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Uno sguardo sconcertante su Marx e Foucault
Una recensione del libro di Matteo Polleri “Marxismi foucaultiani”, Mimesis Edizioni, in cui si esplorano le inedite sinergie tra Marx e Foucault. Polleri invita a confrontare le antinomie tra i due filosofi, suggerendo nuove direttrici di ricerca
Con Marxismi foucaultiani. Una mappa critica (2024), pubblicato da Mimesis Edizioni, Matteo Polleri propone una cartografia originale del pensiero critico contemporaneo, individuando e analizzando una costellazione di diverse forme di quelli che l’autore definisce, appunto, marxismi foucaultiani.
Un sintagma che, ammette Polleri, può risultare a un primo sguardo «sconcertante» (p. 9). Marx e Foucault sono in effetti tradizionalmente associati a due paradigmi apparentemente contrapposti di analisi critica della società, nonché a due prospettive politiche antitetiche: da un lato la critica marxista dell’economia politica e del modo di produzione capitalistico, dall’altro l’analitica delle relazioni di potere che attraversano in tutte le direzioni lo spazio sociale; da un lato, la lotta di classe contro lo sfruttamento, dall’altro le soggettivazioni resistenti contro l’assoggettamento dei dispositivi di potere.
E tuttavia, alcune correnti e personalità influenti della teoria critica contemporanea, intesa in senso ampio, hanno cominciato già da qualche decennio a incrociare in modo più o meno esplicito e sistematico teorie e concetti dei due autori in questione. È il motivo per cui, nota Polleri, il sintagma marxismi foucaultiani suona oggi in qualche modo familiare: è infatti a un mélange di riferimenti a Marx e Foucault che rimandano alcune categorie analitiche estremamente influenti nei dibattiti degli ultimi decenni, quali “produzione biopolitica” o “governamentalità neoliberale”.
La mappa di Polleri ambisce innanzitutto a censire e a definire rigorosamente questa tendenza multiforme del pensiero critico contemporaneo. Adottando un criterio di classificazione al contempo geografico, storico-filosofico e concettuale, il libro identifica tre versioni principali di marxismo foucaultiano: le critiche immanenti della quarta generazione della Scuola di Francoforte, ossia le posizioni teoriche di Jaeggi e Saar; le teorie del neoliberalismo francesi di Dardot-Laval e di Bidet; infine, il post-operaismo di Negri-Hardt. Se la prima incrocia i riferimenti a Marx e Foucault nel contesto di una ricerca metateorica sul metodo della critica sociale, la seconda li applica a una diagnosi del presente socioeconomico e politico, mentre la terza li utilizza per forgiare concetti utili all’analisi del capitalismo contemporaneo.
Il lavoro di Polleri non si limita tuttavia a un esercizio cartografico, ma intende proporre una valutazione teorico-politica delle posizioni teoriche prese in esame, sottolineandone punti di forza ma soprattutto di debolezza. Non solo. Tale valutazione è a sua volta funzionale a una diagnosi più generale sul senso e sulle prospettive di un marxismo foucaultiano, in grado di aprire nuove e promettenti direttrici di ricerca
Il primo capitolo è dedicato all’analisi e alla diagnosi delle critiche immanenti di Saar e Jaeggi. Se il concetto di immanenza permette ai due autori di integrare il modello di critica sociale hegelo-marxiano tipico dei Francofortesi con l’attenzione tutta foucaultiana per le micro-pratiche sociali che compongono le nostre forme di vita (Jaeggi) o per la necessaria embricazione tra potere e soggettività (Saar), producendo così dei modelli ibridi e originali di critica, Polleri dimostra in modo convincente come questi ultimi siano segnati da un deficit politico ed epistemologico che ne riduce di molto le potenzialità euristiche e ne rende problematiche le implicazioni normative. Tale deficit deriva dall’assunzione, in Jaeggi come in Saar, dell’eredità habermasiana non tanto nei contenuti della critica sociale, quanto nella forma e nello statuto della teoria critica: quest’ultima è infatti concepita da entrambi, sulla scia di Habermas, ancora e soprattutto come analisi metateorica sulle condizioni di possibilità della critica della società, e non come esercizio di critica concreta di fenomeni sociali specifici. La conseguenza, scrive Polleri, non può essere che una smaterializzazione del conflitto sociale, inevitabilmente sublimato e reso una variabile tra altre in modelli metateorici astratti; tale smaterializzazione, a sua volta, impedisce tanto l’analisi dei conflitti che permeano il corpo sociale, quanto la determinazione della consistenza e delle strategie delle lotte concrete che lo trasformano. Si perdono così i contributi teorico-politici più decisivi delle opere di Marx e Foucault, ridotti a riferimenti metateorici stilizzati e inseriti in un dibattito in larga parte alieno alle loro riflessioni.
Nel secondo capitolo, Polleri prende in esame le teorie del neoliberalismo sviluppate in Francia da Dardot-Laval e da Bidet. Entrambe sviluppano una diagnosi del regime socio-economico e politico neoliberale attraverso un lavoro fine di incrocio e contaminazione tra riferimenti marxiani e foucaultiani, seguendo tuttavia due movimenti teorici opposti e simmetrici. Nel primo caso, quello di Dardot-Laval, punto di partenza è l’analisi foucaultiana della governamentalità neoliberale, che in quanto razionalità generale di governo funge da contesto teorico generale entro cui inserire l’analisi marxista del regime capitalistico di produzione – criticando così ogni riduzione economicistica del neoliberismo a mera ideologia del capitalismo contemporaneo. Nel secondo, quello di Bidet, il baricentro della teoria resta marxiano, e l’apporto di Foucault è necessario per integrare alcuni punti ciechi della critica dell’economia politica – in particolare l’analisi delle forme di potere necessarie alle classi proprietarie per mantenere il loro dominio sulla forza lavoro -, in direzione di una sintesi teorica originale, ossia la sua teoria meta-strutturale della modernità. Entrambe le operazioni teoriche, argomenta Polleri, mostrano dei limiti vistosi che derivano in ultima analisi da una interpretazione parziale tanto dell’opera di Marx quanto di quella di Foucault. Nel caso di Dardot-Laval, a risultare problematica è l’opposizione frontale tra il neoliberismo come ragione di governo e il comune come principio politico a esso antitetico: quest’ultimo non scaturisce infatti dalle pratiche dei soggetti sociali concreti, prefigurato magari nel modo in cui essi rifiutano l’assoggettamento capitalistico in fabbrica o sfuggono ai dispositivi di un’istituzione disciplinare, ma risulta piuttosto un principio normativo puro, slegato dalle tendenze concrete dei conflitti sociali. La ragione di tale opposizione, che costituisce la proposta politica in cui culmina la genealogia del neoliberismo di Dardot-Laval, dev’essere rintracciata secondo Polleri nella loro lettura dicotomica di Marx. Essi rintracciano, nell’opera di quest’ultimo, due logiche antitetiche: una della totalità, nella quale il capitalismo figura come un organismo sociale che genera naturalmente la sua fine, e un’altra dello scontro strategico, in cui esso è piuttosto l’esito sempre provvisorio del conflitto di classe. A unire queste logiche antitetiche è una filosofia della storia – il materialismo dialettico – in ultima analisi contraddittoria e insostenibile, poiché presenta il comunismo come al contempo esito inevitabile dello sviluppo proprio del capitale e risultato di una costruzione politica consapevole. A fronte di tale lettura, Dardot e Laval sostengono la necessità di abbandonare la logica della totalità per abbracciare quella della strategia, affinandola con i concetti foucaultiani di soggettivazione e potere; così facendo, nota Polleri, ignorano del tutto il concetto centrale di contraddizione e il suo rapporto con l’antagonismo di classe, in grado di fornire una spiegazione non più teleologica del rapporto tra il capitalismo come sistema sociale e come insieme di strategie contrapposte ma soprattutto di ancorare la proposta politica su dei soggetti sociali realmente esistenti e sulle tendenze che essi mostrano. Abbandonando la logica della contraddizione e dell’antagonismo, il comune di Dardot e Laval è destinato a risultare una parola d’ordine astratta, senza alcun rapporto con il conflitto sociale e con i suoi soggetti.
Per quanto riguarda Bidet, a risultare problematico è il suo utilizzo di Foucault, che Polleri definisce sociologistico nella misura in cui l’analitica del potere foucaultiana viene ridotta a un mero potere degli esperti in grado di spiegare gli aspetti culturali e intellettuali delle diseguaglianze sociali. Non si fa fatica a cogliere, al netto delle differenze anche profonde, il nodo aporetico di entrambe le versioni di marxismo foucaultiano: esse tendono a combinare pezzi di teoria marxiana e foucaultiana a partire da una presa di posizione preliminare per l’una o l’altra, senza cioè riflettere sulle divergenze e affinità tra le due ma trattandole al contrario come due monoliti del tutto irrelati, «in contrasto con la stessa logica dell’alleanza» (p. 103).
Il terzo capitolo prende in esame il marxismo foucaultiano sviluppato nel solco della tradizione operaista dall’opera di Hardt e Negri. È sul terreno dell’ontologia sociale che esso si sviluppa, e in particolare attraverso la categoria di produzione biopolitica: attraverso quest’ultima, com’è noto, Hardt e Negri intendono da un lato descrivere quella fase della produzione capitalistica in cui è la vita sociale stessa (sapere, cultura, relazioni, passioni) a essere messa al lavoro, e dall’altro la potenza produttiva della moltitudine, che eccede ontologicamente il comando capitalistico. L’originalità dell’analisi di Polleri sta qui non tanto nella pur puntuale disamina di quella che rimane senz’altro la più influente e la più riuscita forma di marxismo foucaultiano, quanto nell’individuazione dei suoi aspetti problematici. L’autore si scaglia infatti contro la tradizionale accusa di vitalismo, mossa da più parti contro la concezione della moltitudine di Negri-Hardt, cercando di mostrarne l’insostenibilità.
A suo dire, la concezione negriana della biopolitica non è vitalista in senso forte, poiché la potenza produttiva della moltitudine non è tanto un presupposto logico-ontologico, ossia una sorta di entità transtorica, ma è dedotta storicamente dallo sviluppo storico del capitalismo contemporaneo, e in particolare dalla sua fase post-fordista
Per quanto riguarda invece l’accusa di vitalismo in senso debole, ossia la critica dell’idea che le lotte delle moltitudini siano prime da un punto di vista ontologico, necessariamente emancipatrici e causa della struttura del capitale a ogni momento storico, Polleri ribatte con un argomento più politico che teorico: egli ammette infatti la necessità di un tale “vitalismo”, ossia di «fare riferimento a una capacità produttiva sovrabbondante, a una tendenza storica alla liberazione o almeno a un desiderio di cambiamento che possa virtualmente riunire le condizioni necessarie, sebbene non sufficienti, per il successo delle lotte sociali», pena l’impossibilità pura e semplice di «immaginare una trasformazione rivoluzionaria» (p. 137). Secondo l’autore, l’aspetto davvero problematico dell’opera di Negri-Hardt sarebbe piuttosto costituito dai suoi residui storicistici, e in particolare da una concezione stadiale e sostanzialmente teleologica del capitalismo e del conflitto tra le classi. Oltre a mal conciliarsi con la critica foucaultiana di ogni forma di storicismo, tale concezione produrrebbe un «cortocircuito storico-ontologico», ossia una tensione tra «il primato ontologico della “moltitudine” e la molteplicità dei suoi tempi storici» (p. 140): è insomma nel rapporto problematico tra storia e ontologia che va ricercato, secondo Polleri, il punto debole del connubio tra Marx e Foucault sviluppato da Negri-Hardt.
Nella breve, ma densa conclusione del testo Polleri si dedica a una valutazione complessiva delle posizioni analizzate che interroga il senso profondo dell’idea stessa di un marxismo foucaultiano, svelando così l’obiettivo critico più generale della sua cartografia. Tutte le correnti prese in esame risultano viziate, secondo l’autore, da una stessa logica metateorica di fondo, che consiste nell’assumere implicitamente l’intrinseca antinomia tra l’opera marxiana e quella di Foucault e dunque di non poter far altro che produrre una sorta di «fusione a freddo», ossia una qualche forma di combinazione solo esteriore tra elementi delle teorie dell’uno o dell’altro. Contro questa strategia, Polleri indica una direttrice di ricerca alternativa che consiste piuttosto nell’affrontare queste antinomie: più in particolare, nel risalire al terreno comune, ossia all’insieme di problemi teorico-politici, ai campi di problematizzazione dai quali le alternative teoriche marxiane e foucaultiane si diramano, per rivalutarne le divergenze ma anche scoprirne le possibili convergenze. Riprendendo e reinterpretando una suggestione di Balibar, si tratta secondo Polleri di risalire ai punti di eresia che legano, disgiungendole, le opere di Marx e di Foucault: non per sancirne ancora meglio la separazione, ma al contrario per costruire infine un’alleanza organica tra i loro pensieri. Soltanto se si rimonta ai nodi problematici dell’analisi della società sui quali Marx e Foucault sembrano divergere – il rapporto tra potere e sfruttamento, o tra alienazione e soggettivazione, per fare soltanto due esempi – diventa insomma possibile «infrangere i confini che [li] separano nettamente […], intersecandoli in modo produttivo e irreversibile» (p. 163).
Il lavoro al contempo cartografico e critico di Polleri presenta diversi punti di estremo interesse, oltre che di indubbia originalità.
Innanzitutto, esso definisce i contorni di una costellazione centrale della filosofia sociale e politica della contemporaneità, la cui definizione era tanto più urgente nella misura in cui – parafrasando Wittgenstein – essa giaceva da tempo in piena vista. Era tuttavia necessario un vero sforzo – nonché un certo coraggio – analitico per assegnarle infine un nome, non soltanto per la distanza tra i punti messi in connessione, ma soprattutto per via della perdurante influenza di cartografie ormai superate e distinzioni discutibili che ancora plasmano la nostra visione delle posizioni in gioco. La mancata definizione della corrente dei marxismi foucaultiani misura in questo senso il danno costituito dall’irrigidirsi delle mappature e prova per contrasto l’importanza delle operazioni con cui le ripensiamo e ridefiniamo.
Esso ha però soprattutto il merito di invitare a tornare alle origini dell’analisi critica della società, attraverso un lavoro inestricabilmente filologico e concettuale, per ripensare il rapporto tra critica del potere e dello sfruttamento. Si tratta di un’operazione dalle implicazioni molteplici
In primo luogo, questo (appello a un) ritorno alle origini si accompagna a una radicalizzazione dei termini teorico-politici del dibattito, che contrasta efficacemente con il tendenziale stemperamento delle categorie fondamentali della teoria critica a cui si è spesso assistito in questi ultimi decenni. L’accento posto da Polleri ai termini di potere e sfruttamento, giustamente trattati come categorie chiave dell’impianto teorico-politico di Marx e di Foucault, sembra in questo senso rispondere alla coppia concettuale riconoscimento-redistribuzione, con cui ancora non molto tempo fa Honneth e Fraser pretendevano riassumere i poli fondamentali dell’analisi critica della società.
Si tratta, in secondo luogo, di una proposta di ricerca ambiziosa. Se dovessimo tentare di riassumerla, saremmo tentati di descrivere questo scavo nei punti di eresia che legano e dividono Marx e Foucault come una sorta di genealogia concettuale dell’intersezionalità: la proposta di Polleri sembra in altre parole corrispondere a una ricerca che, attraverso un lavoro filologico e concettuale nelle opere di Marx e di Foucault, tenta di rintracciare le origini delle divisioni tra le diverse categorie della teoria critica in senso lato, con l’obiettivo di ripensarne le intersezioni al di là della mera combinatoria o del semplice accostamento. Una posizione senz’altro originale all’interno del dibattito, sempre più ricco e complesso, sul tema centrale dell’intersezionalità, e che può fornire un contributo urgente rispetto a questioni centrali dell’attualità filosofica, ma soprattutto politica: si pensi ad esempio, nel caso del pensiero postcoloniale, al rapporto problematico tra la necessità di pensare la razzializzazione negli spazi post-coloniali e il rischio di forme di identitarismo che impediscono solidarietà di classe; o, in ambito femminista, l’annosa questione del rapporto tra differenze di classe e potere patriarcale.
Pochi sono, oggettivamente, i limiti del testo, e per la maggior parte onestamente riconosciuti dallo stesso autore. Appare ad esempio flagrante l’assenza di un lavoro sul pensiero postcoloniale e sulla tradizione femminista, due crocevia fondamentali dell’incontro teorico tra Marx e Foucault, ammessa e giustificata tuttavia per ragioni di spazio.
Il passaggio forse meno convincente del testo è la lunga discussione sul vitalismo di Negri-Hardt. Polleri ha senz’altro ragione nell’evidenziare lo storicismo implicito nella visione stadiale dello sviluppo capitalistico dei due autori; ma tale storicismo, lungi dall’escludere ogni forma di vitalismo, sembra piuttosto implicarlo. Questo vitalismo non consiste tanto nel presupporre un bios esterno e opposto al potere; consiste piuttosto nel credere che questa resistenza sia di per sé già orientata verso l’emancipazione e che addirittura la prefiguri. Si tratta sì di una tesi indubbiamente storicista, ma anche di una forma evidente di vitalismo, nella misura in cui questa dinamica storica non è – come in uno Spengler – una sorta di evoluzione fisiologica della società in quanto tale, ma è agita da una sostanza, da un pieno ontologico. In altre parole, il motore della storia ha, per Negri – in questo marxiano fino in fondo – un nome ed è quello della moltitudine; se così non fosse, non si vedrebbe cosa distingue Negri dalle interpretazioni ortodosse della filosofia della storia marxista; ma anche, paradossalmente e più in generale, dalle filosofie della storia reazionarie o religiose. D’altronde, si tratta di un vitalismo minore che l’autore stesso implicitamente riconosce all’opera nell’opera di Negri-Hardt, come abbiamo avuto modo di notare, giustificandolo con ragioni politiche: senza una tendenza storica alla liberazione, nessuna trasformazione rivoluzionaria.
La questione del vitalismo, di per sé piuttosto teorica, conduce così a un nodo decisamente più interessante: quello del politico. Dietro a questa versione moderata di vitalismo, necessaria secondo Polleri a spiegare la possibilità della rivoluzione, non si fa fatica a scorgere la tesi dell’autonomia del sociale e la tendenziale indifferenza per la dimensione della politica, o, in altri termini, per la necessità di un intervento politico di organizzazione affinché la moltitudine divenga rivoluzionaria, piuttosto che fascista. Se d’altronde la moltitudine esprime una tendenza storica alla liberazione, data dalla sua collocazione sociologica all’interno della struttura di classe, perché mai essa dovrebbe essere messa politicamente in forma?
Al netto delle risposte che possiamo dare a questo dibattito, ciò che importa è che siamo di fronte a un ennesimo punto di eresia tra Marx e Foucault: da un lato la tendenza marxiana e marxista a una priorità del sociale sul politico; dall’altro, quella foucaultiana di porre l’accento sul lavoro (politico in senso lato) di costruzione attiva delle soggettivazioni resistenti, individuali e collettive. È questo punto a restare, a parere di chi scrive, piuttosto in ombra nella ricostruzione di Polleri
D’altro canto, però, la proposta teorica dell’autore sembra avere gli strumenti per affrontare anche questa questione: non c’è forse un’affinità perturbante tra la constatazione marxiana secondo la quale i filosofi hanno finora solo interpretato il mondo, mentre si tratta di trasformarlo, e l’invito dell’ultimo Foucault a pensare la critica più come un’arte – l’arte di non essere eccessivamente governati? Entrambi i filosofi hanno cercato di pensare, in altre parole, la trasfigurazione della filosofia – della critica – in prassi; se hanno preso forse strade divergenti, sarebbe di estremo interesse ripercorrere quel cammino a ritroso, vale a dire reinterrogarsi sullo statuto della critica e sul suo rapporto con la prassi politica. Tracciare una strada per farlo costituisce senz’altro un ulteriore merito del testo di Polleri.
Foto di copertina di Julia Tulke su Flickr
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