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Bologna: fra emergenza abitativa e lavoro povero

È partito un gruppo di inchiesta “Laboratorio Bologna” per analizzare i profondi cambiamenti in atto del tessuto sociale, capire la nuova geografia urbana e le dinamiche sociali che si producono nella città. Un’inchiesta collettiva che sia in grado di produrre saperi nuovi e conflitti per riappropriarsi dello spazio urbano

All’inizio degli anni ’70 Bologna, con il suo centro storico, è stata protagonista di un esperimento di recupero urbano che rappresenta un punto chiave nella storia dell’urbanistica contemporanea. In quell’anno l’Amministrazione comunale presentò una variante integrativa al piano di edilizia economica e popolare (PEEP) vigente dal 1965. La variante, elaborata dall’Assessorato all’ Edilizia Pubblica diretto da Pierluigi Cervellati, estendeva al centro storico gli interventi di edilizia economica e popolare. Oltre al recupero del costruito e la tutela sociale degli e delle abitanti, il fine culturale e politico era quello di giungere ad avere abitazioni a proprietà indivisa nei diversi comparti previsti, trasformando la casa da “bene produttivo” a servizio sociale per  cittadini e cittadine, riconoscendo il centro storico come organismo urbano unitario di valore culturale.

Il concetto di “conservazione dei centri storici” era entrato per la prima volta nella legislazione urbanistica con la legge 765 del 1967 nella quale si prevedeva nei centri storici esclusivamente interventi di opere di consolidamento e di restauro, senza alterazioni dei volumi, (unitamente alla inedificabilità delle aree libere) fino alla redazione e approvazione di un piano regolatore generale.

Bologna fu tra le prime città a dotarsi, nel 1969, di un piano per il centro storico, introducendo la classificazione tipologica per ogni edificio e assegnando, per ogni tipo, la categoria di intervento . Era stata determinante l’indagine condotta pochi anni prima da Leonardo Benevolo con la consulenza di Antonio Cederna, per individuare i “valori” della città antica.

Nel centro storico di Bologna da un’analisi condotta emergeva una struttura sociale della popolazione debole che andava protetta e favorita nella continuità dell’abitare: si imponeva infatti che il restauro-recupero delle case assicurasse il rientro di chi lì già abitava  con canone di affitto equo e controllato.

Tutto questo oggi appare lontano, anche se Bologna continua a essere sede di sperimentazioni urbanistiche. Sono però di tutt’altra natura! Le scelte che sono alla base delle trasformazioni urbane oggi vedono le amministrazioni pubbliche ricoprire il ruolo di facilitatore degli interessi privati. Le persone che abitavano nel centro storico sono stati espulse dall’invasione pervasiva prima dell’università e poi dalla turistificazione.

La città , modello riconosciuto per la produzione artistica legata ai luoghi delle sottoculture e all’università con il DAMS, è diventata la City of Food, con la sua ambizione di presentare una nuova immagine per attirare  un pubblico generico e internazionale. E poi è arrivato Fico Eataly World oggi sostituito da Grand Tour Italia, 50mila mq di ristoranti, mercati e parchi gioco.

Il brand di città del cibo si è costruito passo dopo passo fino a trasformare “Bologna la dotta”  in una “Disneyland del cibo”.

Bologna è interessata da altri interventi che ne trasformeranno ancora l’abitare. L’enorme area del Tecnopolo che ospita centri di ricerca e sperimentazione per l’innovazione tecnologica e ha 2000 dipendenti. L’hub logistico dell’interporto, le sedi delle grandi piattaforme e delle industrie multinazionali indicano la globalizzazione che sta trasformando il territorio e contemporaneamente il tessuto sociale e ogni abitante. I manufatti e le infrastrutture si fanno spazio cancellando intere aree verdi, nonostante la strenua difesa di chi risiede in quei quartieri.

La città vede crescere le contraddizioni. Per chi studia o lavora a Bologna trovare una casa è un’impresa disperata. Studiare è diventato un privilegio riservato a chi può pagare le cifre esorbitanti richieste dagli studentati privati. La crisi è talmente grande da spingere l’amministrazione a parlare di un “piano per l’abitare” con la costruzione di 10mila nuovi alloggi. Non si tratta però di edilizia pubblica, scomparsa oramai dall’orizzonte di ogni amministrazione, ma di interventi privati, con l’impegno di affittarne una percentuale a prezzi calmierati.

Parole sempre uguali in ogni territorio servono a nascondere l’assenza di politiche pubbliche in grado di trovare soluzioni adeguate .

Si parla  alla Fiera Internazionale e Festival sull’Innovazione: AI, Tech and Digital “We Make Future 2024 della Città della Conoscenza dove «creare le condizioni ideali per favorire lo sviluppo economico tramite l’innovazione e la contaminazione tra le imprese per facilitare collaborazioni pubblico-private, per attrarre talenti e aziende sul territorio e per migliorare la competitività dell’ecosistema imprenditoriale».

Mentre aumentano le difficoltà economiche di una fascia sociale sempre più ampia, crescono le disuguaglianze, ma faticano a emergere conflitti e vertenze per contrastare l’incubo-casa e la crescente polarizzazione della ricchezza, con l’espansione dei redditi medio-bassi e intermittenti.

Il lavoro e l’abitare: due temi che si intrecciano, prezzi per gli affitti sempre più alti, scarsità dell’offerta, lavoro sempre più povero e precario nelle piattaforme digitali, nelle cooperative sociali, nelle pulizie, nella logistica, nella ristorazione, nei bar, nell’eventistica.

Lavoratori e lavoratrici indispensabili per far funzionare la macchina infernale per “lo sviluppo di Bologna” ai quali non viene riconosciuto il diritto ad abitare nella città.

Di fronte a questo scenario ha preso vita un Laboratorio per analizzare i profondi cambiamenti in atto del tessuto sociale e capire la nuova geografia urbana e le dinamiche sociali che si producono.  Laboratorio Bologna ha deciso di avviare un’inchiesta collettiva che sia in grado di produrre saperi nuovi e conflitti per riappropriarsi dello spazio urbano. Il Laboratorio nasce  dalla necessità creare una connessione fra i percorsi di sperimentazione già attivi e per favorire la nascita di nuove relazioni e confronti, in una città che mentre attrae flussi di dati, capitali e persone è incapace di garantire condizioni di  vita degna a  una fascia sociale sempre più ampia, dove crescono le disuguaglianze, ma faticano a emergere conflitti e vertenze decisive in grado di contrastare o almeno influenzare queste tendenze.

A ottobre del 2022 una grande manifestazione contro l’allargamento della tangenziale ha visto la convergenza di varie realtà: comitati, collettivi, come Collettivo di Fabbrica GKN, Fridays for Future Italia, Assemblea No Passante, Rete Sovranità Alimentare, contrari alla realizzazione dell’opera. Una manifestazione  «per i diritti, l’ambiente, la salute, gli spazi pubblici e comuni, una vita bella e per la pace, è ancora tempo di convergere: per questo, per altro, per tutto», scrivevano gli attivisti in una nota. 

Da lì è partita la volontà di creare uno spazio aperto, collettivo per collegare le tante lotte e mobilitazioni territoriali con l’ambizione di avviare un processo di convergenza e contaminazione. Un appello pubblico ha chiamato la città tutta a dare vita a un laboratorio e la risposta c’è stata. Così è nato Laboratorio Bologna.

Sul blog scrivono : «Con l’inchiesta intendiamo conoscere, senza compiacimenti, uno spaccato della società bolognese. Cercheremo di raccontarne le radici più profonde, proveremo di descrivere al meglio le pesanti condizioni di sfruttamento che si vivono nei comparti produttivi che hanno marcato significativamente il volto della nostra città. Vorremmo tracciare nuove strade del conflitto sociale, andando incontro ai bisogni (e alle rivendicazioni necessarie per soddisfarli) di chi sta pagando il peso di questi cambiamenti epocali».

Il 7 ottobre si è riunito il gruppo di lavoro sull’abitare che ha individuato gli strumenti da utilizzare, i luoghi su cui lavorare, le controparti e i soggetti con i quali avviare una campagna politica sullo spazio urbano. In particolare si è pensato di utilizzare testimonianze e interviste, anche utilizzando questionari da proporre negli spazi individuati. Si vuole indagare l’abitare in tutta la sua complessità e le relazioni che stabilisce con i corpi, gli spazi e gli oggetti. «La multidimensionalità dell’abitare è parte di come si costruisce la soggettività oggi, anche attraverso dispositivi marcati che gerarchizzano l’abitare: razzializzazione e genere» scrivono. Perché abitare significa vivere e non avere una casa è sentirsi privato della possibilità di vivere. Nel prossimo appuntamento, fissato per il 30 ottobre, si proseguirà il lavoro collettivo per iniziare ad approfondire e selezionare le tracce finora emerse.

«Emergenza abitativa e lavoro salariato “povero” non possono continuare a rappresentare la nostra prospettiva di vita», dichiarano.

Tutte le immagini sono di https://laboratoriobologna.blog/

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