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Pancino: dalla militanza autonoma alla medicina sociale

“Ricordi a piede libero” qui recensito racconta la vicenda umana, politica e scientifica di Gianfranco Pancino, cominciata in giubbotto con un megafono in mano e terminata in frac a una cerimonia del Nobel. Un fascio di luce su una storia collettiva degli anni dell’Autonomia, lontano dalla retorica sugli anni di piombo che aduggia tanta letteratura politica corrente

«La medicina è una scienza sociale e la politica non è altro che medicina su ampia scala». La massima di Rudolph Virchow comparsa su Die Medicinische Reform, rivista nata nel luglio del 1848 tra le barricate di Berlino, potrebbe essere una valida introduzione al volume di Gianfranco Pancino Ricordi a piede libero (Mimesis, Milano/Udine 2024).

Nelle sue pagine quei ricordi si snodano grazie a  una scrittura agile e chiara, attraverso differenti periodi storici, dagli studi di medicina, nel pieno della rivolta studentesca che inaugura un conflitto sociale lungo e doloroso, feroce e pieno di gioia. Una fase storica convulsa e fertile che ha stravolto la società italiana e avrebbe potuto aprire una nuova pagina della storia di questo Paese, prima di finire nelle maglie scure della repressione. Il racconto di Pancino prosegue, quindi, dentro la stagione di “Rosso” e dell’Autonomia fino al processo del 7 aprile ’79. Da quel crinale della storia la sua vita, come quella di molti altri, si trasforma e comincia un esilio che la memoria tratteggia fra la malinconia e l’incanto, prima in Messico, enorme e sconosciuto Paese esplorato a bordo di macchine scassate, poi a Parigi sotto l’ombrello della “dottrina Mitterrand” dove si ritrovano vecchi compagni, si rinsaldano legami maturati dentro il fuoco dello scontro politico ma anche tra viaggi, amori, vino, chitarre e progetti politici, una meravigliosa vita collettiva. Quello che sono stati gli anni Settanta dei rivoluzionari italiani, insomma, con buona pace dei corifei degli “anni di piombo”.

Dentro queste pagine si delineano le figure del militante politico, l’esule, lo scienziato, «tre vite diverse, ognuna vissuta intensamente – si legge nelle sue pagine – la vita politica, la più entusiasmante; la vita del fuggitivo, sdoppiata e avventurosa; e la vita rifondata dello scienziato».  

Stagioni della vita che si riuniscono in una visione di fondo, quella ricerca di liberazione per l’umanità nutrita dalla capacità «di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo» che per il Che era «la qualità più bella di un rivoluzionario». Le tre vite di Pancino trovano quindi un comune denominatore, come per migliaia di giovani in quegli anni di rivolta, nella militanza politica che costituisce il vero alveo dove tutte le esperienze, le aspirazioni le frustrazioni e i dolori vengono convogliati.

In questi quarant’anni e oltre di storia politica e vicende personali, la medicina fa capolino restando una presenza sottotraccia che sopravvive all’asprezza dell’esilio  e riaffiora in Messico, nella Primavera del 1980, con il progetto di una casa editrice cui Pancino avrebbe dovuto contribuire con «un saggio sulla medicina del lavoro e il suo ruolo nell’organizzazione della produzione capitalista». Il progetto non si concretizza, per la difficile situazione del momento ma è solo un appuntamento mancato con quella medicina che non riesce proprio a essere una scienza asettica priva di orientamento politico ma in una visione «sociale», rimanda alle idee di Virchow e, ancor prima, a quelle di Salomon Neumann o, ancora, a Jules Guérin, che conia il termine “medicina sociale” sulla “Gazette Medicale de Paris”, in quel convulso, entusiasmante ’48 che scuote l’Europa.

Proprio nella capitale francese la medicina tornerà a bussare alle porte di questo medico diviso fra «l’autonomia operaia, l’esilio, gli studi sull’Hiv» con una svolta inaspettata, quando comincia il lavoro di ricerca su cancro e Hiv, fornendo significativi contributi sui meccanismi di protezione contro l’infezione da Hiv e l’Aids, in collaborazione con la premio Nobel Françoise Barre-Sinoussi. Una nuova vita nella quale «l’esperienza rivoluzionaria e quella scientifica mi si mostravano nella loro diversa ricchezza: il primo amore breve e travolgente e l’amore maturo lungo e profondo».

«Malgrado la ricerca mi appassionasse, mi pareva d’aver vissuto prima una passione più intensa, quasi una folgorazione che mi aveva bruciato gli occhi, come quando si è abbacinati dal sole e le immagini si fanno poi più tenue e sfocate. […] I miei compagni facevano parte di me, come un grande sincizio con molti corpi, anime, pensieri».

Questo è stato il lungo Sessantotto italiano, una grande e gioiosa rivolta strozzata nelle carceri per tutto il decennio orribile degli Ottanta, che la narrazione di Stato racconta come un periodo buio, «di piombo». Contro questa narrazione e l’apologia dei vincitori che avrebbero salvato il paese dal terrorismo, da alcuni anni fioriscono numerose pubblicazioni che provano a invertire la tendenza, raccontando e quello che è accaduto in Italia e in Europa dal ’68 in poi in termini di lotta di classe e rivolta metropolitana.

Gioia e rivoluzione che si oppongono alla tetra narrazione di chi vorrebbe affossare la forza di quegli anni dentro la tomba della «generazione degli anni perduti», come titola un mesto volume di Aldo Grandi.

Il libro di Gianfranco Pancino fa invece parte delle pubblicazioni dissidenti, che  ricostruiscono la  storia di quegli anni provando a tirare fuori dalla cenere piccole braci sulle quali si possibile avviare la speranza di un nuovo fuoco.

Qualcuno, assistendo a questo proliferare della pubblicistica dedicata, in particolare, alle esperienze dell’Autonomia, o meglio con la minuscola «delle autonomie», faceva osservare che la mole di volumi aveva abbondantemente superato quelli dedicati al Pci da Paolo Spriano. In fondo è del tutto naturale che sia così, perché si tratta di una storia dai mille volti della quale non siamo ancora  in grado di leggere fino in fondo il portato politico-culturale e una simile mole di pubblicazioni servirà a a fissare dei tasselli grazie ai quali, poi, ricostruire un mosaico che rappresenti quelle che sono state le esperienze autonome che si sono avvicendate in Italia, con buona pace del Pci.

Ricordi a piede libero racconta, tra storie e versi, una vicenda umana, politica e scientifica cominciata «in giubbotto con un megafono in mano» e terminata «in frac a una cerimonia del Nobel» che getta luce su una storia collettiva, invitando in maniera leggera ma solida a rileggere quello che è accaduto e provando a intuire quello che potrebbe ancora accadere.

Il libro verrà presentato a Napoli, presso Zero, giovedì 3 ottobre

Immagini di copertina da wikimediacommons

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