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Short Theatre #1. Dispositivi per governare il caos
Due proposte del festival molto diverse fra loro a livello formale, “Se respira en el jardín como en un bosque” e “Bless This Mess”, ma che in una certa misura interrogano i rapporti fra caso e creatività, fra immaginazione progettuale e contingenza nella costruzione del gesto teatrale
Da una stretta fessura della quinta posizionata sul palco del teatro Cometa Off di Testaccio si scorge l’unico spettatore in sala. Ma “spettatore” non è il termine giusto: sarebbe forse meglio parlare di “spettatore-attore”, o ancora meglio di persona partecipante a un dispositivo scenico, quale d’altronde siamo noi che da dietro la quinta lo scorgiamo, seduto anch’egli con i suoi auricolari. Sulla scia di una tradizione ormai consolidata che passa per nomi come Roger Bernat o Rimini Protokoll, la performance Se respira en el jardín como en un bosque del duo catalano El Conde de Torrefiel (cui il festival Short Theatre dedica una retrospettiva) è appunto un meccanismo astratto, una serie di istruzioni che vengono dettate alla persona che decide di lasciarsi guidare dalle parole dei registi e che dunque crea lo spettacolo con le proprie azioni e con la propria corporeità.
Lo schema è molto semplice: allo spettatore viene chiesto di scostare la tenda dietro le quinte e di fare il proprio ingresso sul palco, provando a interpretare il ruolo di attore di un’ipotetica pièce.
Intanto, nel vuoto della sala, solo una poltroncina è occupata da un’altra persona, che assiste a quanto accade sul palco ma da una “distanza straniante”: anche lei è infatti guidata nella sua visione dai registi che le parlano attraverso gli auricolari e, banalmente, si tratta dello spettatore che prima ha eseguito le istruzioni sul palco e che ora si è seduto per assistere alla performance di chi è venuto dopo – in una sorta di struttura ad anello. C’è una complicità dimezzata: in due nello stesso ambiente – protagonisti dello stesso evento che si sviluppa grazie a noi ma al contempo al di fuori della nostra volontà – eppure protetti l’uno dall’altro dalla “membrana uditiva” che ci connette invece al Conde, deus ex machina invisibile del tutto.
Il dispositivo ideato dal duo catalano è allora un gioco da un lato in tutto e per tutto immersivo, per la modalità diretta con cui cala lo spettatore dentro alla scena, ma dall’altro lato anche straniante, nell’impossibilità di stabilire una vera relazione con la persona che condivide lo stesso percorso con noi. In cuffia si mischiano istruzioni, annotazioni di colore, riflessioni sulla natura del teatro e invito a ragionare su come l’immaginazione sia innanzitutto una facoltà progettuale dell’umano – che anticipa e quindi modella la realtà circostante (la performance si chiude infatti al di fuori del teatro, con la voce che ci spinge a osservare le costruzioni di piazza Testaccio e a pensare come prima che nella loro concretezza siano esistite nella mente di qualcuno).
El Conde ci pone nel cuore stesso del meccanismo teatrale – in quel rapporto mai risolto fra attore e spettatore – facendoci però costantemente camminare su una superficie invisibile, sulla linea impalpabile della quarta parete che ci separa dall’altra persona nella stanza così come dal gesto recitativo che pur siamo chiamati a incarnare, in un congegno narrativo sottile ma serrato.
Sullo sfondo rimane l’interrogativo su quale ruolo giochino il caso e la contingenza, nello specifico della performance, nella relazione teatrale tutta e infine nella realtà dello spazio esterno di un quartiere capitolino – immagine plastica della progettualità umana, ma anche apertura e mediazione verso l’inatteso, l’imprevedibile e, forse, l’irrappresentabile.
(foto di Hélène Robert)
Di una forma totalmente diversa, sono alcune delle domande che si agitano anche nella travolgente performance Bless This Mess della coreografa greca e residente a Parigi Katerina Andreou (già vista a Short Theater nella passata edizione con Mourn Baby Mourn). L’inizio dello spettacolo si materializza come l’accensione improvvisa di un interruttore: da zero a cento in meno di un secondo, una musica vorticosa e incalzante ad alto volume invade la sala e quattro giovani danzatori (la stessa Katerina Andreou, Lily Brieu Nguyen, Baptiste Cazaux, Mélissa Guex) ne seguono il ritmo con gesti veloci e guizzanti, a tratti furenti. Il palco è una sorta di “spazio concettuale” in cui la scenografia possiede dei tratti di concretezza naturalistica che rimane però solo accennata: solo quattro lunghi tavoli, o meglio delle assi modulari, alcuni microfoni ambientali calati dall’alto e dei fari. L’illuminazione è tagliente e virata sull’arancione, con un retrogusto quasi industrial, ci invita a osservare come si osserva un rito sotterraneo e clandestino – forse una festa, che si svolge però all’insegna di un’estenuante frenesia come dentro uno stato di trance.
C’è, in realtà, una dialettica sottesa e destinata a evolversi nel corso dello spettacolo. Katerina Andreou costruisce un impianto scenico di fatto minimale ma estremamente minuzioso, in cui ogni elemento al di fuori del corpo dei performer è teso a costituire un disegno stabile, un griglia coreografica dettagliata e suo modo anche rigida, dentro la quale però permangono diverse maglie di libertà e di improvvisazione.
È dentro tali maglie che si sviluppano quindi i movimenti, che proseguono per ripetizioni ossessive ma fluide. Ciascun danzatore, soprattutto all’inizio, pare ingabbiato nella propria singolarità, sebbene l’intenzione del gesto sia molto simile per tutti. Ma è l’interpretazione, appunto, strettamente individuale, che piano piano espande la visione e il senso della performance verso una dimensione frattalica, iperbolicamente stratificata, a tratti lisergica. Lo spettatore è come sfidato nell’impossibilità di trovare un focus, una stabilità del proprio sguardo, che ora si sofferma sul quadro d’insieme perdendo però di vista le azioni, ora segue magari i singoli performer che però non si vogliono fare personaggi, oppure ancora si spinge a immedesimarsi nel ritmo sonoro, traducendo la propria partecipazione allo spettacolo in un trasporto che coinvolge solo i “sensi secondari” (e, in qualche modo, anche in ossequio al programma del festival, che dedica infatti particolare attenzione all’udito).
Bless This Mess potrebbe allora sembrare uno svolgimento quasi letterale del titolo, una celebrazione del caos, un benedetto casino sotto forma di performance.
Ma la coreografia di Katerina Andreou complica e arricchisce irrimediabilmente i termini e agisce come un potente modulatore di frequenza che ci permette di attraversare uno spettro pressoché infinito di accezioni possibili di ciò che intendiamo, appunto, per celebrazione da una parte e caos dall’altra. I danzatori disegnano intrecci di sintonia e distonia, a volte creano elaborate figure di gruppo e altre volte si lanciano in eccentrici assoli, sembrano ora internati in un manicomio, ora folletti demoniaci che saltellano qua e là, erinni, spettatori sfegatati a un concerto, psiconauti sotto l’effetto di stupefacenti. Similmente, complici anche le calcolate variazioni nel tappeto sonoro e nell’illuminazione della scena, l’atmosfera dello spettacolo si tramuta in continuazione da club underground a sabba, da esplosione orgiastica a esibizione virtuosistica, fino a rassomigliare per qualche fugace bagliore addirittura a un’estasi contemplativa. Nessun “dispositivo”, dunque, ma un (auto-)sabotaggio continuo, un insistito rimescolamento di energia nera e magmatica talvolta screziata da lampi di collerica grazia.
Immagine di copertina di Lorenza Daverio