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MONDO

USA al bivio #16: full metal Trump

Nelle fasi finali della campagna, la battaglia per l’immaginario della nazione fra agitprop e cinema. L’ultima settimana è stata infatti ricca di comizi e discorsi da imbonitore per il magnate, che attacca anche il mondo del cinema

Questa settimana Donald Trump ha tenuto comizi in alcuni stati dell’Ovest, Arizona, Nevada e perfino la California, che non è certo uno swing state (quindi potenzialmente cruciale alla vittoria nel collegio elettorale come invece lo sono i primi due). Malgrado la super-maggioranza democratica, la California ha tuttavia un peso specifico come affidabile fonte di finanziamenti (per entrambi i candidati) e uno simbolico come “giardino di casa” della avversaria. Nel deserto di Coachella, a 200 km da Los Angeles, Trump si è assicurato di ripeterlo alla folla accorsa per uno dei discorsi che sono una specie di festival partecipativo in cui il pubblico reclama le “greatest hits” dal proprio idolo e risponde con cori e slogan nei momenti prestabiliti (“We love Trump”; “USA, USA…”, “CNN Sucks..”, e così  via).

Il candidato non ha deluso il popolo Maga accorso numeroso con l’abbigliamento prescritto – solo una delle caratteristiche che rimandano ai sermoni religiosi, in cui la dimensione prevalente è la catarsi e l’identificazione collettiva. Il discorso è iniziato con un estemporaneo sondaggio, via applausometro, sull’opportunità o meno di mettersi il berretto rosso d’ordinanza, l’entusiasmo che questo siparietto ha suscitato nella folla non è stato molto diverso dalla passione esibita per i temi politici.

Da lì, il comizio è proseguito con gli attacchi derisori a Kamála (enfasi posta di proposito sulla sillaba sbagliata per effetto puramente denigratorio), uno sproloquio dadaista sul progetto di fornire alla California, in cronico stato di siccità, «abbastanza acqua da inondarla» e il tema principale dell’invasione di clandestini criminali che insidiano donne e bambini di onesti patrioti, invasione ovviamente abilitata da Kamala Harris. Nel repertorio, i nemici esterni (profughi Haitiani che mangiano animali da compagnia o, nella la variante attuale, bande criminali venezuelane che occupano interi edifici terrorizzando gli inquilini) si alternano a infide quinte colonne che minano dall’interno il carattere americano. In questo reparto, la folla è stata aizzata principalmente contro la correttezza politica del gender, con l’ausilio di alcuni video di agitprop proiettati sul maxischermo come sempre più spesso accade nei comizi di Trump.

Fra i filmati risaltava quello contro il wokismo che sta infettando le forze armate.  Per illustrare il concetto, sono state montate scene di addestramento di Marines tratte da Full Metal Jacket, alternandole a immagini di soldati in drag. Nella contrapposizione, il sergente, il cui sadismo, nel film di Kubrick, spinge la recluta a ucciderlo prima di togliersi la vita, era l’archetipo positivo della corretta disciplina virile, oggetto degli applausi a loro volta alternati ai fischi per i “soldati-femminielli”.

La derisione degli avversari come maschi-beta e l’elogio mussoliniano della prestanza del proprio campione, sono parte integrante della campagna trumpista.  È Improbabile che fra le diverse migliaia di astanti vi fosse qualcuno che ha riconosciuto la provenienza delle immagini di Kubrick – ma l’inversione mercenaria del senso dell’opera appropriata ha trasmesso il cinismo con cui l’ordine simbolico viene triturato nel tiktok generale, un frullatore culturale in cui ogni contesto artistico, o politico, viene di proposito reso insignificante. Il tipo di operazione, in altre parole, emblematico del leader ideologicamente agnostico e profondamente opportunista che è Donald Trump, un demagogo la cui “conversione” politica è stata interamente strumentale all’acquisizione del potere.

Immaginario: da The Apprentice a Megalopolis

E la trasformazione del palazzinaro Donald J. Trump nel personaggio che oggi incombe sulla democrazia americana, è oggetto, in questi giorni di fine campagna, di The Apprentice, il film uscito venerdì in circa 1700 sale americane e subito denunciato da Trump come «un attacco politico gratuito e disgustoso» nei suoi confronti.

 Il film del regista iraniano-danese Ali Abbasi racconta il rapporto fra Donald Trump e Roy Cohn, il suo avvocato negli anni ’70 e ’80, ed era stato proiettato a Cannes lo scorso maggio. Già allora, però, una minacciosa ingiunzione spedita dalla campagna Trump sembrava aver pregiudicato l’uscita del film. L’accusa di diffamazione ha infatti fatto dileguare potenziali distributori timorosi di querele o, peggio, rappresaglie di un potenziale vendicativo presidente. Gabriel Sherman, autore della sceneggiatura, ha inoltre rivelato che paradossalmente anche la stessa produzione, la Kinematics, aveva tentato di sabotare il proprio film. La società produttrice è guidata dal produttore Mark Rapaport ma finanziata dal suocero, Dan Snyder, ex-proprietario della squadra di football di Washington e miliardario sostenitore di Trump

Quando un unico distributore, la Briarcliff di Tom Ortenberg (che in passato ha distribuito Spotlight, sugli scandali pedofili nella diocesi di Boston, e Fahrenheit 911 di Michael Moore), ha infine accettato l’incarico, Snyder ha rifiutato di firmare il contratto. Per uscire in sala, gli autori hanno dovuto trovare ulteriori finanziamenti e rilevare il titolo dalla Kinematics per 7 milioni di dollari.

I retroscena sono particolarmente adatti al soggetto del film, visto che Cohn fu famigerato come protagonista degli anni più cupi del maccartismo e successivamente maestro di tattiche legali intimidatorie a servizio di potenti assistiti. Fra questi vi fu anche Donald Trump, che tentava allora di emergere dall’ombra del padre, Fred, anch’egli speculatore edilizio, e farsi un nome nel business e nella società newyorchese.  Per il giovane Donald Cohn fu però ben più che semplice avvocato, ma figura centrale nella trasformazione dell’aspirante imprenditore ideologicamente agnostico, nell’opportunista che oggi conosciamo.

Crepuscolare e bilioso, Cohn è figura di congiunzione fra Trump e pregressi fascismi d’America. La traiettoria del mefistofelico avvocato che, a metà anni ’70, divenne mentore “spirituale” del futuro demagogo, va dall’estremismo anticomunista del senatore McCarthy, di cui fu braccio destro, alle malefatte del conservatorismo di era Nixon. Cohn incarna emblematicamente la “deriva amorale” che ha caratterizzato la svolta nazional-populista dei conservatori americani.

Copertina del film The Apprentice (fair use)

Figura complessa e contraddittoria, reazionario viscerale e omosessuale represso, Cohn aveva iniziato la carriera come assistente procuratore responsabile della condanna alla sedia elettrica non solo di Julius Rosenberg per aver venduto segreti ai sovietici, ma anche della sua giovane moglie, e madre di due figli piccoli, Ethel. Dopo gli anni maccartisti si era riciclato come legale delle famiglie di Cosa Nostra a New York, diventando potente avvocato temuto per aggressività e mancanza di scrupoli (era uso registrare di soppiatto le conversazioni di importanti ospiti delle sue feste nella Upper East Side, per poterli poi, se necessario, ricattare). Sarebbe morto, a metà degli anni ’80, di AIDS, negli anni in cui la malattia falcidiò la comunità gay, diventando, anche in questo, figura emblematica dell’ipocrisia e della rimozione politica che circondò l’epidemia in era reaganiana. Cohn era già stato oggetto di disamina drammaturgica nel Angels in America di Tony Kushner (interpretato da Al Pacino nell’adattamento televisivo di Mike Nichols).

The Apprentice si incentra sui comandamenti che Cohn impartisce al volenteroso pupillo a cui insegna ad attaccare sempre e comunque, negare fino alla fine e non ammettere mai una sconfitta: le basi della aggressiva amoralità su cui Trump costruirà il proprio successo e in seguito la propria ascesa politica. Il film è dunque uno studio sull’artificio “teatrale” del personaggio che Cohn insegnerà a Trump ma ancora di più, una sorta di archeologia psicopatologica di fascismi e narcisismi americani.

«Nel manuale diagnostico delle patologie mentali, vi sono sette caratteristiche associate con la personalità antisociale», ha scritto sul “New York Times” Tony Schwartz, ghost writer dell’autobiografia di Trump (Art of the Deal), che appare fra i personaggi del film e lo reputa «emozionalmente autentico». «Negli anni, ho avuto modo di osservarle tutte da vicino nel carattere di Trump: ingannevolezza, impulsività, insofferenza a leggi e convenzioni sociali, sprezzo per la sicurezza, irresponsabilità e soprattutto la mancanza congenita di rimorso che abilità le altre sei».

Oltre allo studio psicologico, Abbasi, intanto, considera il film, una «genealogia della destra contemporanea». A una proiezione per addetti ai lavori nella sede della agenzia CAA di Los Angeles, il regista ha ammesso di aver voluto “umanizzare” i personaggi. «Allo stesso tempo – ha affermato – eravamo coscienti di una responsabilità dinanzi alla storia. Nessuno voleva essere quello che nel 1928 fa un film su Hitler come semplicemente “eccentrico”».

Vista l’attuale polarizzazione, è improbabile che il film influisca sul voto, ma già la sola uscita offre una riflessione sull’importanza della memoria storica, nel contesto della generale amnesia che sembra affliggere il momento. E forse, alla luce della crisi di paradigmi come quello politico e giornalistico, pure sull’opportunità di metabolizzare la regressione oscurantista anche attraverso la lente narrativa.

Un’altra cogitazione artistica sui tempi, purtroppo in gran parte ignorata, è Megalopolis di Francis Ford Coppola. Il film del regista che aveva meditato in modo letterario e operistico sulla guerra in Vietnam, mette in scena una allegoria straordinariamente pertinente sulla polis dilaniata da ambizione, capitale e potere. Sull’artificio teatrale di una pericolante “Nuova Roma,” Coppola costruisce una metafora dell’edificio americano, quindi occidentale, nuovamente sul ciglio dell’abisso e che torna a confrontarsi col carnefice che non è riuscito bandire. Un film che è quanto di più vicino Hollywood abbia prodotto a un trattato di filosofia e una magnifica “follia” autoprodotta da 100 milioni di dollari, che è testamento della necessità di opporsi alla demagogia totalizzante anche, forse soprattutto, con l’immaginario.

La foto di copertina è dell’autore

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