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L’indie fantasma. Su Sottotraccia di Hamilton Santià

In “Sotto traccia. Una storia indie contemporanea”, Effequ, 340 pp., € euro, Hamilton Santià fa della musica indie una metafora dell’impasse generazionale che coincide con la pretesa della ‘fine della storia” e dell’avvento del realismo capitalista. Quando il futuro non arriva e il fantasma cancella la traccia, l’unica autenticità possibile è allora quella della low-fi

«Una delle mie più grandi paure è quella di essere smascherato», ammette Hamilton Santià all’inizio dell’ultimo capitolo del suo libro Sotto traccia. Una storia indie contemporanea.

La maschera

In extremis, Santià enuncia il principio costruttivo di tutto il suo lavoro – enorme – di raccolta e montaggio, da competente (oltre a scrivere di musica, la fa: suona nei Wends e ha calcato palchi importanti), di diciotto anni di musica “indipendente”, dal 1994 al 2012. Tutto ruota attorno alla maschera: la maschera dell’autonomia rispetto a un circuito, quello mainstream, dominato dalle logiche dello spettacolo capitalista. Una maschera che viene vissuta negli anni come militanza orgogliosa, ma anche con dubbi più o meno atroci: l’indipendenza ostentata non è forse un altro slogan pronto a esser divorato e digerito dal mercato? Non è forse accaduto esattamente questo, e non è accaduto sin dall’inizio? Il tema è quello della “sussunzione” sotto il capitale, o della colonizzazione – dell’indie, della musica indipendente, che è grido di autonomia, ma inevitabilmente si vende, è anche merce. Cosa succede quando arriva il successo, ovvero si vende di più? «Non siamo noi a vincere perché siamo lì, ma sono loro a vincere perché ci hanno colonizzato» (p. 324).

Scritto sotto la minaccia costante di sentirsi scoperti diversi da ciò che si crede o si dice di essere, Sotto traccia è un memoir, ma anche un saggio dalle note molto lunghe (e spesso fondamentali). E naturalmente pure un manuale agile di storia di (una) musica dove trovare tutto, notizie e valutazioni, su una dozzina di generi e sottoculture dei due lati dell’Atlantico, con una finestra sull’indie italico. I discorsi si complicano spesso, i linguaggi si mescolano. Temi e stilemi alti si infrangono su giudizi scientemente scurrili (memorabile la tirata su Eric Clapton), momenti da critico musicale consumato o da studioso di cinematografia si alternano a divagazioni personali, a confessioni da me too (organiche a una voluta disorganicità stilistica), a quadri d’insieme. Così, accanto alle ricostruzioni delle modifiche strutturali della distribuzione e dello storytelling dell’indie – dalle riviste alle webzine fino ai file scambiati peer to peer, a MySpace e Tumblr –, ecco riflessioni acute su depressione e hipster, su gentrificazione e retromanie. O sul machismo di molti degli ambienti pure pensati come “sinistri” (come i pregiudizi che portarono a stroncare Lana Del Rey, per il successo debordante e “artificiale” di Born to Die, “riparati” fuori tempo massimo).

My generation

Ma innanzitutto Sotto traccia è un’autoetnografia generazionale di un consumatore di musica indie. «Ancora adesso il concetto di generazione mi ossessiona», leggiamo. La posizione iniziale è senz’altro, e sempre, politica e si potrebbe riassumere in una domanda: cosa si prova a stare dalla parte dei non-rappresentati quando diventano molto rappresentati, quando le innovazioni tecnologiche permettono di sentirli e vederle ovunque? Montaggio di riflessioni rimuginate, sensazioni ricordate, profezie enunciate e dubbi del passato ancora evocati come dubbi, Sotto traccia è innanzitutto un diario molto ragionato su tic e automatismi di chi sta dalla parte sinistra – cioè minore, distorta, weird della società (Mark Fisher è il polo di un dialogo costante nel libro) – e che progressivamente, in un romanzo di formazione maturato tra deviazioni noise ed elettroniche, mette in crisi le proprie certezze. Ma se la sua generazione lo ossessiona, è perché si percepisce e si sa come “fantasma” (Derrida, ancora Fisher) – e con i fantasmi non ci gioca, ma si lascia infestare.

Il libro si muove in una storia delimitata: prende il 1994 come data d’inizio e smette nel 2012. Diciotto anni dunque – il primo cominciato con la fiammata (il verso di Neil Young citato da Cobain nel suo biglietto d’addio, e Santià rievoca la moglie Courtney Love tracimare odio e insulti mentre lo legge nell’interminabile veglia che seguì la morte), il secondo finito con l’avvento di una piattaforma che, come altre, ha persuaso milioni di poter ascoltare musica gratis e sempre (Spotify). In mezzo, l’epopea della fine.

Francis, it was really nothing

La sua generazione ossessiona l’autore (classe 1986), perché fallita. «Mi riconosco in una generazione che si è fatta stanca o disillusa rispetto a quella musica…», si legge (p. 254). Rinunciando a pose nostalgiche, Santià descrive – con grande efficacia – una generazione che ha problemi nei rapporti con lo spazio e col tempo: perché ha a disposizione «la moltitudine e la simultaneità del pop di tutte le epoche». Nella mise en abyme della condivisibilità e riproducibilità di ogni brano sempre e comunque, il cortocircuito cognitivo e percettivo che ne sorge è la condizione di una difficoltà pratica e immaginativa a pensare alternative reali al realismo capitalista. Una difficoltà che va di pari passo con il racconto e la ripetizione di una favola che il libro enuncia più volte, talora senza la giusta distanza: quella sentita e risentita, nella pubblicistica, della “fine della storia”. Francis Fukuyama, ancora e ancora: e il suo mito che col 1989 la storia finisce, tutto è liberal-democrazia capitalistica e i cittadini sono gli ultimi uomini nietzscheani (o weberiani). È questa la regola della macchina che Santià vede a pieno regime anche nelle produzioni musicali anglosassoni. Dove il “mito della fine” si radica in una disciplina individualista di produttività euforica, di liberismo abbracciato da sinistra. Cool Britannia, clintonismo e Terze vie sciagurate che segnano l’inagibilità di ogni discorso basato sul conflitto e stendono tappeti rossi o libri (come quello di Richard Florida) per parole come autenticità e creatività.

Un indottrinamento ideologico senza pari per la generazione X prima, abusata e scura, e i Millennials dopo («i veri figli di mezzo della storia», p. 203) che crescono al ritmo coatto della retorica della “classe creativa”: «c’è un nesso logico tra ascesa della classe creativa, gentrificazione dei piccoli quartieri delle grandi città, radicamento di un’economia dell’autenticità calata dall’alto» (p. 265).

Certo nel frattempo la storia non era finita davvero: e non lo dimostrano solo l’11 settembre e le botte di Genova, e le stupide guerre successive in Afghanistan e Iraq, ma ogni riuscito tratto di oppressione – e ogni tentata resistenza. Eppure Santià traccia un resoconto ambiguo: «Il passato non va via e il futuro non può arrivare». Con chiarezza estrema, mostra come la traiettoria dell’indie finisce lì dove lo portano le strutture (tecnologiche ed economiche): la percezione e la narrativa, di un presente permanente, «dove tutto capita in modo simultaneo, niente cambia né si evolve mai veramente» (p. 222).

Nella stasi percettiva, Santià interroga le date-frontiera, le cesure apparenti – i momenti che fanno “epoca”, che sospendono, riattivano, o spengono definitivamente. Così il 1994 di Cobain e Berlusconi (Kurt ci perdoni), il 2001 di Genova e Twin Towers, il 2008 del crollo finanziario Usa. Ma anche istanti musicali simbolici e ripescati: come l’orrida Woodstock del 1999 (copia della copia), esibizione nel fango di maschi bianchi arrabbiati in un contesto di totale appropriazione da parte dei marchi e degli sponsor. Momenti epocali, appunto.

Spostare aria

In un passo famoso del suo saggio su Kafka, Walter Benjamin dice che i personaggi kafkiani, quando si muovono, spostano epoche.

È curioso che un libro sull’immaginario e gli spostamenti d’epoca prodotti da note, pose e look dentro gli studi e sui palchi di club o stadi si chiuda dicendo che «la musica non è nient’altro che spostamento di aria» (p. 313). E chiedendosi perché «non riesce mai a combinare praticamente niente?» (p. 315).

Naturalmente il punto non è, quando ascoltiamo musica (anche di nicchia, anche con una postura che riteniamo eticamente corretta), avere «un orizzonte di valori condivisi» e neppure avere, insieme, tre minuti in cui «stiamo apprezzando la stessa canzone» (p. 316). Ma è la capacità dell’ascolto distratto (che è ascolto e visione e condivisione di immaginari che sono onirici, eccessivi, o semplicemente eccentrici, devianti dalla norma) di determinare spazi sociali, o di negarli, o di spostarli, mentre sposta aria, magari solo di poco – a volte di molto.

E allora perché la postura del fallimento, ripetuta ovunque? Perché «non si è mai mancato di fallire»? Forse perché Sotto traccia non è, o non è soltanto, il resoconto di un fallimentare successo documentale – l’aver lasciato traccia “sotto”, invisibile. Ma è anche la narrazione di un’impasse narrativa e delle sue condizioni sociali, politiche. Per questo riappaiono i fantasmi. Dal grunge al triphop allo shoegaze, dagli Oasis agli Strokes agli LCD Soundsystem, Sotto traccia svela in musica i fantasmi di malessere e d’inazione di una generazione – e lo fa col racconto in prima persona dove i tempi si mischiano, le sfumature si perdono. Ed è l’unica autenticità possibile, a bassa, minima fedeltà.

Immagine di copertina da WikiCommons: Black Cat Lounge on 6th Street in Austin, Texas. The Black Cat was an anarchist-run punk rock/psychobilly/funk/indie/biker music venue.

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