approfondimenti

Going_to_Work_-_L_S_Lowry

ITALIA

La salute mentale italiana fra decentramento e partecipazione

Le forme di partecipazione dell’utenza, diversamente dal periodo successivo alla riforma psichiatrica, in cui si sperimentavano come forme di riappropriazione di alcuni diritti fondamentali, rischiano oggi di alimentare una certa deriva individualistica della società neoliberale

Decentrare, includere, partecipare: spoliticizzare la partecipazione

Nelle società capitalistiche avanzate il superamento del manicomio e la conseguente organizzazione dei servizi territoriali hanno comportato la necessità di elaborare nuovi strumenti conoscitivi e operativi in grado di adattare le pratiche di prevenzione, cura e riabilitazione al rinnovato assetto sociale in cui la questione democratica si andava approfondendo attraverso richiami alla dimensione “di base”. Ciò si è tradotto nel tentativo di declinare nel contesto comunitario temi precedentemente di pertinenza medica e giuridica, cioè settoriali, allo scopo di arricchire la vita sociale e di tradurre la questione psichiatrica nei termini di una politica territoriale generale in grado di rispondere adeguatamente ai bisogni dei cittadini e ai problemi di salute della collettività1.

Sottrarre il malato alla gestione istituzionale tradizionale, ha significato fare i conti con una nuova gestione del territorio coagulando in esso tutte quelle domande e quei problemi di natura teorica e pratica che il nuovo contesto culturale, politico e sociale imponeva. Da qui la necessità di comprendere quale politica territoriale fosse opportuna e per quale salute mentale, in un momento storico caratterizzato da grandi cambiamenti politici e sociali sfociati in una delle riforme più importanti del nostro paese, la legge 180, confluita poi nella legge di riforma sanitaria n. 833/78. Ma una politica del territorio si è sempre fondata a partire da condizioni storico sociali determinate e come Foucault ci ha mostrato2, attraverso forme di governamentalità del dominio che mutano al mutare delle società nei loro rapporti di produzione e riproduzione sociale. Nella società italiana dei primi anni Ottanta la politica territoriale si è caratterizzata come momento centrale della crisi dello stato sociale, attraverso la prefigurazione di due forme di gestione della cosa pubblica: il decentramento e la partecipazione.

Decentramento inteso come lento e graduale trasferimento di dispositivi legislativi e di competenze a corpi sempre più periferici e circoscritti dell’apparato statale, attraverso le deleghe agli enti locali e alle regioni di aspetti decisionali, amministrativi e deliberativi prima di competenza esclusiva dello stato. Questo decentramento ha trovato poi forma compiuta nei primi anni del Duemila con la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha sancito di fatto la piena autonomia amministrativa, finanziaria e legislativa delle Regioni anche in materia sanitaria3.

In merito alla questione psichiatrica tale decentramento ha significato una non omogenea distribuzione regionale del fondo nazionale destinato alla salute mentale4 ma soprattutto una trasformazione del welfare nei termini di un diverso rapporto tra pubblico e privato nella gestione dei servizi pubblici territoriali. Ampi settori del servizio pubblico sono stati appaltati al Terzo Settore e al privato imprenditoriale aprendo di fatto un nuovo mercato nell’ambito della riabilitazione psichiatrica post manicomiale.

Tuttavia questa politica territoriale si è mossa prevalentemente in un contesto burocratico-istituzionale immutato attraverso la sua razionalizzazione in termini amministrativi e una sostanziale conferma dell’assetto sociale esistente, rinunciando a una riforma sostanziale dei suoi apparati istituzionali e dei suoi presupposti ideologici. Sul fronte della partecipazione sociale al problema psichiatrico nelle prime formulazioni sperimentali del servizio territoriale, è bene ricordare le parole di Carlo Manuali5 che appaiono oggi di un’attualità sconcertante:

«Altrettanto limitati, se non equivoci, appaiono i tentativi di democrazia diretta o assembleare, non tanto per il carattere occasionale, amorfo o rituale che di volta in volta possono assumere, quanto perché tali forme di partecipazione si autodefiniscono e autogiustificano come espressione, registrazione “fedele”, e noi aggiungiamo passiva, di bisogni e aspettative che si manifestano, al di là delle forme pubbliche in cui appaiono, come dimensione privata e individuale, conferendo spazio e voce a quei bisogni, cui non sarebbe altrimenti possibile dare risposte adeguate e contrattualità effettiva. Inserito in questa prospettiva, il lavoro politico e specialistico nel territorio incorre così nel grave rischio di tradursi in un’operazione di disseppellimento, volta a far emergere, aldilà delle istituzioni, una ipotetica autenticità dell’individuo nell’interezza dei suoi bisogni. Ma dovrebbe ormai essere scontato che la soggettività del bisogno e le forme psicologiche anche urgenti e sofferte in cui si esprime non costituiscono una dimensione originaria della realtà umana. La coscienza individuale che li riflette non emerge da strutture di ordine biologico, fisiologico o psicologico – sebbene in esse si traduca e manifesti – ma sempre dai rapporti di produzione, i soli che ne assicurano la comprensione e l’intelligenza».6

Letta in questa prospettiva, l’analisi di Manuali sulle prime forme di partecipazione e di lavoro nei nascenti servizi territoriali ci porta inevitabilmente alla prefigurazione di uno scenario che ha caratterizzato fortemente la storia di questi ultimi quarant’anni di salute mentale italiana. Uno scenario in cui la partecipazione si è progressivamente declinata come forma sempre più diminuita, privatizzata e individualizzata di esigibilità di diritti fondamentali7 attraverso l’assimilazione di un nuovo strumento concettuale e di governo delle politiche pubbliche inerente alla salute mentale globale: la recovery anglosassone8.

L’assetto della recovery nelle varie formulazioni istituzionali, il suo potere ricostituente la soggettività dal lato delle “illness narratives”, delle “abilities”, delle “skills” e delle performance individuali a scapito di una coscientizzazione collettiva9 dei rischi che questa “individualizzazione del bisogno” non si esprima mai come rivendicazione politica di diritti sociali, sembrano confermare alcune considerazioni dello stesso Manuali:

«In realtà la coscienza individuale che si vorrebbe disseppellire e recuperare al di là delle istituzioni e delle ideologie e che costituisce la parte sociale più elementare attraverso cui la società si esprime concretamente ed empiricamente, è l’unità minima mediante la quale la struttura sociale si riproduce eguale a sé stessa. Alla riproduzione sociale sono propri due livelli tra loro isomorfi, legati strutturalmente da una profonda relazione funzionale che è necessario e possibile occultare e disconoscere. Nel primo livello gli individui sono oggettivamente diversificati dai modi materiali di produzione; nel secondo essi vengono riunificati e omologati come portatori di bisogni e fruitori di beni. La necessità di recuperare, sul piano delle coscienze individuali, il consenso come domanda generalizzata (anche quando violentemente rivendicativa e conflittuale) nei confronti di un sistema istituzionale e di un patrimonio materiale e culturale di cui si disconoscono le dinamiche di formazione, tende a promuovere uno slittamento continuo non solo della consapevolezza individuale, ma anche di analisi e pratiche scientifiche e politiche verso quelle aree nelle quali la soggettività sembra trovare maggiore autonomia, autenticità e verità.

La relazione funzionale che lega i due livelli della riproduzione sociale si traduce anche nella individuazione di una spazialità e temporalità ad ognuno proprie e specifiche. Da un lato, la produzione con gli individui associati, e quindi la loro obiettiva appartenenza alla storia e alla politica. Dall’altro, gli individui atomizzati e privatizzati, incalzati dal bisogno, gratificati dal consumo e condannati alla pura biografia».10

È piuttosto sorprendente constatare che oggi una delle leve più importanti su cui si muove la partecipazione dell’utenza psichiatrica attraverso il movimento della recovery sia il diritto ad avere voce sulla propria storia individuale, a raccontarla e renderla pubblica. Narrare la propria storia di malattia rientra nei diritti fondamentali indicati nel processo di ripresa (recovery), insieme al miglioramento della propria qualità di vita e al potenziamento delle condizioni psicologiche e materiali che ne limitano la realizzazione. Ma il livello politico della produzione degli individui associati, che si declina nelle varie forme di associazionismo e cooperazione sociale, sembra non essere intaccato da questi “diritti diminuiti” che rimangono appunto individualizzati, de-collettivizzati, in sostanza spoliticizzati, condannando le singole soggettività ad un’eterna narrazione biografica. Una socialità asociale come la definiva Robert Castel, riferendosi alle nuove forme di relazionalità della società contemporanea sequestrate dal sapere psicologico11. Piuttosto l’esito paradossale delle nuove forme di produzione dell’associazionismo dell’utenza sembra essere oggi quello corporativo della professionalizzazione del sapere esperto12, avvalorando la tesi di Manuali di un corpo sociale separato e neutralizzato dal sistema di governo che lo gestisce:

«L’enfatizzazione e la contrazione della problematica e della consapevolezza individuale e collettiva, scientifica e politica verso l’area del bisogno, del consumo, della distribuzione della ricchezza sociale tende inevitabilmente, se non ad elidere, almeno a ridurre e minimizzare la capacità di comprensione pratica e conoscitiva sul piano della produzione materiale. Il patrimonio sociale, che pure ciascuno di noi continuamente produce, viene immediatamente reso astrattamente neutro ed estraneo, tanto che nei suoi confronti non sarebbe possibile se non una richiesta di fruizione, che si traduce in una questione di equità sociale da un lato e di capacità contrattuale dall’altro. […] Si è così finito se non con l’ignorare, col non valutare adeguatamente i modi in cui il sistema sociale assicura la propria conservazione, riproducendosi, legittimandosi, promuovendo ed acquisendo il consenso delle forme sociali che lo compongono».13

Questa consapevolezza sulla capacità del sistema sociale di legittimarsi e conservarsi attraverso la promozione di un consenso sulle forme apparentemente partecipative e inclusive che esso produce, rilancia la questione fondamentale del cambiamento della composizione sociale, delle sue fratture, delle sue ricomposizioni, degli attori e delle preferenze che oggi veicola in rapporto alle istituzioni e ai servizi. Una composizione che negli ultimi quarant’anni ha visto un profondo rimescolamento dei ceti sociali, delle etnie, dei rapporti di classe, costituendo un’area sociale piuttosto ampia ed eterogenea. Un cambiamento caratterizzato da una frattura sempre più profonda tra i settori più ricchi e garantiti della società e le fasce sociali più deboli e marginalizzate e che oggi comprendono ampi settori del ceto medio impoverito. In questo senso quella di Manuali appare più che una premonizione:

«La crescente spoliticizzazione che investe i soggetti sociali più deboli ed esposti rimane, a nostro avviso, una delle principali fonti dell’attuale disagio. All’obiettiva discriminazione sociale indotta dal modello di sviluppo economico prevalente e alle tensioni che ne derivano si è creduto di ovviare in parte, aprendo il dibattito e la vita politica alle istanze più diverse. In realtà, date le presenti dinamiche sociali, i temi della partecipazione e del confronto sono poi monopolizzati dai settori sociali maggiormente privilegiati, restando, comunque, l’equivoco di una concezione del pluralismo intesa secondo il modello dei vasi comunicanti o come una sorta di somma algebrica di interessi diversi. La ricomposizione e il superamento delle discriminazioni sociali, almeno per i problemi che presentano caratteri di comune urgenza, da criterio di realismo politico è così divenuto criterio di verità. […] Può a prima vista sembrare singolare che nel momento in cui in modo tanto diffuso si fa appello all’esigenza di una concezione pluralistica della società, alla necessità di superare il disagio e di contenere le spinte centrifughe, al bisogno di rispondere adeguatamente alla domanda sociale, nella realtà delle cose, poi, la vita politica sia così appiattita, il disordine sociale così incontenibile, lo stato assistenziale tanto compromesso. La contraddizione ci sembra tuttavia solo apparente. L’organizzazione della società a capitalismo maturo sta in realtà adeguando le proprie dinamiche al livello di sviluppo raggiunto dalle proprie strutture economiche e produttive, promuovendo e favorendo processi anche inversi a quelli su cui si è strutturato il primo capitalismo».14

In attesa di avere maggiori contributi e pubblicazioni inerenti all’osservazione di alcune varianti istituzionali e territoriali di questa nuova forma governamentale di gestione della salute mentale italiana quasi del tutto assenti negli ultimi quarant’anni15, rimane elusa una questione che le fa da sfondo e che riguarda principalmente ciò che abbiamo definito per anni con i termini buone pratiche e buon servizio. Proverò a dimostrare che una certa retorica apologetica sulle pratiche e i servizi ha finito più per occultarne le contraddizioni che contribuire a dare un quadro realistico della situazione dei servizi territoriali a livello nazionale, impedendo di fare una vera epidemiologia critica delle istituzioni e dei modelli di riferimento del sapere psichiatrico e della salute mentale contemporanea.

Retoriche dell’intransigenza: sull’impermanenza delle buone pratiche e del buon servizio

Esiste da tempo una contraddizione terminologica quando si parla di salute mentale: quello di fare riferimento alle buone pratiche e/o al buon servizio. È piuttosto curioso il fatto che ogni volta che si evocano le buone pratiche lo si faccia per sottrazione riferendosi allo scarto e alla differenza rispetto a cattive pratiche che nella maggioranza dei casi hanno nel manicomio o nei meccanismi di gestione dell’internamento asilare il loro riferimento più drammatico ed esplicito. Ma la violenza psichiatrica oggi si riproduce in modo molto più differenziato e sfaccettato nei nuovi contesti istituzionali e non è più meramente sovrapponibile ai vecchi dispositivi di gestione della malattia propri dell’ospedale psichiatrico. Le forme governamentali della salute pubblica e in particolare quelle della salute mentale, come abbiamo visto, sono molto cambiate negli ultimi quarant’anni16. Parlare oggi di buone pratiche in salute mentale rischia allora paradossalmente di dar luogo a una serie di fraintendimenti e di generare una certa confusione sia tra gli addetti che ai non addetti ai lavori.

Cosa vuol dire oggi definire buona una pratica? Se ci pensiamo la cosa è molto meno scontata di quanto sembri. Cosa vuol dire cioè connotare una pratica istituzionale in modo così assoluto e perentorio (buona versus cattiva pratica) quando essa si caratterizza proprio per il suo statuto di transitorietà e impermanenza? Questo discorso fa tornare alla mente il vecchio motto sartriano evocato spesso da Basaglia: «le ideologie sono libertà mentre si fanno, oppressione quando sono fatte». Tutto ciò rimanda alla annosa questione di cosa esista realmente tra l’idea di poter esercitare una buona pratica nei servizi e la sua effettiva realizzazione e del rapporto sempre non coincidente tra forme istituenti e forme istituite dell’agire quotidiano nella pratica clinica e in quella sociale. Tra questi due momenti (istituente e istituito) infatti esiste da sempre uno scarto, uno iato, determinato da fattori di ordine storico-sociale, politico, economico e organizzativo. E forse proprio in quello scarto, in quel momento di sospensione di tutte le certezze e di tutte le ragioni che impropriamente chiamiamo vuoto ideologico, «quel momento felice in cui si potrebbero incominciare ad affrontare i problemi in modo diverso»,17 diceva Basaglia, che si fa più evidente e drammatica la contraddizione tra ciò che pensiamo di poter fare e ciò che stiamo effettivamente realizzando. La pratica clinica, come quella sociale, sono infatti sempre condizionate dal contesto di riferimento e dalle condizioni storicamente determinate che ne fondano le epistemologie. Ma cionondimeno è a partire dai rapporti di produzione e di riproduzione sociale che ha senso parlare di prassi istituzionale.

Una pratica infatti si definisce sempre a partire dalle forme organizzative e istituzionali che assume (servizio), dal sistema di valori e di credenze che il sistema sociale (che comprende anche una comunità scientifica di riferimento) veicola al suo interno, ma soprattutto dai rapporti, dai diversi modi di pensare e di agire all’interno di una certa routine istituzionale. A questo proposito crediamo importante riportare alcune considerazioni di Michele Risso18:

«Nel nostro agire – e parlo qui di un agire specifico, come psichiatri, psicoterapeuti, psicologi – dobbiamo, lo sottolineo, fare riferimento a conoscenze che hanno un risvolto operativo, che vengono tradotte in tecniche di intervento, in pratiche di cura (inteso, quest’ultimo termine, come tendenza, non come escatologica aspettativa). Ora la domanda: quale cura, se il disagio di fondo rimane immutato? Quale intervento se la ben nota qualità dei rapporti tra gli esseri umani ne esce intoccata? »

«L’evoluzione del malessere – il suo aumentare o diminuire – dipende non ultimo dal potere reale che hanno le conoscenze acquisite nel campo delle scienze umane nei confronti del potere precostituito che le vuole al proprio servizio. Ora, il potere conferito alle persone che detengono queste conoscenze è scarso e consiste, soprattutto nell’attuarsi di quella trasmissione verticale delle conoscenze stesse, in ragione della logica dei ruoli. […] Le tecniche, calate dall’alto nella realtà dei servizi, rischiano di indurre bisogni e di non rispondere alla domanda di cura. […] Il tipo di risposta dei servizi non solo determina la domanda degli utenti, ma può favorire processi di cronificazione della malattia che si vuole curare. In altri termini: la distorta risposta dei servizi traduce il disagio in malattia e coagula la condizione di sofferenza in uno stato definitivo che richiede non più cura ma assistenza, non più intervento preventivo ma gestione routinaria».19

Secondo la lettura di Risso una pratica di cura, riabilitativa o assistenziale si definisce dunque all’interno di un campo di sperimentazione mai totalmente dato e impermanente poiché il rischio che divenga gestione routinaria, cioè che si re-istituzionalizzi, è sempre possibile a partire dai suoi stessi presupposti epistemologici e operativi. Non esiste dunque una buona pratica in senso assoluto ma solo in quanto processo contingente di pensiero e azione che può aprire alternative e possibilità di superamento di una certa inerzia istituzionale – Sartre definiva questa situazione di impasse il pratico inerte20. Eppure oggi sentiamo continuamente parlare di buone pratiche in contesti istituzionali e territoriali diversissimi, legate a impostazioni metodologiche spesso in antitesi tra loro, a modelli teorici di riferimento calati verticalmente nella realtà istituzionale o a pratiche di gestione del servizio ideologicamente e operativamente lontane da quelle che comunemente fanno riferimento al periodo antistituzionale o post-manicomiale. Pratiche ormai protocollari, statiche, standardizzate secondo linee guida che le pongono astrattamente lontano dalla realtà istituzionale e dalle contraddizioni che la quotidianità del servizio porta all’attenzione degli operatori. In questo senso anche quelle che un tempo si definivano esperienze esemplari rischiano oggi, attraverso una retorica monumentale e rivolta prevalentemente al passato, di perdere aderenza con la realtà dei servizi e delle pratiche che attualmente le fondano e le caratterizzano, dandone un’immagine stereotipata, ideologicamente fissata a momenti operativi e di significato politico lontani dallo scenario contemporaneo.

Definisco queste forme di retorica narrativa retoriche dell’intransigenza, richiamando il titolo di un noto saggio di Albert Hirschman21 sulle forme conservatrici di reazione al tentativo di innovazione e cambiamento dell’esistente. Un’intransigenza ideologica che non fa più i conti con il presente pur di continuare a conservare nostalgicamente un passato non più riproducibile. Una deriva pericolosa tanto quanto quella che vede l’egemonia del potere psichiatrico di nuova generazione innervarsi nella salute mentale contemporanea.

In questo senso sarebbe allora utile chiedersi cosa si intende oggi quando si parla di un buon servizio. Anche in questo caso ci sembrano illuminanti le parole di Michele Risso:

«Per quanto riguarda poi ancora una volta […] la permanenza dei servizi, io rimango dell’opinione che un servizio abbia senso soltanto nel caso che sia in grado di negare sé stesso, di superarsi e di autoeliminarsi. Ma queste non sono idee soltanto mie e nostre; moltissimi psichiatri inglesi, che hanno pratica di prevenzione, sanno benissimo che quando un servizio funziona finisce sempre per negare sé stesso, perché propone trascendimenti e passi in avanti che fatalmente indicano una prassi alternativa».22

Secondo questa prospettiva il servizio che funziona è quello che si nega, che si estingue nel suo superamento nel momento in cui propone continuamente forme nuove e inedite di operatività che trasformano i rapporti e provocano un cortocircuito della vecchia routine istituzionale. In sostanza il servizio non può mai ipostatizzarsi in un modello definitivo e dato una volta per tutte, ma deve continuamente trascendersi, superarsi, mantenersi in uno stato di impermanenza che consenta ogni volta di rimettere in discussione i suoi presupposti ideologici ed epistemologici. E questo perché un servizio deve continuamente rispondere alla domanda che esso stesso induce nella società attraverso pressioni di ordine politico, tecnico, economico e sociale senza mai farle proprie interamente. Non esiste dunque un buon servizio in senso assoluto, un modello riproducibile di servizio una volta per tutte, ma esistono forme di sperimentazione impermanenti del servizio che devono continuamente verificarsi “in situazione”.

A questo proposito ritengo che vadano rilette in una prospettiva diversa alcune considerazioni portate diversi anni fa da Franco Rotelli23 sulla questione se il buon servizio di salute mentale sia quello vuoto o quello pieno24 in quanto oggi, venendo a mancare proprio una cultura dell’accoglienza in uno spazio istituzionale sequestrato dalle prestazioni e da logiche ambulatoriali, non è fondamentale stabilire quante persone numericamente riesca ad accogliere il servizio ma che tipo di rapporti si articolino al suo interno e al suo esterno, che qualità abbiano questi rapporti e quale livello di negozialità esista tra la comunità, l’utenza, le amministrazioni locali e l’organizzazione di quel servizio. Questo per dire che anche un centro di salute mentale affollato e continuamente transitabile «come il mercato di Marrakesh» può trasformarsi in un luogo istituzionalizzato se le relazioni di potere e i rapporti di forza rimangono immutati e la partecipazione diviene solamente un artificio istituzionale25. La capacità di “funzionare” per un servizio di salute mentale infatti non si misura più da quante persone riesce a far transitare al suo interno ma dal modo in cui funzionano e si rappresentano concretamente le relazioni dentro e fuori quello spazio istituzionale.

Le forme di partecipazione dell’utenza al momento attuale rappresentano la cartina di tornasole di questo funzionamento istituzionale, diversamente dall’epoca dell’istituzione inventata in cui si sperimentavano come forme di riappropriazione di alcuni diritti fondamentali mediate dagli operatori e dagli stessi servizi: esse invece oggi, con la destrutturazione del servizio pubblico, costituiscono proprio quel vettore di economia politica che caratterizza l’evoluzione in senso individualistico della società neoliberale. In questione infatti non è più l’istituzione da inventare, ormai soppiantata dal potere manageriale e protocollare delle dirigenze aziendali, ma la partecipazione da gestire. Il problema della gestione per i dipartimenti e le aziende sanitarie è oggi come utilizzare la partecipazione degli utenti come leva di distrazione di massa dai problemi reali che riguardano la stessa destrutturazione dei servizi e la negazione per l’utenza di diritti sociali fondamentali26. «L’unico che può tirarsi fuori da questa situazione sei tu stesso/a, attraverso il potenziamento delle tue abilità, del tuo empowerment, della tua capacità di resilienza, della tua partecipazione alla riproduzione del servizio!» sembra essere lo slogan delle nuove dirigenze aziendali.

Parlare dunque di modelli, di buone prassi, di esperienze esemplari, dando per scontato che una certa organizzazione istituzionale oggi funzioni meglio di un’altra, senza che su esse si attivi una verifica costante delle condizioni contingenti in cui operano e che le determinano o che le hanno determinate storicamente, rischia di azzerare proprio quel processo di epochè fenomenologica, di sospensione del giudizio, che può garantire la riproducibilità temporanea di un servizio – e quindi anche la sua capacità di negarsi, di trascendersi e di evitare la sua cronificazione27.

In questo senso chi continua a parlare oggi di buone pratiche e di buon servizio, anche riferendosi al passato, fa un’operazione rischiosa che è quella di confondere l’ideologia con l’utopia concreta di una prassi che non si dà mai in modo assoluto, richiudendo definitivamente in un codice proprio quel momento felice in cui potremmo cominciare ad affrontare i problemi in modo diverso.

(tutte le immagini da commons.wikimedia.org)

1 Si veda in particolare C. Brutti, F. Scotti, Psichiatria e democrazia, De Donato, Bari 1976 e C. Brutti, F. Scotti, Quale psichiatria? Vol. I e II, Borla, Roma 1980-81.

2 M. Foucault, Il potere psichiatrico, Corso al Collège de France (1973-1974), Feltrinelli, Milano 2004.

3 Nel frattempo agli albori degli anni Novanta due decreti legislativi (D.lgs. n. 502/92 e 517/93) avevano di fatto smantellato le Unità Sanitarie Locali avviando quella fase di aziendalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale che sopravvive ancora oggi con esiti tragici per il servizio pubblico e per la sanità italiana in generale.

4 Si veda la Legge Costituzionale del 18 ottobre 2001, n. 3, “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione” pubblicata nella “Gazzetta Ufficiale”, n. 248 del 24 ottobre 2001.

5 Carlo Manuali (1931-1993), psichiatra, responsabile del CIM di Perugia-Centro e successivamente coordinatore del DSM di Perugia al momento della sua fondazione nel 1992, è stato tra le figure più importanti del movimento che in Umbria e in Italia portò alla chiusura dei manicomi e all’avvio dei nuovi servizi territoriali extraospedalieri. Grande innovatore sul piano della teoria e della pratica psichiatrica, contribuì in modo decisivo all’avvio di quel processo democratico e di partecipazione popolare che rese l’esperienza di Perugia tra le più avanzate e innovative nella storia del movimento antistituzionale italiano. Negli anni successivi alla riforma diede impulso alla nascita del Dipartimento di epistemologia e di scienze cognitive, cui diede un contributo fondamentale alla ricerca sulle basi epistemologiche della psichiatria e della medicina e alla teorizzazione sulla malattia mentale.

6 Si veda C. Manuali, Chiusura dell’O.P. e prospettive di una scienza nuova, in Carlo Manuali, 1993-2003, Scritti, Dossier Salute! Umbria, Anno II, n. 3, Perugia 2003, p. 33.

7 Ho provato a descrivere questa forma diminuita di diritto di cittadinanza in: R. Ierna, Altri codici: forme, governamentalità e nuovi attori della salute mentale italiana, contributo pubblicato su “Machina” e disponibile qui: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/altri-codici-forme-governamentalit%C3%A0-e-nuovi-attori-della-salute-mentale-italiana.

8 Per una rassegna non esaustiva sulle esperienze di recovery in Italia si veda: A. Maone, B. D’Avanzo, Recovery: nuovi paradigmi per la salute mentale, Raffaello Cortina, Milano 2015 e F. Lucchi (a cura di), Coproduzione e recovery. Un progetto presso i Servizi di salute mentale della provincia di Brescia, Erikson, Trento 2017.

9 Uso qui il termine coscientizzazione collettiva nel senso di Paulo Freire: cfr. P. Freire, Coscientizzazione e rivoluzione, IDAC, Pistoia 1973.

10 C. Manuali, op. cit. p. 33.

11 Si veda: R. Castel, Verso una società relazionale. Il fenomeno “Psy” in Francia, Feltrinelli, Milano 1982.

12 Per un approfondimento su questo tema rimando a: R. Ierna, Attualità e contraddizioni della via italiana al dopo riforma, in “Aut Aut” n. 398, Il Saggiatore, Milano 2023, pp. 43-46.

13 C. Manuali, op. cit. p. 38.

14 Ibidem, p. 38.

15 Con l’unica eccezione di un volume pubblicato da Franco Angeli nel 2019. Si veda in particolare: a cura di P. Di Vittorio e B. Cavagnero, Dopo la legge 180. Testimoni ed esperienze della salute mentale in Italia, Franco Angeli, Milano 2019.

16 Rimando a R. Ierna, Altri codici, op. cit.

17 F. Basaglia, Prefazione a il giardino dei gelsi, in F. Basaglia e F. Ongaro Basaglia (a cura di), L’Utopia della realtà,, Einaudi, Torino 2005, p. 307.

18 Michele Risso (1927-1981), psichiatra, psicoterapeuta clinico e psicoanalista eterodosso, è considerato tra i padri nobili dell’etnopsichiatria e una delle figure di spicco del movimento anti-istituzionale italiano. Dal 1955 al 1963 ha lavorato come psichiatra a Berna dove ha compiuto una indagine sugli italiani ricoverati negli ospedali psichiatrici cantonali della Svizzera tedesca tra il 1946 e il 1960. Nel frattempo conosce e si interessa al lavoro di Ernesto De Martino e in questo contesto matura l’idea di lavorare sulle derive psicopatologiche di una serie di credenze popolari – la “fattura”, il “fascino” lo “stregamento” e l’eventuale tracimazione in esperienza delirante – diffusissima in Italia, ma poco conosciuta in Svizzera. Ha diretto, assieme a Bruno Callieri, il training psicoterapeutico di formazione dei giovani psichiatri nell’Ospedale psichiatrico di Guidonia “La Martellona”. Tra i più stretti collaboratori e amici di Franco Basaglia, ha contributo allo smantellamento degli ospedali psichiatrici di Gorizia e Trieste ed è divenuto un interlocutore privilegiato dello psichiatra veneziano sulla questione della formazione degli psichiatri e degli operatori nei contesti di apertura e deistituzionalizzazione del manicomio. Si veda in particolare: Il fantasma dell’autorità, in: (a cura di) M. Setaro, Franco Basaglia. Fare l’impossibile, Ragionando di psichiatria e potere, Donzelli, Roma, pp. 91-125.

19 M. Risso, in: a cura di V. Caretti e G.P. Lombardo, Psicologia e psichiatria, quale cultura per i servizi psichiatrici, Bulzoni editore, Roma, 1981, pp. 19-21.

20 J. P. Sartre, Critica della ragione dialettica, Vol I e II, Il Saggiatore, Milano 1963.

21 A. Hirschman, Retoriche dell’intransigenza, Il Mulino, Bologna 1991

22 M. Risso, op. cit. p. 26.

23 Franco Rotelli, psichiatra, è stato tra i maggiori promotori della riforma psichiatrica e dell’avvio dei nuovi servizi di salute mentale territoriali triestini. Ha collaborato con Franco Basaglia allo smantellamento dell’Ospedale psichiatrico di Trieste, succedendogli alla direzione del manicomio dal 1979 al 1995 e contribuendo in modo decisivo alla realizzazione dei servizi sanitari extraospedalieri dell’area triestina. Successivamente, è stato per dieci anni Direttore Generale dell’Azienda Sanitaria Locale triestina. Dal 2001 al 2004, fu direttore dell’Azienda Sanitaria di Caserta. Nel 2013 venne eletto Consigliere Regionale e Presidente della Commissione Sanità e Politiche Sociali della Regione Friuli–Venezia Giulia.

24 «C’è un nonsenso in voga: “il buon servizio è quello vuoto”. Credo che il buon manicomio sia quello vuoto, il buon servizio sia quello pieno. Quel che accade da Salonicco a Montréal e che si possono vedere (pessimi) manicomi pieni, e (splendidi) centri di terapia familiare o di salute mentale, vuoti. In un buon centro di salute mentale di affastellano, incrociano, moltiplicano le domande, come avviene nel mercato (scambi). Che questo sia l’indicatore migliore di un buon servizio deriva dalla domanda: se no perché la gente ci andrebbe? Né esiste per me un centro di salute mentale più bello di un mercato in Senegal o a Marrakesh». Vedi: F. Rotelli, L’istituzione inventata, in “Per la salute mentale/for mental health”, n. 1/88, Rivista del Centro Regionale Studi e Ricerche sulla Salute Mentale – Friuli Venezia Giulia.

25 Il servizio di cui parlava Rotelli era un’articolazione del DSM triestino che aveva assunto la dimensione di una sperimentazione istituzionale generalizzata basata due presupposti fondamentali: far entrare nello spazio istituzionale attori diversi creando un cortocircuito in grado di rimescolare ruoli, responsabilità e livelli di partecipazione (ereditato dal lavoro di deistituzionalizzazione avviato da Basaglia sul manicomio di Trieste), e inventare nuove forme istituzionali transitorie direttamente dai servizi (cooperazione e impresa sociale) in grado di innervare il tessuto sociale e il contesto territoriale di riferimento attraverso la messa a valore dell’utenza come propulsore di economia circolare, imprenditorialità sociale ed esigibilità di diritti fondamentali. Questi presupposti oggi sono pressoché scomparsi anche nello stesso contesto triestino. Abbiamo infatti una situazione a livello nazionale completamente rovesciata: CSM affollati che funzionano come ambulatori di medicina di base aperti poche ore al giorno, servizi “riabilitativi” residenziali saturi di persone che stazionano per anni senza alcuna progettualità futura e mondo cooperativo in piena crisi di sostenibilità nel rapporto con il mercato globale. Sulla storia dei servizi triestini si veda: D. Mauri (a cura di), La libertà è terapeutica?, Feltrinelli, Milano, 1983 e F. Rotelli (a cura di), L’istituzione inventata/Almanacco Trieste 1971-2010, Alphabeta Verlag, Trieste 2015.

26 Si tratta ovviamente di un tema molto complesso e che non mi è possibile, per ragioni di spazio editoriale, argomentare in questa sede. Ho provato a tracciare un’analisi sulle ragioni di questa deriva politica e organizzativa dei DSM italiani in due contributi: R. Ierna, Attualità e contraddizioni della via italiana al dopo riforma, op. cit., e R. Ierna, Altri codici, op. cit.

27 Si veda M. Risso, Cronicità e cronificazione, in Sapere, n. 841, agosto-settembre, Edizioni Dedalo, Milano 1981.