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MONDO
Il sogno americano o dell’incubo del mondo
Un primo commento, a caldo, della vittoria di Trump. Politico, ma soprattutto imprenditore e miliardario. Leader indiscusso del declino a stelle e strisce, dell’apocalisse capitalista in corso e a venire. Quale compito ci aspetta, nel mondo conteso e multipolare?
Conosco l’America da lontano, nella letteratura – dunque, forse, da molto vicino. La letteratura della lost generation, quella della prima metà del Novecento, più in particolare degli anni tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. Dos Passos, Steinbeck, Fitzgerald, Faulkner. Ovvero l’America della grande “transizione egemonica” mondiale, che l’ha vista sostituirsi all’Impero britannico. Ma l’America, anche e soprattutto, sindacalista e comunista, migrante e sovversiva; dopo il 1929, disoccupata e povera.
Vi propongo allora di pensare Trump leggendo Millenovecentodiciannove, il capolavoro di Dos Passos adorato da Jean- Paul Sartre e Cesare Pavese. Si tratta del secondo romanzo della Trilogia americana, opera del montaggio che mescola finzione e biografia polemica, incendiaria, della nazione. Raccontando la “Dinastia Morgan”, con stile graffiante, lirico e cinematografico al contempo, Dos Passos scrive:
«Guerre e crolli in borsa,
fuoco di mitragliatrici e incendi,
fallimenti, prestiti di guerra,
fame, pidocchi, colera e tifo:
ecco il clima propizio della Dinastia Morgan».
Parliamo dell’America della guerra civile, quando il giovane John Pierpont Morgan «investì un po’ di denaro nel rivendere all’esercito nordista moschetti fuori uso, e cominciò a farsi sentire nella “camera dell’oro” nel quartiere degli affari di New York». Col “panico del 1893”, a seguire, Morgan «salvò il Tesoro americano […] tamponando l’emorragia d’oro». E «d’allora in poi la parola di Morgan fu legge». Tutt’oggi, JP Morgan Chase è la banca più ricca e potente del mondo.
Pure quella di Trump è una dinastia. Trump non è solo un leader politico, è in primo luogo un imprenditore, che ha alle spalle corruzione e fallimenti, colpi bassi e successi, stupri e voglia di vincere. Anche Trump è un vincente americano: il numero uno che trasforma il caos in occasione, il disordine in partito d’ordine, la débâcle di molti nel trampolino di lancio per sé. Vita da imprenditore: il sogno americano.
Se coloro che desiderano trasformare il mondo non perdessero tempo con letture comode e sbattessero il grugno, quotidianamente, sul grande pensiero borghese, scoprirebbero che già nel 1911 Joseph Schumpeter, ancora viennese e non ancora americano, scriveva dell’imprenditore e del suo sogno, delle sue motivazioni:
«In primo luogo, vi è il sogno e la volontà di fondare un impero privato e in genere, seppure non necessariamente, anche una dinastia. […] C’è poi la volontà di vincere. Volontà di lottare, da una parte, dall’altra di ottenere il successo in quanto tale piuttosto che i frutti del successo. […] Una terza famiglia di moventi è costituita infine dalla gioia di creare. […] Crea senza posa perché non può fare diversamente, non vive per godere di quanto acquisito. […] Sotto il nostro quadro del tipo dell’imprenditore c’è il motto: plus ultra».
Sentite odore di Trump? Meglio ancora, non vi è sembrato di vedere Elon Musk, nelle parole di Schumpeter? Trattasi di possessione: fondare un impero, generare una dinastia, generare senza sosta (“non basta mai”). Musk, ci dicono le cronache, è così ossessionato dalla generatività dinastica che, oltre ad avere decine di figli, sta donando lo sperma agli amici. Una grande follia fallica fatta di missili, tracotanza, irregolarità, lavoro dopato (ketamina, per lavorare 16 ore al giorno), visioni apocalittiche, privatizzazione tecnica, o infrastrutturale, dell’universo tutto. Il sogno americano: l’incubo del mondo.
Trump è un vincente, l’America profonda vuole tornare a vincere. Perché la vittoria, lo sport e la guerra come ethos generalizzato, sono incarnati dai miliardari che “scendono in campo” e spazzano via la politica “ragionevole”, educata, formalmente (e solo formalmente) inclusiva. In Italia, d’altronde, ne sappiamo qualcosa, dell’imprenditore politico.
Trump ha appena affermato, dichiarandosi quarantasettesimo Presidente degli Stati Uniti, che farà cessare le guerre. Evidentemente mente. Sosterrà Israele nella guerra contro l’Iran, si occuperà con l’amico Milei di Lula e dell’America Latina, rafforzerà la guerra commerciale contro la Cina, quella monetaria contro i BRICS, facendo delle criptovalute alleato fedele del dollaro riserva di valore globale. Rilancerà il processo di destabilizzazione mondiale avvito da Bush Junior, quello di demolizione europea voluto da Biden. L’eventuale tregua in Ucraina sarà solo un modo per approfondire la disintegrazione dell’Europa democratica e del welfare.
Riuscirà nell’impresa? Nella destabilizzazione, senz’altro sì. Nella costruzione di un nuovo ordine americano, invece, penso di no. Da Bush Junior e il sogno del «nuovo secolo americano» ne è passata di acqua sotto i ponti: il debito pubblico americano continua a crescere, l’inverno demografico occidentale non si ferma, «l’esorbitante privilegio del dollaro» non è eterno, la fuga scomposta da Kabul potrebbe ripetersi. Trump è un vincente, ma la sua non sarà una «distruzione creativa».
Una parte di mondo troppo significativa, per numero di abitanti e crescita del PIL, non è più disposta ad accettare l’inferno americano. La domanda da farci, però, è la seguente: esiste la nostra parte nel mondo conteso e multipolare?
Solamente il secolo (e più) della lotta di classe ha reso il mondo abitabile. Senza lotta di classe, l’Occidente coincide con il «clima propizio della Dinastia Morgan», il Sud Globale, che pure è un argine all’Occidente di cui sopra, non brilla per potenziale di libertà.
Nel caos sistemico, la nostra parte non c’è ancora. Il nostro compito, nel profluvio delle «biforcazioni a cascata» proprie del caos e dei «sistemi lontani dall’equilibrio», è inventarla. Servono immaginazione, organizzazione, intelligenza massima e fiducia.
Il testo è una trascrizione aggiornata del contributo alla tavola rotonda di ieri “Usa al bivio”, apparsa su Dinamo Press prima ancora che fossero noti i risultati delle elezioni statunitensi.
Immagine di copertina: wikimedia commons
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