’anni, di nazionalità sudanese – sbarcato nel porto di Catania a metà giugno di quest’anno – ha raccontato ai ricercatori di Amnesty International che durante il viaggio di trasferimento in bus verso l’hotspot di Taranto “eravamo in quattordici uomini ad esserci rifiutati di farci prendere le impronte digitali. Così poliziotti in uniforme sono venuti a dirci che avrebbero usato la forza”. L’uomo, poi, continua in questo modo il suo racconto: “alcuni di noi erano spaventati e hanno deciso di dare le impronte digitali, perché avevano visto qualcun altro che veniva trascinato via dalla polizia”. E ancora: “alla fine eravamo rimasti in due a non averle date”.
Quel che accadrà nei minuti seguenti su quell’autobus appena fermo davanti al centro di identificazione che si trova nella zona industriale di Taranto, stride fortemente con il rispetto delle libertà fondamentali garantite dalla Carta costituzionale. Perché la polizia sale a bordo. E, racconta ancora Khider: “mi blocca le gambe al sedile. E con un bastone, un manganello, mi provoca delle scosse elettriche”. È stato a quel punto che l’uomo ha deciso di arrendersi, di farsi prendere le impronte. Contemporaneamente, più o meno la stessa sorte è accaduta a Ramadan, un altro uomo sbarcato a Catania e poi trasferito all’hotspot di Taranto, che ha raccontato di come i poliziotti lo abbiano fatto scendere dall’autobus per condurlo negli uffici della questura locale: “lì mi hanno preso a pugni, forte e dappertutto. Poi hanno cercato di mettermi la mano sulla macchina per le impronte e con i manganelli mi hanno picchiato sulle due braccia, vicino alle spalle”.
I segni evidenti delle violenze sulla spalla di Ramadan sono stati notati dai ricercatori di Amnesty durante l’intervista raccolta. Questi e tanti altri racconti provenienti da richiedenti asilo, soprattutto sudanesi – su cui le polizie di diverse città italiane avrebbero compiuto degli abusi, al limite delle torture – sono finiti in un rapporto pubblicato ieri dall’organizzazione non governativa.
Hotspot Italia. Come le politiche dell’unione europea portano a violazioni dei diritti di rifugiati e migrantiè il titolo del report, frutto di una ricerca che Amnesty International ha condotto durante tutto il 2016, visitando diverse città e centri di accoglienza in Italia: Roma, Palermo, Agrigento, Catania e Lampedusa a marzo. Taranto, Bari e Agrigento a maggio. Infine, Genova e Ventimiglia a luglio. Roma, Como e Ventimiglia ad agosto. In precedenza, a luglio 2015, erano stati già visitati i centri per la prima accoglienza di Lampedusa e Pozzallo, poi diventati a gennaio 2016 hotspot, in cui dovrebbe avvenire la prima identificazione e lo screening sanitario. Entrambi i centri siciliani erano stati già visitati lo scorso 20 giugno nell’ambito della giornata mondiale del rifugiato, da attivisti della campagna lasciateCIEntrare accompagnati dalla parlamentare europea Elly Schlein e dall’avvocato Alessandra Ballerini. Nel rapporto che fu diffuso a margine di quella visita furono segnalate diverse criticità per quello che riguardava i minori, dato che già sono trattenuti nei centri di questo tipo illegittimamente, visto che dovrebbero essere destinati a strutture dedicate. Alcuni di essi vi sono rimasti in condizioni di promiscuità con gli adulti anche per 25 giorni. Non soltanto. Anche nel rapporto denuncia di Amnesty International si parla di minori. Qui si fa riferimento al fatto che 24 persone intervistate dall’Ong hanno denunciato di essere state sottoposte a tortura o altri maltrattamenti da parte della polizia. E tra le vittime di abusi, appunto, per lo più sudanesi, c’erano anche donne e minori stranieri non accompagnati. Ascoltati dai ricercatori hanno dichiarato in sostanza che sarebbe stata perpetrata violenza, dalla polizia italiana, sia negli hotspot che in altri centri di accoglienza, che in uffici di polizia un po’ in tutto il Paese. Dalle questure di Cagliari, Catania, Torino, per citarne soltanto alcune.
Pesano come macigni le parole contenute nel rapporto, frutto di interviste condotte a 174 rifugiati. Dalla loro lettura emergono storie di vita come quella di Ishaq, sudanese del Darfur, minore di sedici anni arrivato la notte del 26 giugno 2016 in un porto del sud Italia, riuscito a scappare verso Torino senza lasciare le impronte digitali. E poi, fermato dalla polizia alla stazione ferroviaria mentre cercava di raggiungere Ventimiglia, è lì che comincia l’odissea che ha raccontato ai ricercatori di Amnesty. Così: “mi hanno chiesto di lasciare le mie impronte, ma ho rifiutato. Ero solo con cinque poliziotti. Mi hanno dato pugni dappertutto e mi piegavano indietro le dita. Alcuni mi giravano le mani verso la macchina per le impronte, altri mi davano pugni”. Sono davvero tanti i rifugiati, che, intervistati, hanno raccontato di aver subito veri e propri pestaggi. Che hanno riferito di aver subito scosse date con manganelli elettrici.
Già durante l’anno Amnesty International aveva espresso preoccupazione per i risultati provvisori della ricerca, ed aveva scritto due volte al Ministro degli Interni chiedendo informazioni sull’uso della forza per il rilevamento delle impronte digitali dei nuovi arrivati e sulla riammissione di cittadini di paesi terzi, in particolare dal Sudan. Ma dal Ministero la risposta non è mai arrivata.
È stata tempestiva e perentoria, invece, la replica al dossier da parte del prefetto Mario Marcone, capo del Dipartimento immigrazione del Viminale. “Cretinaggini” le ha definite. Di tutela e onorabilità “della professionalità dei tanti operatori di polizia che con abnegazione e senso del dovere stanno affrontando da lungo tempo questa emergenza umanitaria” ha parlato il capo della polizia Franco Gabrielli, smentendo categoricamente che “vengano utilizzati metodi violenti sui migranti sia nella fase di identificazione che di rimpatrio”.
Resta il fatto che nel cercare di raggiungere un tasso di identificazione del 100% dei migranti – come raccomandato dalla commissione Europea – l’approccio hotspot ha spinto le autorità italiane oltre ciò che è ammissibile dal diritto internazionale dei diritti umani. Perché al di là delle smentite ufficiali, li raccontano – gli effetti di un anno di hotspot – le denunce di alcune parrocchie, degli attivisti solidali (e alcune inchieste giornalistiche) in tutto il Paese, da Pozzallo, Taranto, fino a Como e Milano.
L’attuazione di misure coercitive per costringere le persone che non vogliono fornire le loro impronte digitali, è diventata man mano la regola, “attraverso la detenzione prolungata e l’uso della forza fisica”. Una denuncia coraggiosa di un sistema folle qual è l’approccio hotspot. Perché di questo si tratta. “Nonostante non ci siano dubbi che la maggior parte degli agenti di polizia abbia continuato a fare il proprio lavoro in modo impeccabile” – dicono da Amnesty: “ le testimonianze raccolte indicano che alcuni hanno fatto uso eccessivo della forza e ricorso a trattamenti crudeli, disumani o degradanti, o addirittura alla tortura”. È in questo scenario, dunque, che rifugiati e migranti che non volevano dare le impronte digitali hanno subito detenzioni arbitrarie e maltrattamenti da parte della polizia. Sono alcuni fatti, messi nero su bianco in queste ore nella relazione di minoranza presentata dall’onorevole Erasmo Palazzotto (SI) alla Commissione di inchiesta sui Centri di identificazione ed espulsione, a confermarlo. “Le operazioni di identificazione e fotosegnalamento da parte dell’autorità di P.S nei centri hotspot stanno avvenendo in palese violazione di norme interne di legge anche di rango costituzionale” è l’ atto di accusa del deputato siciliano, che mette in rilievo come anche i minori non accompagnati, in alcuni casi, siano stati trattenuti negli hotspot per mesi, sia a Pozzallo che a Taranto.
È un anno di hotspot – tra abusi e diritti calpestati – quello vissuto da migliaia di uomini, donne e bambini, in fuga da conflitti, violazioni dei diritti umani e povertà. È lo stesso trattamento o quasi che i profughi hanno trovato in Europa, a causa delle isterie istituzionali, dell’irresponsabilità dei governi europei, incapaci di garantire la vita degna a popoli in fuga da guerre e miserie.