approfondimenti

EUROPA

Ogni maledetto sabato a Berlino

Cronaca di una manifestazione berlinese pro-Palestina. Duro intervento repressivo, il paradosso di una polizia a elevata composizione di persone di seconda generazione che picchia gli attivisti mediorientali


Quella volta sono arrivati prima i paramedici. Si sono messi al lato sinistro del corteo, proprio dove eravamo noi. Pronti a intervenire. La situazione era concitata come sempre, ma guardandomi intorno non ho visto nessuno che avesse bisogno di cure. Almeno fino a quel momento.

I poliziotti con gesti meccanici hanno infilato caschi e guanti (quelli tattici, con le nocche rinforzate), alzato telecamere di controllo sulle nostre teste e fatto irruzione nel corteo con violenza, portando via ragazzi, madri e bambini, spesso arabi, “colpevoli” di aver cantato From the river to the sea o accroccato un triangolo capovolto intrecciando le dita (secondo und tribunale tedesco la frase: Dal fiume al mare può essere interpretata come la negazione dello Stato di Israele e il triangolo rovesciato richiama al simbolo delle brigate Al-Qassam, quindi antisemitismo). Il prelievo dal corteo avviene spesso per asfissia: il poliziotto tappa naso e bocca al malcapitato causando crisi epilettiche, svenimenti, principi di infarto, rompendo nasi, denti, qualche arto.

Forze di polizia schierate davanti a manifestanti pro Palestina

Ecco la funzione dei paramedici che a questo punto si infilano dentro al fiume nero aperto dalla Polizei per prestare soccorso a coloro i quali, per fare scudo ai manifestanti arrestati, sono stati raggiunti da spray urticante, pugni, calci, e colpi vari. «Efficienza tedesca», ho pensato, «prima di ammazzarci di botte si assicurano che è tutto pronto per riparare il danno».

Ė da quasi un anno che a Berlino, ogni weekend un migliaio di persone scende in piazza per chiedere la fine del genocidio in Palestina. Ė da quasi un anno che a Berlino a indossare la kefiah, ad affermare che Israele commette Apartheid e a gridare che Benjamin Netanyahu è un criminale di guerra, si finisce picchiati dalle forze dell’ordine, perquisiti dentro casa, portati davanti a un giudice con l’accusa di antisemitismo.
Amnesty International tiene sott’occhio la polizia di Berlino per ripetute violazioni del diritto di parola e di assemblea, uso sproporzionato della forza soprattutto ai danni di alcune minoranze etniche e di genere.

Quando l’antisemitismo diventa ideologia

Dopo l’attentato di Hamas del 7 ottobre, le sedi delle istituzioni tedesche hanno immediatamente issato al fianco delle bandiere europea, federale e cittadina, quella israeliana. Angela Merkel lo aveva dichiarato già alla Knesset nel 2008, Scholz ci ha tenuto a ripeterlo il 17 ottobre scorso a Tel Aviv: la difesa di Israele è parte fondante della ragione di stato tedesca. Indipendentemente da cosa fa Israele. Questo sostegno cieco ha minato però la reputazione di Berlino nello scacchiere internazionale, portandola a schierarsi al fianco di Israele anche di fronte alla corte di giustizia internazionale (che ha riconosciuto Netanyahu criminale di guerra). A giugno poi in Germania è entrata in vigore una legge che prevede che chiunque richieda la cittadinanza tedesca debba riconoscere l’esistenza dello Stato di Israele. Tacendo invece su Palestina e Gaza.

Questa strategia politica se da un lato trasforma la responsabile dell´Olocausto nel baluardo contro l’antisemitismo contemporaneo, dall’altro giustifica iniziative xenofobe in casa, con il pretesto di disciplinare e mettere in riga immigrati e minoranze etniche in particolare arabe. Il pugno duro contro lo pseudo-antisemitismo di matrice islamica, ha regalato premi significativi al partito dell’Ultradestra tedesca AFD. Il quale, per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, ha appena vinto un’elezione regionale accaparrandosi il Land ex-DDR della Turingia e ottenuto ottimi risultati in un’altra regione dell’Est, la Sassonia.

E mentre la destra avanza, le istituzioni si chiudono a riccio in un’inedita repressione contro chi sostiene la Palestina. Con l’accusa di antisemitismo ad agosto scorso è stato revocato il contratto d’affitto a FRIDA un’associazione di aiuto alle donne con base a Berlino, dopo che una sua collaboratrice aveva pubblicato sul proprio account di Instagram la frase incriminata: From the river to the sea. E sempre per inseguire la ragion di stato, lo scorso aprile le istituzioni berlinesi hanno bloccato una tre giorni di congresso dedicati alla Palestina, impedendo l’ingresso in Germania ai moderatori Ghassan Abu-Sittah, chirurgo plastico britannico che con Medici senza Frontiere aveva operato all’ospedale di Al Shifa a Gaza e all’ex-Ministro delle finanze ed economista greco Yanis Varoufakis.

Poliziotti figli di immigrati

Torniamo a Berlino, a uno di questi maledetti sabati. Ci troviamo nel blocco delle famiglie palestinesi, oltre a noi qualche altra faccia europea. Tra gli agenti, molti hanno origini arabe. Una scelta strategica o forse dettata dal caso, visto che comunque il 37% degli agenti berlinesi hanno un Migration Hintergrund, cioè arrivano da famiglie immigrate di prima, seconda o terza generazione. In una metropoli che di per sé conta sette moschee, 91 centri di preghiera islamici e all’incirca 300mila musulmani.
Una donna anziana parla insistentemente con un poliziotto mediorientale. Sembra incalzarlo. Lui la guarda dritto negli occhi che sbucano da sotto al velo nero, come fanno i figli sbruffoni. Accanto un collega, figlio di immigrati pure lui, tiene gli occhi bassi, sembra quasi vergognarsi.

Parte una carica da destra – guanti, scudi, telecamere, la solita trafila – i manifestanti vanno in panico, ci si butta addosso l’uno sull’altro. Sembra una valanga. Un ragazzo si mette in salvo salendo sopra un cubo di cemento spartitraffico, un secondo gli va dietro ma gli si blocca la gamba, fa fatica. Il poliziotto allunga istintivamente una mano come per aiutarlo, ma dopo pochi secondi la ritira e continua a guardare nella folla con sguardo perso mentre quel ragazzo così simile a lui, cade ai suoi piedi. E Berlino aspetta, col fiato sospeso, che il senso di colpa, assorbito dalle istituzioni, sia smaltito, filtrato, rigenerato nelle case, nelle strade e negli uffici di una società che da generazioni è sempre più espressione del Sud del mondo.

Tutte le foto nell’articolo sono di Zaira Biagini

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