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Gender Tech: la tecnologia e il controllo del corpo delle donne
Gender Tech – come la tecnologia controlla il corpo delle donne – di Laura Tripaldi, uscito per tempi nuovi di Laterza, esplora tematiche complesse quali il rapporto dei corpi e della costruzione del genere con una tecnologia che può liberare ed essere, allo stesso modo, strumento di controllo di una società eteronormata dominata da dinamiche eminentemente patriarcali
Cosa vuol dire interrogarsi sulla salute delle donne? Benché mi sia fatta questa domanda moltissime volte, in passato, non ho mai tenuto troppo conto dell’influenza che alcune tecnologie riproduttive avessero avuto non solo sul mio corpo, ma anche rispetto all’atto stesso di pensare il mio corpo.
La tecnologia costituisce di frequente un complesso di strumenti attraverso i quali impariamo a conoscere e costruire noi stess3, a volte persino dimenticarci che esistiamo. Ormoni sintetici, pillola anticoncezionale, ecografia e rappresentazione dei feti, algoritmi e app di period tracking,producono un effetto diretto sul modo in cui performiamo il nostro genere, ci dice Tripaldi. Appellarsi dunque alla “natura” quando parliamo di corpi appare quantomeno un discorso dai limiti evidenti. Io stessa, alla luce del complesso di dispositivi medici e tecnologici che ho dovuto assumere nel corso della mia esistenza, mi chiedo quanto il mio essere donna sia stato mediato da una società e da una tecnologia eteronormate. Quanto è stato controllato, medicalizzato, il mio corpo? È stato tutto così necessario? Non è in virtù di una fantomatica essenza predefinita e immutabile che io sperimento il mio corpo femminile. Questo è inevitabilmente anche il prodotto di un insieme di processi tecnologici profondamente influenzati dal contesto sociale, storico e politico in cui sono dati. Vediamo allora come la pillola anticoncezionale, primo farmaco nella storia della medicina pensato per essere assunto da persone sane (al netto, ovviamente, di quei casi in cui venga prescritta per curare delle patologie) si sia trasformata, specialmente negli USA, in una vera e propria lifestyle drug, volta cioè a modificare lo stile di vita di chi la assume più che a essere prescritta perché necessaria, seguendo logiche di marketing che poco hanno a che vedere con la salute riproduttiva. Non si vuole certo demonizzare la pillola, l’immenso valore che questo dispositivo medico ha avuto nel liberare le persone gestanti dal dover affrontare gravidanze indesiderate o da patologie legate al ciclo mestruale è innegabile. Ciò non toglie che spesso tale farmaco venga prescritto con molta leggerezza e senza che le persone che scelgono di assumerlo siano pienamente informate sugli effetti che questo avrà sul loro corpo e sul loro modo di interagire con la realtà. Scrive l’autrice, parlando della propria esperienza:
«A un certo punto ho iniziato a pensare che la pillola avesse cambiato la mia identità in un modo così radicale da avermi trasformata in un’altra persona. Da una parte, questa mi appariva come una conseguenza ovvia […] d’altra parte, l’idea che un paio di molecole sintetizzate in laboratorio potessero trasformare radicalmente la mia soggettività mi sembrava del tutto inaccettabile. Era come ammettere di essere schiava della mia biologia, incatenata in una gabbia che più di un secolo di femminismo aveva lavorato per decostruire».
Il lavoro di Tripaldi è profondamente politico non solo perché ci spinge verso una maggiore consapevolezza sul potere che hanno le tecnologie di trasformare e determinare i corpi, ma anche nella misura in cui apre una riflessione sulle modalità in cui tali dispositivi si sono potuti sviluppare.
«questi saperi affondano le loro radici in una storia di oppressione sessista e di violenza coloniale; sono i capostipiti di una genealogia di tecnologie di genere che hanno agito e continuano ad agire attraverso i corpi delle donne sottoponendoli a una forma di controllo politico particolarmente insidiosa, proprio perché esercitata direttamente sul materiale biologico che li compone»
Tripaldi fa l’esempio di Marion Sims – e ce ne sarebbero molti altri – chirurgo statunitense vissuto alla fine del diciannovesimo secolo e considerato padre della moderna ginecologia, nonché inventore dello speculum: una storia tristemente nota. Il chirurgo era infatti solito condurre esperimenti senza anestesia sulle schiave nere di sua proprietà, donne che aveva dunque comprato, nella convinzione, ai tempi piuttosto comune, che le donne nere avessero una minore percezione del dolore e che i loro corpi valessero meno – che fossero, cioè, sacrificabili. Non sorprende che l’amministrazione newyorchese abbia deciso, nel 2018, di rimuovere la statua celebrativa del ginecologo eretta a Central Park tra un viale alberato e una panchina qualunque.
Le stesse scoperte che hanno permesso la nascita della ginecologia sono state poi utilizzate nel tempo per la sterilizzazione forzata delle persone nere, razzializzate e povere negli USA e, più in generale, delle persone indigene in diversi paesi. Tutto questo mentre montava la retorica antinatalista secondo la quale le uniche nascite da tenere sotto controllo sarebbero quelle dei paesi del Sud globale, mentre in Occidente imperversano i discorsi di leader politici per scongiurare la denatalità e la sostituzione etnica (ne abbiamo un esempio col nostro governo, dove si lamenta una crisi della natalità ma al contempo si portano avanti politiche che ostacolano le donne ed escludono dalla cittadinanza persone con background migratorio nate e cresciute proprio qui, in Italia).
Come dire: solo l’Occidente bianco e borghese ha il diritto di riprodursi.
Cosa fare quando la tecnologia diventa dunque uno strumento del padrone, ostacolando – ove non impedendo – i processi di autodeterminazione dei corpi?
Poniamo l’esempio dell’ecografia e della costruzione della retorica sui feti, costruita strumentalmente dalle associazioni antiscelta a partire dalle immagini ottenute attraverso gli esami ecografici. Anche in questo caso, non si vuole certo negare l’indubbia utilità di questo strumento. Una cosa sulla quale non avevo mai riflettuto fino in fondo, però, è il fatto che i feti vengano di continuo rappresentati come piccoli astronauti imperturbabili, generalmente slegati dagli uteri che li racchiudono: operazione apparentemente innocua e “naturale” ma anche profondamente politica e culturale, che cancella il corpo della persona gestante.
«Né il feto come “bambino vivente”, né l’aborto come “omicidio” potrebbero esistere senza un’operazione immaginaria e tecnologica di separazione del corpo dell’embrione dal corpo della donna [o persona gestante, Ndr] che lo porta nell’utero. In questo senso, il feto è ideologia: il suo corpo si cristallizza al confine con i discorsi che lo circondano e con le pratiche tecnologiche che lo rendono visibile», spiega Tripaldi. Occorre tenere presente che la scienza opera queste scelte di continuo. Anche le modalità di rappresentazione dei feti sono frutto di una scelta: siamo bombardat3 da immagini di feti perfetti, ripuliti, senza una grinza, spesso a uno stadio gestazionale molto avanzato. Possiamo dire che questo non influenzi la retorica antiscelta rilanciata dalle associazioni cosiddette “provita” e largamente appoggiate dalle destre? Senza ventilare teorie del complotto, il monito è quello di tenere conto delle operazioni che la scienza produce di continuo, anche attraverso un processo di reificazione di corpi considerati più o meno sacrificabili. L’ecografia ha reso il corpo della persona gestante trasparente: pur rappresentando uno strumento dal valore medico innegabile, è bene ribadirlo, l’uso strumentale dei referti ecografici esibiti come “foto del bambino”, costituisce parte essenziale della crociata antiabortista delle associazioni antiscelta. Tale è anche la pratica, talmente diffusa da volerla ormai rendere obbligatoria, di far ascoltare il “battito del feto” (si noti che, nella fase iniziale della gravidanza, quando l’aborto è dunque ancora consentito, il suono comunemente scambiato per battito cardiaco è invece prodotto dall’ecografo). Poco importa se la persona gestante abbia espresso la volontà di non portare a termine la gravidanza. Non è un caso che l’iconografia del feto come simbolo della sacralità della vita emerga a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, in concomitanza con le rivendicazioni femministe per il diritto all’aborto e la nascita di nuove tecnologie biomediche come l’ecografia.
«Non potendo esistere al di fuori del corpo della donna [o della persona gestante, ndr, il feto è un’astrazione: è, a sua volta, una complessa tecnologia sociale che si riproduce attraverso le sue rappresentazioni. Costruito al tempo stesso come individuo e come simbolo, il feto contemporaneo appartiene più al potere politico che al sapere medico, più al discorso pubblico che all’esperienza incarnata delle donne».
Tanto l’invenzione della pillola quanto quella degli ecografi moderni hanno dominato il ventesimo secolo. A questi dispositivi si sono aggiunte, in tempi più recenti, le varie app di period tracking, che aiutino le persone gestanti a tenere traccia del ciclo mestruale e facilmente gestibili utilizzando qualunque smartphone. Cedendo i nostri dati alle compagnie che sviluppano queste interfaccia, verremo quindi monitorat3 da una serie di simpatici algoritmi durante tutte le fasi del ciclo. I nostri corpi diventano così la parte biologica che compone questi algoritmi, diventandone substrato passivo. Per descrivere questo fenomeno, Tripaldi parla di wetware, volendo indicare appunto l’interazione/integrazione tra software e componente biologica (e, in quanto tale, wet, bagnata). Le nuove tecnologie integrano dunque i nostri corpi come uno dei tanti elementi che le compongono: esse sono tecnologie che, a differenza di quei dispositivi che, come la pillola, agiscono sul corpo, svolgono la loro funzione attraverso il corpo. Nel migliore dei casi, tali dati vengono utilizzati per pubblicizzare diversi prodotti a seconda della fase ormonale in cui ci troviamo. Quindi durante l’ovulazione, fase nella quale l’algoritmo ci assegna un’inclinazione maggiormente competitiva ai fini dell’accoppiamento, il feed dei nostri social preferiti saranno pieni di inviti all’acquisto di prodotti di make up o lingerie. Durante la fase premestruale, invece, riceveremo più sponsorizzazioni di prodotti legati alla cura della casa e all’acquisto di cibo. I dati raccolti ida queste app, però, potrebbero essere usati all’occorrenza per tracciare gravidanze indesiderate e la necessità di abortire. Suona paranoico? Forse, ma il recente giro di vite sul diritto all’interruzione di gravidanza operato da molti paesi europei e le nuove leggi seguite al rovesciamento di Roe vs Wade in molti stati degli USA – dove si ventilano addirittura pene detentive per chi decida di cambiare stato per abortire – invitano quantomeno alla cautela.
Tripaldi ci parla dunque di strumenti estremamente pervasivi. Pensavamo che il cyborg harawayiano ci avesse liberat3, ma eccolo soppiantato dal wetware, spesso a scapito di corpi meno privilegiati dei nostri – persone povere, razzializzate, corpi animali – dunque sacrificabili. Abbiamo bisogno di trovare una nuova chiave di elaborazione a partire dall’eredità che quel cyborg ci ha lasciato, quando ci ha fornito una chiave interpretativa del tutto inedita per muoverci attraverso la «complessità epistemologica degli studi di genere» (nelle conclusioni). Occorre tenere conto degli intrecci di sapere e potere che danno forma al genere e al corpo, aggiunge l’autrice, offrendoci una lente per ripensare e risignificare non solo la tecnologia ma la realtà intera, smontarla e ricostruirla, con infinite possibilità, oltre il determinismo biologico. Decostruire e ricostruire, dunque, con nuovi margini di libertà, operazione politica oggi più che mai urgente. Questo non per cancellare determinate soggettività a vantaggio di altre, come la retorica di destra o transfobica vorrebbero dare a intendere, ma proprio perché tali differenze possano essere rivendicate con consapevolezza, casomai. Per dare vita a un discorso più ampio, a un’elaborazione della realtà in cui c’è spazio per tutt3.
È ora di liberarci: «rivendicare lo spazio tecnologico e poetico tra la realtà e l’irrealtà non è una scappatoia retorica ma una tattica politica di gioia e sopravvivenza». Non è tutto buono o cattivo, dunque.
Questo vuol dire che rinnegare la tecnologia tout court in nome del’ignoto? Certamente no.
Ma è bene tenere conto dei processi di mediazione, di materializzazione, che la tecnologia opera di continuo sui nostri corpi, di quanto questi influenzino profondamente la nostra società. Specialmente quando diamo lezioni su cosa sia o non sia un corpo, su cosa sia oggettivo, “naturale”. Gender Tech ci porta a riflettere sulle contraddizioni e le possibili insidie di uno strumento che non domina soltanto la nostra saluta sessuale e riproduttiva, ma il modo in cui ci relazioniamo alla realtà, con profonde ricadute sulla determinazione del genere e dell’identità. E, ancora, Gender Tech apre alla possibilità di agire su quei margini, su quegli spazi lasciati liberi da questi processi. Spazi dalle infinite possibilità.
L’immagine di copertina riporta la copertina del libro