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EDITORIALE

Il genocidio in Palestina e il collasso dell’ordine occidentale

Il genocidio che si consuma in Palestina è il punto d’arrivo di una lunga storia occidentale di colonialismo, espropriazione di terre e risorse, distruzione della natura, pulizia etnica, crimini di guerra e contro l’umanità

«Dall’analisi delle violenze e delle politiche di Israele nel suo attacco a Gaza, questo rapporto conclude che ci sono ragionevoli motivi per ritenere che la soglia per affermare che Israele stia commettendo un genocidio sia stata superata» – così è scritto nel Report della Relatrice Onu per i territori palestinesi occupati Francesca Albanese.

I numeri del rapporto sono autoevidenti: 30.000 palestinesi sono stati/e uccisi/e, tra cui più di 13.000 bambini/e, 12.000 risultano dispersi/e, 71.000 persone hanno subito mutilazioni, il 70% delle abitazioni sono state distrutte e l’80% della popolazione è sfollata

Molti corpi non hanno trovato sepoltura e migliaia di persone sono state arrestate e sistematicamente sottoposte a trattamenti inumani e degradanti. Eppure, alla conferenza stampa di presentazione del Report, un giornalista tedesco del “Tagesspiegel” – il primo a porre una domanda –  chiede quali siano le evidenze scritte, e non solo dichiarazioni e discorsi orali, dove il governo israeliano abbia esplicitamente espresso la  volontà di commettere un genocidio. Albanese alza gli occhi al cielo e spiega che solitamente i governi non scrivono in maniera chiara di voler commettere un genocidio, non è accaduto così nemmeno in Ruanda o in Bosnia.

In questo scambio di battute il gioco del diritto internazionale mostra tutta la sua incoerenza. Siamo al vulnus della questione, il re è nudo, la lingua dello stato di diritto è vuota, il diritto internazionale non funziona più, nonostante per decenni abbiamo voluto fingere che potesse farlo. Questo genocidio ci riporta  alla contraddizione ormai scoppiata che soggiace al cuore stesso del trattato di pace che ha posto fine alla seconda guerra mondiale e dato vita al sistema delle Nazioni Unite, al diritto internazionale e alla Comunità Europea, poi Unione Europea.

La Risoluzione Onu n.181 del 29 novembre 1947, ponendo fine al mandato britannico, divise i territori palestinesi in due stati, uno sarà Israele, che prenderà le terre migliori, e l’altro stato di fatto non nascerà mai. All’epoca l’Assemblea Generale era composta da 56 stati, la votazione, rinviata per due volte, passò con 33 voti a favore (tra cui l’Urss), 10 astensioni e 13 contrari. Le enormi pressioni statunitensi sui paesi nella propria zona di influenza, come i paesi europei e le Filippine, insieme alla posizione sovietica, portarono all’esito favorevole del voto.

Le rinate democrazie occidentali, che dovevano pulirsi la coscienza per aver permesso nazismo e Olocausto, avevano bisogno di dare una parvenza democratica alla nuova ondata di colonialismo di insediamento che si stava per abbattere sui territori palestinesi. Nuovi massacri, occupazioni e spostamento forzato di popolazioni: una naqba che non ha mai trovato fine. Fino all’oggi con l’intera popolazione palestinese di Gaza spinta a Rafah lungo il confine con l’Egitto.

È proprio Israele, l’unica democrazia del Medio Oriente, come viene definita dai suoi sostenitori occidentali, a non aver mai rispettato in questi settant’anni decine di decisioni dell’Onu: dalla risoluzione 194 del 1947, la quale afferma il diritto al ritorno per i profughi palestinesi del 1948, alla risoluzione 242 del 1967, che richiede a Israele di lasciare le terre occupate, alle decine di risoluzioni sullo status di Gerusalemme, contro le colonie israeliane e contro le discriminazioni subite dalla popolazione palestinese. Lo stato di Israele ha costantemente ostacolato il lavoro delle commissioni di vigilanza e d’inchiesta dell’Onu create di volta in volta, non ultimo il lavoro di Albanese a cui è stata negata la possibilità di entrare nel paese.

Democrazia, diritti, elezioni: quale senso hanno in uno stato che si fonda sull’occupazione illegale delle terre, che ha sviluppato un sistema di apartheid e discriminazione sistematica di una parte della sua popolazione?

I liberali e progressisti occidentali si sforzano a convincerci che è tutta colpa del governo di ultra-destra di Netanyahu, ma sappiamo che non è così. Riconoscerlo, però, è praticamente impossibile per l’Occidente, perché significherebbe riconoscere che tutto il nostro sistema internazionale si fonda sull’occupazione coloniale continuamente reiterata in diverse parti del mondo, sulla continua espropriazione di terre e risorse, sulla distruzione della natura e della biodiversità, sul furto dell’acqua, sul genocidio, sulla pulizia etnica, sui crimini di guerra e contro l’umanità.

Riconoscere i crimini di Israele per l’Europa significherebbe ammettere che la fine della seconda guerra mondiale non ha significato “mai più”, e che le nostre stesse costituzioni sono scritte sullo spostamento del genocidio fuori dall’Europa, non sulla sua cancellazione; e la nostra versione della storia, che ripetiamo come un mantra stanco durante la giornata della memoria, non ha mai preso in considerazione i crimini commessi dal colonialismo europeo in tutto il mondo.

Era già successo due anni fa, con l’invasione russa dell’Ucraina, anche lì alcune rotelle della retorica europea hanno iniziato a incepparsi. L’Unione Europea che ha costruito cinquant’anni di pace, salvo poi dimenticare la guerra di Jugoslavia ed esportare guerre nel resto del mondo; l’allargamento verso Est e la grande vittoria della democrazia rappresentativa, un sistema che si è svuotato di senso sia a Est che a Ovest, sempre più corrotto e lontano dalla cittadinanza; la libera circolazione, ma solo per chi è bianco e ricco, e che ha trasformato il mar Mediterraneo in un mare di morte; il diritto d’asilo che accoglie chi fugge dalla guerra in Ucraina, ma lascia morire chi scappa dalla Siria sulla rotta balcanica.

E il richiamo al nazismo – utilizzato indifferentemente da Putin, da Biden, o da Zelensky – è diventato un altro mantra stanco, per lasciare emergere che tra Europa orientale e occidentale, anche se unite sotto le stelle gialle su sfondo blu dell’Unione Europea, non c’è una visione condivisa di cosa sia stato il secondo conflitto mondiale, il nazifascismo e il socialismo reale.

Ed eccoci all’oggi con la guerra in Ucraina che minaccia di allargarsi verso la Polonia e i paesi baltici, un attacco terroristico di Isis-K a Mosca, un genocidio in corso da parte di Israele che nessuno paese occidentale è pronto a riconoscere. Siamo di fronte al collasso e all’impotenza del sistema per la risoluzione delle controversie internazionali, mentre i conflitti si allargano in tutto il mondo. La lingua del diritto si è inceppata nelle sue stesse incongruenze e le armi sono tornate ad assegnare la ragione al più forte, mentre enormi ricchezze si accumulano nelle mani di pochi.

A noi che continuiamo a vivere nello spazio europeo, rimane la necessità di non cadere in queste stesse contraddizioni, di non accettare la scelta delle opposizioni binarie in cui ci vogliono stringere, di rifiutare con forza la divisione di campo amico o nemico, di continuare a far emergere le molteplicità di resistenze, di vite, di senso e di relazioni.

Di scegliere la possibilità di vivere insieme, contro lo scontro etnico, nazionale, religioso, contro lo sfruttamento, l’annichilimento, la distruzione. È invece necessario abbracciare la reciprocità, ricostruire comunità, contro l’atroce dolore a cui rischiamo di abituarci.

immagine di copertina di Mohammed Abubakr da Pexels