DIRITTI
Cu Nasci Tunnu un po’ Moriri Quadratu
Perché il Codice Rocco deve essere abrogato.
[Foto di copertina: 28 ottobre 1936, inaugurazione del busto di Alfredo Rocco alla presenza di Costanzo Ciano e Luigi Federzoni. Fonte: Camera dei Deputati, portale storico].
In Sicilia i proverbi sono una cosa seria. Per millenni hanno puntellato il profilo di questo antico popolo che ne racconta sempre meno di quante ne ha viste e per farlo si riserva la via di fuga delle parole velate. Leggete pure il Gattopardo, ma con i proverbi ci capirete meglio. Adesso i tempi stanno cambiando, ma permettetemi di giocare un po’.
“Cu nasci tunnu un pò moriri quadratu” (chi nasce rotondo non può morire quadrato) è il proverbio fatto per i testoni, ma soprattutto è il nostro alibi collettivo per non fare quello che non ci va di fare.
Vuol dire che i tratti di fondo di una persona non si smarriscono mai nonostante i fatti della vita e la forza di volontà individuale e sono sempre lì, pronti a riemergere. Riferito alle persone è una gran cretinata, ma ben si addice a raccontare il nostro Codice Penale.
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Forse è notizia degli addetti ai lavori che il Codice Rocco (dal nome del guardasigilli dell’epoca, Alfredo Rocco) è del 1930, cioè è stato approvato in pieno fascismo e, certo con molte abrogazioni e correzioni, ha resistito nella sua sostanza al passaggio alla democrazia, prima e seconda Repubblica.
Questa persistenza è stata avvallata da buona parte della dottrina del tempo, che riteneva il codice di un rigore tecnico tale da poter trasmigrare alla democrazia.
Infatti, la dottrina si è fatta bastare che il codice rappresentasse l’esperimento di traduzione normativa dell’indirizzo tecnico-giuridico del diritto, mirante a spogliare il diritto di ogni condizionamento sociale, filosofico e politico interpretandolo come una scienza neutra. Il maggior esponente di questo indirizzò era Arturo Rocco, fratello di Alfredo, che fu ispiratore dal punto di vista dottrinale e partecipante alla redazione del codice. Una sorta di parentopoli in bianco e nero.
Questa convinzione era molto radicata: anche il Primo Presidente della Corte di Cassazione, Enrico Casati, e un costituzionalista molto illustre come Calamandrei, ritenevano che il codice non fosse “fascista”.
Quando, all’università, ho scoperto che la gente finisce in galera in forza dello stesso codice che c’era nel fascismo sono rimasto sconvolto, come dovrebbe ogni sincero democratico. In un sistema dittatoriale, il codice penale è la cassetta degli attrezzi, dove trovi tutto quello che ti serve per reprimere idee, energie, dissensi. Non mi pare una grande intuizione.
La spiegazione tecnica è il velo sotto cui celare la ragione politica. Non l’elimina. Vale per Mussolini come per Monti. Del resto nella storia, quando la scienza si nomina neutra, il secondo dopo è strumento del potere dominante. Il sapere è un modo per prendere posizione.
Che dire poi della “dottrina”: sono i professori universitari del sistema fascista che, come la magistratura dell’epoca e il sistema amministrativo, erano portati a conservare, anche in buona fede. Per passare alla democrazia il Codice necessitava solo ritocchi, l’eliminazione della pena di morte e altra poca roba. Così avvenne nel 1944.
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Perché tra gli infiniti comportamenti, alcuni diventano reati, cioè sono puniti con una misura di natura penale? Perché questi comportamenti ledono o mettono i pericolo dei “beni giuridici” per la cui tutela non basta una sanzione civile o amministrativa. Più importante è il bene da tutelare più forte è la pena.
È nella selezione dei beni da tutelare c’è poco da essere tecnici.
Tanto che il Codice Rocco inventa letteralmente dei beni pubblici a cui assicura massima tutela.
Così, apre con i “reati contro la Personalità dello Stato”. Lo Stato è il bene primario: è persona. Una sorta di Dio da tutelare in ogni modo. E così si giustifica la punibilità dei delitti di attentato ( l’anticipazione della punibilità oltre il tentativo), i reati di opinione (cioè l’incriminazione del pensiero) e anche una certa elasticità nella descrizione che dovrebbe essere dettagliata delle fattispecie: più è vago il comportamento punito, più è facile incapparci. Ad esempio, il reato di Banda Armata (art. 306 c.p.) punisce chi “forma una banda armata”. Sfido a capire qual è il comportamento punito. Ci vuole un arsenale o una pistola? occorre usarla o basta averla nascosta in casa? Tutti i partecipanti o uno?
Un discorso simile vale per il delitti contro l’ordine pubblico, tanto che sia il legislatore del ’30 nella relazione che la dottrina recente non hanno remore a dire che un oggetto del genere non può esistere. Esistono dei beni materiali, ma l’ordine pubblico è una scelta non una cosa. Ma è proprio per difendere questo bene evanescente che l’art. 419 punisce la condotta di devastazione e saccheggio, che altro non è che il danneggiamento che coinvolge l’ordine pubblico. Ma se l’ordine pubblico non esiste come bene, allora quando si punisce chi ha danneggiato un bene invece che con la multa (pena prevista dall’art. 635) con una pena fino a 15 anni è una scelta di politica criminale. Alla faccia del Codice Tecnico. Una scelta che va contro il principio di personalità della pena che comporta che ognuno sia punito per ciò che ha fatto, perché se punisci un danneggiamento con una pena esorbitante accolli all’autore del reato oltre al carico penale per quello che ha fatto, quanto serve per creare “l’esempio” per gli altri.
E con questo arrivo al proverbio “Cu nasci tunnu un pò moriri quadratu”. Come ho già detto il Codice negli anni ha ricevuto diverse modifiche sia per effetto di interventi legislativi sia per l’intervento della Corte Costituzionale. E inoltre la giurisprudenza ha tentato di interpretare le norme alla luce della Costituzione. Così che sono state dichiariate incostituzionali diverse norme (ad es. quelle che punivano lo sciopero): l’attentato è stato equiparato al tentativo per non anticipare eccessivamente la soglia della punibilità, o ancora non sono ammissibili i reati di opinione che violano la libertà di pensiero. Solo per fare degli esempi.
Tutto ciò non ha però sradicato un impianto che rimane autoritario e che si presta a interpretazioni giuridiche, se non incostituzionali, forzate rispetto ai principi della Carta.
Così, ad esempio durante gli anni ’70, oltre alla legislazione di emergenza, comunque i giudici hanno potuto attingere a fattispecie di delitti politici non rispettosi dell’esigenza di descrizione dettagliata del reato e con gravi sanzioni. Il reato di Banda Armata, stava lì.
Lo stesso vale per il delitto di devastazione e saccheggio usato per i fatti di Genova. Un delitto non usato per decenni viene impiegato per punire condotte di danneggiamento (o forse neanche) in maniera esemplare. Quando lo Stato democratico decide quantomeno di allentare le garanzie in materia penale il codice “tunnu” è pronto a riprendere la sua attitudine.
Non voglio fare discorsi ideologici, ma pare quasi che la nostra classe dirigente voglia tenersi sempre un asso nella manica per allentare la Costituzione, come se ci fosse un tasto, nella stanza dei bottoni, che inverte la gerarchia delle fonti conferendo al codice penale posizione apicale anziché collocazione subordinata alla Costituzione. E c’è una sola soluzione: abrogare il Codice Rocco.