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Cannes #1. La malinconia resistente trans nel film di Audiard “Emilia Pérez”

In concorso nella 77ima edizione del Festival di Cannes, Jacques Audiard, con “Emilia Pérez” propone un film che, tramite i generi cinematografici, esplora la complessità della transizione di genere. La gender-affirming surgery diventa l’utopia incarnata di una trasformazione sociale possibile senza cancellare il tratto malinconico che ogni rivoluzione corporea porta con sé

Siamo nella contemporanea Città del Messico, sullo sfondo dei femminicidi, delle sparizioni degli studenti poi ritrovati nelle fosse comuni, del dominio dei cartelli di narcotrafficanti. Rita (impersonata da Zoe Saldaña) è un’avvocata cinica, messicana ma di origine domenicana (e nera), che vince una causa in difesa di un uomo che ha evidentemente ucciso la moglie, ma viene assolto, con la dimostrazione legale che il femminicidio è in realtà un “suicidio”. Sono i soldi a muovere l’operato di Rita che spiega sulle note e le performance del musical il conflitto etico che la anima, ma anche la necessità di evolversi economicamente dalla povertà di classe e razza che ne marca la provenienza. 

Per la sua bravura e spregiudicatezza, Rita viene ingaggiata dal più famoso dei narcotrafficanti del Messico, Manitas (i nomi e le vicende, sebbene finzionali, si riferiscono a fatti reali o altamente probabili), per una missione molto particolare. Manitas, infatti, oltre a essere un efferato signore della droga, con una moglie (Jessi, interpretata da Selena Gomez) e due figli maschi, cova un desiderio profondo e atavico: quello di compiere un processo di affermazione di genere e ritrovarsi, finalmente, un corpo di donna. Così Rita per 2 milioni di dollari alle Cayman si addentra nel sud est asiatico, prima, e in Israele dopo per trovare un medico disponibile a effettuare una serie di operazioni chirurgiche in condizioni di assoluta riservatezza: rendersi disponibili a conoscerne la storia e gli obiettivi, significa fare un patto di vita o di morte con Manitas. È il musical la forma attraverso cui viene spiegata la complessità del progetto di cambiare “corpo” e “pelle” e la quantità di interventi necessari nel processo di gender-affirming surgery. Il coro canta la transizione M to F come vaginoplastica, mastoplastica, laringoplastica, rinoplastica, dopo anni di terapia ormonale. Manitas dopo una molteplicità di operazioni, patemi fisici e morali (la sua famiglia viene spedita in un luogo protetto in Svizzera, mentre Manitas si finge morto in un attentato di un cartello narcos concorrente) trasforma o rinasce come Emilia Pérez (impersonata dall’attrice Karla Sofía Gascón). Ma questo nuovo inizio è solo il principio di un processo di metamorfosi più grande, familiare, etico e politico, il cui esito non è affatto scontato. 

Il regista francese Jacques Audiard, già diverse volte premiato a Cannes in passato (tra gli altri, con la Palma d’Oro del 2015 per Dheepan – Una Nuova vita) è noto per essere un maestro nel firmare film dove l’autorialità sposa il genere. O meglio, per passare da un registro all’altro, dal drammatico alla commedia, dal thriller all’horror, dal western al documentario passando addirittura per l’adattamento cinematografico di una graphic novel con il suo recente Les Olympiades. Con Emilia Pérez, presentato quest’anno in concorsotenta un’operazione molto audace (e magistralmente riuscita) di mixare la commedia, con il musical, il melodramma e il gangster movie. I generi si alternano come a segnare la complessità dell’oggetto trattato, la fatica della transizione di genere, sullo sfondo di una domanda cruciale per il femminismo e transfemminismo degli ultimi decenni: la modificazione o l’intervento sul genere può produrre un cambio che non sia solo soggettivo, e dunque etico, ma anche sociale, e quindi politico? 

Il film sembrerebbe spingersi verso una risposta semplice, ma utopica: una volta aperto un processo di affermazione di genere c’è la possibilità che si produca una trasformazione più ampia. Infatti, anni dopo, Emilia Pèrez, l’ex-capo narcos, si ricongiunge a Città del Messico con la sua famiglia d’origine e l’avvocata Rita, ed è pronta a redimersi dai suoi peccati passati, proponendosi come leader di un’organizzazione non governativa che lotta contro le sparizioni (di cui lei stessa era stata autrice). Ma questo processo di resistenza trasformativa non cancella il tratto ambivalente e melodrammatico, sia della transizione che del cambiamento sociale. Se le parti del film che diventano musical servono a marcare l’ambivalenza, il mélo, invece, mette in luce uno dei concetti costitutivi della politica trans. Come ha suggerito José Esteban Muñoz, teorico cubano poi trasferitosi negli Stati Uniti e allievo della teorica queer Eve Kosofky Segwick, nel suo libro del 1999 sosteneva che le persone queer black and brown sono soggette a un processo di disidentificazione. L’identità di genere e di razza, invece, di essere un segno distintivo di chiusura all’interno di una piccola patria del genere, della sessualità e dell’etnia (secondo il principio di base di quelle che vengono chiamate identity politics) è un processo di trasformazione che non si arresta davanti alla sfida di mettersi in viaggio senza una meta specifica. Il tratto malinconico, invece, di essere represso in una visione patologizzante, diventa generativo. Se la malinconia è l’affetto che si lega alla perdita di un oggetto, a Muñoz non interessano soltanto i gradi intermedi che portano dalla perdita alla dimenticanza o alla rielaborazione, ma le ambivalenze che si producono nel mezzo. La malinconia diventa l’affetto in grado di produrre una politica del piacere. Il lutto costitutivo dei processi di disidentificazione (per esempio delle persone black e trans) diventa il sito per nuove forme di militanza. 

Questa malinconia resistente viene a più punti ripresa nel film. Nell’espressione di dolore del capo narcos che sin dall’infanzia si percepiva disindentificato, non tanto dal punto di vista della sessualità (“del desiderio” verso un oggetto), ma per quanto riguarda il genere (dunque fuori posto con il suo “il corpo”). Ma ritorna anche nella sofferenza della separazione dalla sua famiglia eterosessuale da cui si allontana per il suo processo di affermazione di genere nel più completo anonimato e poi nel desiderio di ricongiungersi con i figli, sotto le mentite spoglie della zia Emilia Pèrez. Come scrive Hil Malatino nel suo secondo libro del 2022 la politica trans è fatta di “bad affects”, non di gioia trasformativa immediata, ma di fatica, burnout, sofferenza, intorpidimento, depressione. Senso di perdita per qualcosa che non si può immediatamente raggiungere, ma anche perdita per le disgiunzioni che il processo di transizione di genere porta con sé (per esempio la rottura e l’esclusione con la famiglia d’origine). Così in questo movimento che ricostruisce un nuovo nesso familiare allargato e che include anche l’avvocata Rita, una famiglia trans e queer fatta di esperimenti politici (come l’organizzazione non governativa che si occupa di sparizioni), la politica trans emerge in tutta la sua complessità: come un’utopia potente che mette in moto affetti ambivalenti e, talvolta, malinconici, così come esiti inaspettati. 

Le immagini provengono dal Kit Films (Espace Press Cannes) e sono in fair use