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MONDO
USA al bivio #12: lo scontro si fa più feroce
Una campagna elettorale con varie assurdità («gli immigrati che mangiano i cani») nasconde i problemi più grandi: la discesa in campo di Musk e altri miliardari, la corsa al controllo dello spazio e di internet, le ripercussioni su guerre presenti e future
La settimana passata è iniziata con il dibattito Harris-Trump e si è chiusa con un nuovo apparente tentativo di assassinare Trump. In mezzo c’è stato tempo per un florilegio di meme virali attorno all’ultima variante di strategico incitamento xenofobo e l’atteso endorsement di Taylor Swift che ha precipitato un botta e risposta concluso con un perentorio post di Trump: “Io odio Taylor Swift!”
Nell’insieme tuttavia, sul colore pop, prevale l’asprezza dei toni e la ferocia dello scontro che minaccia di dilaniare un paese che affronta plausibilmente l’ultima uscita dal trumpismo. La sensazione di pericolo e potenziale violenza che aleggia sulla campagna è stata tangibilmente amplificata dall’arresto dell’uomo scoperto armato di fucile automatico a fare apparentemente la posta nei cespugli del campo di golf cui si stava avvicinando Donald Trump. È ancora troppo presto per conoscere dettagli affidabili e moventi precisi, ma a Ryan Wesley Routh, l’aspirante attentatore, non sembrerebbe corrispondere un identikit di attentatore “ideologico”. Con il precedente sparatore, Thomas Matthew Crooks, a parte il nome da film western, sembrerebbe semmai condividere soprattutto quella sindrome squisitamente americana che affligge uomini con ossessioni ingigantite da una psiche labile, “radicalizzati” nella loro mente e armati fino ai denti. Routh – che negli ultimi 8 anni avrebbe votato per Trump, sostenuto Bernie Sanders e poi i reazionari Vivek Ramaswamy e Nikki Haley – era, nella fattispecie, attivo nel sottobosco del reclutamento di mercenari per “combattere il male” in Ucraina. Un sottobosco di complottismo e fanatismo eterodiretto, insomma, che l’ideologia MAGA (Make America Great Again) non fa certo molto per disinnescare.
Cinque giorni prima si era tenuto il primo, e probabilmente ultimo, dibattito fra Harris e Trump. Harris ha dominato il confronto con una tattica chiaramente preparata in anticipo e rivelatasi efficace oltre le più ottimistiche previsioni. Trump, che in precedenza aveva sempre messo in difficoltà gli avversari con uno stile amorfo, caratterizzato da aggressioni verbali, sprezzo, boutades e una valanga di dati fallaci tale da risultare difficile da contrastare in tempo reale, è stato tenuto sulla difensiva dalle frecciate strategiche che Harris ha indirizzato al suo (smisurato) amor proprio. La vice-presidente ha disinvoltamente inserito riferimenti alle deludenti dimensioni dei comizi di lui, lo scarso entusiasmo dei sostenitori, le imputazioni penali, lo scherno dei leader mondiali. Trump ha abboccato a ogni trappola, lanciandosi in furenti requisitorie ricorrendo, per controbattere, ai cavalli di battaglia dei suoi comizi, dalle esecuzioni di neonati alle scolaresche indottrinate in transgender). Soprattutto è tornato in virtualmente in ogni intervento alla narrazione della “carneficina americana” brevettata nel 2016 e della minaccia delle orde di clandestini.
La variante specifica passata alla storia del dibattito è quella famigerata degli animali da compagnia mangiati dagli immigrati haitiani, diverse migliaia dei quali attendono a Springfield (Ohio) l’esito delle loro pratiche di asilo. La bufala da un lato si rifà al repertorio denigratorio di regimi totalitari passati ed alle accuse più palesemente assurde impiegate per demonizzare minoranze espiatorie di turno. Dall’altro è diventata emblematica della “frattura epistemica” del populismo contemporaneo, involontariamente sintetizzata dal candidato vice-presidente JD Vance quando ha dichiarato, di fronte all’evidenza contraria, che «se dobbiamo inventare qualche fatto per sottolineare problemi che affliggono il popolo americano, lo faremo». La vicenda è diventata emblematica di come un Trump, che in queste elezioni si gioca una probabile ultima carta della sua carriera politica, stia ricorrendo alla versione più rabbiosa e spericolata, con conseguenze fin troppo prevedibili. L’escalation della bufala velenosa ha infatti provocato una pioggia di minacce e telefonate minatorie anonime che hanno obbligato alla chiusura di scuole e ospedali nella cittadina e provocato forte ansia fra i residenti haitiani mentre miliziani dei Proud Boys e del Ku Klux Klan hanno inscenato ronde dimostrative.
La normalizzazione e se possibile ulteriore degenerazione di una violenza retorica, con eco sinistri in un paese funestato da una lunga storia di pogrom, linciaggi e stragi razziali, conferma che per Trump la strada del successo passa per una psicosi, e una sindrome da accerchiamento, sufficientemente diffuse nella propria base. Infatti, negli ultimi giorni ha tentato di allargare la portata paranoica, specificamente a neri e ispanici, postando che «le orde di immigrati invitati da Kamala Harris toglieranno lavoro a neri e ispanici!». In questa spirale discendente ha ricoperto un ruolo sempre più visibile l’uomo che sembra essersi autoinvestito del ruolo di ministro della comunicazione della galassia MAGA. Nella settimana in cui i media hanno celebrato il successo orbitale della sua navicella Dragon, Elon Musk ha annunciato di aver speso oltre 30 milioni di dollari da metà agosto a favore della campagna Trump. I fondi, amministrati dall’associazione America PAC, rientrano nei «30 milioni al mese» che il magnate sudafricano aveva promesso di spendere per fare eleggere Trump. L’uomo capace di twittare, senza ombra di ironia, che «chiunque verrà colto a diffondere propaganda verrà rimosso da X», ha concentrato su Pennsylvania, Nevada, Michigan, Arizona, Wisconsin e Georgia il fuoco incrociato di volantini e post che ribadiscono le false accuse di brogli per mano di immigranti e una complottistica simile a quella amplificata dalla sua piattaforma, trasformata in megafono di odio full-time. Commentando il mancato attentato a Trump, Musk ha scritto: «Strano che nessuno stia cercando di assassinare Biden…».
Dopo aver motivato la scelta di scendere in campo («non mi sono mai materialmente occupato di politica, ma stavolta ne va della civiltà stessa come la conosciamo»), ha formalizzato l’endorsement di Trump e alzato il volume della disinformazione sul suo account, promosso a decine di milioni di utenti X. Stranieri importati per votare Harris, vasti brogli, collasso demografico della popolazione (bianca), innovazione strangolata da burocrazia e stato profondo…la distopia propagata dall’uomo più ricco del mondo è la versione tecno della fosca “carneficina” di Trump e solleva la lecita domanda sulle motivazioni sue e di quella fazione iperliberista ed “esoterica” di Silicon Valley, che quest’anno è scesa per la prima volta in campo con forza accanto al candidato nazional-populista. Musk ha accettato con senso di abnegazione («anche gratis e senza titolo») la nomina a “zar efficientista” della prossima ipotetica amministrazione Trump e ha aggiunto di sentirsi in dovere di dare il proprio contributo alla «libertà e meritocrazia». Una storpiatura, quella della dicitura usuale (“freedom and democracy”), che rivela uno dei filoni che accomunano le destre populiste sulle due sponde dell’Atlantico, nonché un paradosso per un movimento che in USA vede sempre più politicamente schierata a favore del presunto merito una classe di dinastico privilegio – l’altro miliardario ad avere preventivamente accettato per ora un incarico in un ancora immaginario governo Trump, è Robert Kennedy Jr., come ministro no-vax alla salute e al salutismo.
Lo schieramento di Musk ripropone in termini sempre più nitidi il tema di una plutocrazia militante che in queste elezioni americane è scesa in campo a fianco a Trump. Dietro a Musk, l’esponente più visibile, vi è una rete capillare di fondazioni e trust che veicolano un impressionante flusso di denaro al finanziamento di cause reazionarie. Dagli “sponsor” privati di togati conservatori sulla corte suprema, come Harlan Crowe e Paul Singer (attivisti conservatori e benefattori rispettivamente dei giudici Clarence Thomas e Samuel Alito), a facoltosi titolari di fondazioni come quella dei fratelli Koch, di Bradley Find (America First Legal) o di Leonard Leo (la Federalist Society che dirige e seleziona giudici conservatori per i tribunali federali e ha ricevuto una singola donazione di $1,6 miliardi da parte del miliardario integralista Barre Seid). È una lista molto parziale di un arcipelago che finanzia attivisti e think tank di ideologia vicina a Trump. Fra questi la Heritage Foundationche ha stilato il documento programmatico Project 2025 per una seconda amministrazione Trump, i provocatori di Project Veritas, i giovani ultraconservatori di Turning Point USA, le integraliste epuratrici di libri scolastici, Moms for Liberty, Hillsdale College e Prager University che stilano programmi scolastici “anti gender” e combattono la “critical race theory” nelle scuole. A questo contesto i giga-capitalisti della finanza digitale aggiungono una dimensione nuova, come ha sottolineato la prima missione orbitale privata tanto promossa dalla stampa mondiale. Per Musk, l’uomo che già aveva spedito in orbita solare una autovettura Tesla, si è trattato si un enorme spot promozionale per la definitiva privatizzazione delle missioni spaziali. Né potrebbe esservi concept migliore per questo modello che la SpaceX che, specie con la figuraccia appena rimediata dalla concorrente Boeing, si avvia ad avere di fatto il monopolio sui contratti NASA per le future missioni vero al Luna e Marte.
Elon Musk al lancio dello SpaceX Falcon Heavy Flight 1. Foto di Daniel Oberhaus (2018), da Flickr.
Ma non solo. La consociata Starlink ha attualmente in orbita 6376 satelliti che rimbalzano segnale internet a utenti in tutto il mondo. I lanci di razzi Falcon targati Musk dovrebbero portare la “costellazione” a un totale di 30000 satelliti privati in orbita attorno alla Terra. Una gabbia che cinge il pianeta e di cui un solo uomo ha la chiave. Né sembra che quella di Musk sia destinata a restare l’unica “costellazione” artificiale nel cielo. Già autorizzato e in fase di produzione è un analogo sistema di Amazon (Kuiper system) che si avvarrà di lanci Ariane, Lockheed e Boeing. Solo l’azienda di Musk, una volta a pieno regime, dovrebbe raggiungere il rimo di mille lanci all’anno. La prossima inevitabile fase – le applicazioni militari – è già partita con l’altra consociata, Starshield, in grado di offrire in leasing a “clienti alleati,” le applicazioni offensive e difensive della “costellazione Musk”. La privatizzazione dello spazio è emblematica di un modello che per il capitalismo delle piattaforme è da tempo realtà. Ai colossi di Silicon Valley è di fatto stata lasciata facoltà pressoché completa di scrivere le proprie regole ed evadere ogni norma o regolamento. Oggi l’oligopolio digitale incarna una versione monopolistica che sarebbe stata impensabile per industrie precorritrici come il giornalismo e la televisione (soggette, ad esempio, a regole ben più severe di licenza e proprietà). Agli imprenditori di internet è stato invece permesso di emergere come oligarchia transnazionale che si muove come soggetto geopoliticamente indipendente e sovrastatale, fautore di una propria politica (come i contratti militari di Starlink in Ucraina e a Gaza) e occasionali scontri diplomatici (la rara “sconfitta” di X in Brasile). Le prospettive di potenziali conflitti di interesse di un futuro ministro Musk sono facilmente immaginabili.
Non ha torto, quindi, Robert Reich quando parla di una seconda “gilded age” evocando gli ultimi trent’anni dell’Ottocento che videro negli Stati Uniti il consolidarsi di mastodontici monopoli industriali (ferrovie, acciaio, telefono, elettricità) e la conseguente ascesa di una classe di super capitalisti con la conseguente crescita di una disuguaglianza destabilizzante. Reich, economista progressista di Berkeley e già ministro del commercio di Clinton, sostiene che i nuovi “Grandi Gatsby” del silicone debbano essere soggetti alla stessa azione antitrust che si rese necessaria allora per frenare il potere smisurato dei “Robber Barons”. La regolamentazione venne avviata allora da Teddy Roosevelt e completata tre decenni più tardi dal lontano cugino Franklin Delano, con una decisa azione federale contro i monopoli, il riequilibrio fiscale e l’introduzione di ammortizzatori sociali che durarono fino al reaganismo. Forse non del tutto casualmente “l’entrata in politica” dei magnati del silicone è coincisa con le prima avvisaglie di una più vigorosa azione regolatoria da parte dell’amministrazione Biden-Harris, comprese le prime vere cause antitrust contro giganti quali Google, Amazon e Apple intentate dalla presidente della Federal Trade Commission, Lina Khan (la cui tesi di laurea era dedicata al monopolio di Amazon) e l’ugualmente agguerrito assistente ministro di giustizia Jonathan Kanter. Non è forse sorprendente, allora, che alcuni “silicon barons” stiano puntando sul candidato più propenso a rinnovare loro un assegno in bianco. E perfino nominarne alcuni nel proprio governo.
Foto di copertina di David Wilson, Springfield (Ohio), febbraio 2022, da Flickr
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