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MONDO
Sharifeh Mohammadi: la corda al collo delle attiviste sindacali
Riceviamo e pubblichiamo un articolo di approfondimento su Sharifeh Mohammadi, attivista sindacale detenuta da sei mesi nelle carceri iraniane e condannata a morte per la sua attività politica e sindacale. Dar voce ad attiviste che si oppongono alla Repubblica Islamica e creare connessioni internazionali è uno strumento di sostegno attivo che ci impegniamo a fornire
In Iran continua la repressione contro attivisti e attiviste sindacali e ogni tentativo di organizzazione della forza lavoro. Sharifeh Mohammadi, una di queste attiviste, è stata arrestata circa sei mesi fa nella città di Rasht, nel nord dell’Iran e dopo pochi giorni è stata trasferita nella prigione della città di Sanandaj, in Kurdistan. Le testimonianze dei prigionieri presenti nelle altre celle ci raccontano di ripetuti pestaggi e torture ai suoi danni, per mano degli agenti governativi, durante gli interrogatori.
Sharifeh Mohammadi è stata poi nuovamente trasferita nella prigione di Rasht e durante quel periodo ha sviluppato un’infezione alla gamba, senza poter ricorrere a interventi chirurgici e cure per molto tempo. Un giorno prima delle elezioni presidenziali dello scorso 5 luglio è arrivata la notizia della sua condanna a morte dal Tribunale rivoluzionario di Rasht. Il giudice ha emesso la sentenza con l’accusa di “Baghi” , cioè “ribellione armata contro il regime”.
Vida Mohammadi (cugina di Sharifeh Mohammadi) ha annunciato in un’intervista al sito in lingua farsi “Radio Farda” che Sharifeh era membro, fino a 10 anni fa, del “Comitato di coordinamento e supporto alle organizzazioni dei lavoratori”, un’organizzazione indipendente e legale di cui ora però non fa più parte.
Ma qual è il significato dell’accusa di “Baghi”, cui sono andati incontro anche diversi detenuti della rivolta di Jina Mahsa Amini e delle rivolte precedenti? Nelle leggi iraniane, compreso il Codice penale islamico, il “Baghi” commette reato contro la pubblica sicurezza, punibile con la morte. Un esempio lampante di come la logica della repressione presente fin dell’instaurazione del regime sia diventata legge e sistema punitivo.
Secondo l’articolo 287 del Codice penale islamico, un “Baghi” è qualcuno che combatte e intraprende un’azione armata contro i principi fondamentali della Repubblica islamica. Secondo l’articolo in questione, la punizione per il “Baghi” è la morte solo se si ribella contro questi principi fondamentali, utilizzando armi da fuoco a tale scopo. Di conseguenza, secondo l’articolo 288 della stessa legge, se un “Baghi” viene arrestato prima dello scontro armato e dell’uso delle armi non potrà essere condannato a morte. È chiaro quindi quanto sia infondata questa accusa contro Sharifeh Mohammadi, anche secondo le stesse leggi religiose iraniane. Naturalmente, per giustificare questo verdetto, hanno additato Sharifeh Mohammadi come membro dell’organizzazione Komeleh, considerata di per sé “Baghi” dalla Repubblica Islamica.
In un’altra parte del testo di legge si definiscono questi principi fondamentali: «Quali sono i principi fondamentali del sistema? Non è una questione complicata.
La forma repubblicana, l’islamismo e l’unità dell’Iran sono le basi del sistema della Repubblica islamica dell’Iran, quindi coloro che si oppongono alla Repubblica, come i monarchici, e coloro che si oppongono all’islamismo, come i comunisti, e coloro che sono contrari all’integrità territoriale del Paese, come i separatisti, hanno preso di mira le basi del sistema e sono considerati “Baghi”».
Le autorità hanno affermato che esiste un collegamento diretto tra il “Comitato di coordinamento” (un’organizzazione del tutto legale di cui Sharifeh faceva parte dieci anni fa) e l’organizzazione Komeleh, e in questo modo hanno considerato Sharifeh Mohammadi appartenente, di fatto, a questa organizzazione.
Va detto che anche suo marito è stato arrestato una volta per aver indagato sulle condizioni della moglie. Dopo l’emissione di questa sentenza c’è stata un’ondata di proteste e molti prigionieri politici hanno rilasciato dichiarazioni di condanna per l’arresto. La coincidenza di queste sentenze con le elezioni e la propaganda della fazione riformista mostra che forse il popolo e i governi cambieranno, ma la repressione e gli omicidi nel governo della Repubblica islamica dell’Iran rimarranno all’ordine del giorno.
Storia della repressione nella Repubblica islamica dell’Iran
In Iran qualsiasi tentativo di costruire un’organizzazione sindacale e di organizzare un movimento operaio è un crimine. La Repubblica Islamica è un governo anti-operaio, che ha intrapreso una guerra diretta contro i lavoratori per più di quattro decenni e le leggi islamiche sono uno strumento politico per abbassare il prezzo del lavoro e sopprimere la vita delle classi subalterne.
Fin dalla sua fondazione, la Repubblica Islamica è stata una vera e propria macchina da guerra contro coloro che sollevavano anche la minima obiezione al governo. L’apparato militare della Repubblica islamica non ha avuto remore a reprimere i manifestanti e i ribelli del Kurdistan, nonché i turkmeni, e ha dichiarato loro ufficialmente guerra. Ha bombardato quelle aree, ferendone o uccidendone un gran numero. In un certo senso, la Repubblica islamica sta conducendo una guerra su vasta scala in aree come il Kurdistan. Nel suo sistema giudiziario, che si basa sullo sciismo, la logica della militarizzazione e della guerra contro il popolo che protesta è stata tradotta nel linguaggio della legge e della punizione fin dall’inizio della sua istituzione.
Un altro esempio sono le cinquemila persone, tra cui comunisti e appartenenti a varie organizzazioni della sinistra, giustiziate con un verdetto generale dopo un processo sommario nell’estate del 1988 e sepolte chissà dove. Esistono molti esempi simili, uno dei più famosi è stata l’esecuzione di massa di diversi prigionieri politici curdi alla fine del 2000. Dopo decenni di repressione, che ha provocato migliaia di morti e lasciato un segno terribile e indelebile nella storia dell’Iran, la capacità politica e organizzativa è in completo declino. Ora c’è uno spazio adeguato affinché la Repubblica islamica possa espandere il proprio governo e dominare l’intera popolazione.
Nonostante i massicci massacri degli anni Sessanta il Kurdistan è però l’unica regione in cui il governo non è riuscito a sopprimere completamente l’organizzazione dell’opposizione al regime.
È per questo motivo che la Repubblica Islamica reprime in modo particolarmente duro e brutale i rapporti con e tra gli attivisti curdi, tanto da organizzare rapimenti attraverso i propri agenti, senza comunicare i nomi degli arrestati o la loro ubicazione, perquisizioni nelle case dei familiari e quant’altro. Anche nelle carceri il trattamento riservato agli attivisti curdi è particolarmente brutale e disumano, fatto di pestaggi e torture. In un certo senso, l’obiettivo della Repubblica Islamica è renderli inefficaci per un po’.
Varisha Moradi ad esempio, un’attivista curda, ha contro di sé il crudele verdetto di “Baghi”, così come Zainab Jalalian e Sharifeh Mohammadi,. Farzad Kamangar, Ali Heydarian, Farhad Vakili, Shirin Alamholi e Mehdi Islamian sono stati condannati a morte e giustiziati a causa della loro collaborazione con il partito Pjak (Partito della Vita Libera in Kurdistan, un partito gemello del PKK che conduce la lotta armata contro la Repubblica Islamica dell’Iran). L’obiettivo delle esecuzioni della Repubblica islamica è reprimere il dilagare delle lotte e mettere a tacere le voci che chiedono libertà e uguaglianza.
Un attivista iraniano avrebbe affermato di aver visto per la prima volta lo slogan “Jin, Jian, Azadi” sopra il letto di Shirin Alamholi, circa 18 anni fa nella prigione di Rajaeeshahr. Per questo la Repubblica Islamica vuole reprimere le lotte colpendo attiviste come Sharifeh Mohammadi, per impedire la diffusione di idee e forme organizzative di opposizione al regime.
Zainab Jalalian è un altro esempio: condannata a morte dai tribunali islamici in quanto “Baghi”, la sua condanna è stata poi trasformata in ergastolo, grazie alle diffuse reazioni contro questo verdetto. Ora Zainab è rinchiusa in una cella in qualche carcere remoto dell’Iran, da diciassette anni, lottando contro condizioni di detenzione disumane e malattie.
La Repubblica islamica ha stabilito leggi basate sullo sciismo, utilizzandole per mantenere forte il suo sistema nel modo più brutale possibile. Per questo motivo applica le sue regole teologiche di fronte a qualsiasi tipo di organizzazione esistente, a qualsiasi tipo di protesta. Per questo motivo, negli ultimi quarant’anni, abbiamo perso molti attivisti politici.
Repressione e saccheggio economico
La Repubblica Islamica ha sempre soppresso ogni organizzazione sindacale indipendente e allo stesso tempo ha cercato di presentare le sue organizzazioni governative come istituzioni sindacali. Sono i rappresentanti delle stesse istituzioni governative che, ad esempio, partecipano al vertice dell’Organizzazione mondiale del lavoro, mentre molti attivisti sindacali vengono condannati al carcere e alla fustigazione e licenziati dal lavoro. La mancanza di un’organizzazione sindacale indipendente come deterrente contro gli attacchi del governo iraniano è il problema fondamentale della classe operaia iraniana. Tutti i governi, sia della fazione riformista che di quella conservatrice, non solo sono uniti nel reprimere il movimento operaio, ma anche particolarmente solerti nell’applicare le più severe politiche di austerità neoliberali in Iran.
L’Iran è un laboratorio per l’attuazione di politiche neoliberali autoritarie. La repressione diretta e il militarismo vi vengono applicati in assenza di welfare state e servizi sociali. Le sanzioni imposte dall’Occidente hanno solo contribuito a intensificare le politiche di stampo neoliberista e le classi subalterne ne stanno pagando il prezzo.
Ora il 96% dei contratti di lavoro sono a termine, le leggi sul lavoro sono sospese, l’inflazione è a doppia cifra da decenni, milioni di lavoratori sono scesi al di sotto della soglia di povertà e sono orfani di un’organizzazione sindacale indipendente e del diritto di sciopero.
Tuttavia le lotte sindacali non si fermano: operai, infermieri, insegnanti e pensionati organizzano quotidianamente manifestazioni di protesta.
La gravità della repressione del governo contro il movimento degli insegnanti, il loro licenziamento e l’incarcerazione, è stata tale che il Ministero dell’Istruzione si trova ora ad affrontare una carenza di personale. L’emissione dell’atroce condanna a morte di Sharifeh Mohammadi non sarà né la prima né l’ultima ed è solo la parte più brutale del processo di riorganizzazione capitalista seguito dal governo della Repubblica Islamica. La lotte di classe, il coraggio e l’audacia degli attivisti sindacali iraniani richiederebbero l’apporto di un’organizzazione internazionale e la solidarietà da parte delle forze progressiste della sinistra in tutto il mondo.
Insieme a Sharifeh Mohammadi ci sono molte altre persone che rischiano l’esecuzione a causa dell’accusa di “Baghi” e dobbiamo lavorare con forza per la loro liberazione. Siamo convinti che la repressione e le condanne non potranno salvare i principi della Repubblica Islamica ancora a lungo.
Come recitava uno slogan scandito durante la rivolta di Jina Mahsa Amini: «Per ogni bocca che chiudono, un’altra bocca canta la nostra canzone».
La resistenza a questo fondamentalismo capitalista e religioso continuerà con sempre maggior forza.
Immagine di copertina: WikiCommons
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