DIRITTI
Ventimiglia: andata e ritorno
Il progetto STAMP è stato a Ventimiglia. Alcune riflessioni sui due giorni trascorsi alla frontiera italo-francese.
• Ventimiglia: rastrellamenti e deportazioni
Siamo stati a Ventimiglia sabato 28 e domenica 29 maggio. Non è facile provare a descrivere quello che abbiamo fatto, visto e, soprattutto, imparato, mentre la comunità con cui abbiamo condiviso quel fine settimana vive una nuova fase dell’assedio perpetrato dallo Stato. Lunedì 30 maggio, il paese al confine con la Francia è stato invaso da reparti di carabinieri e guardia di finanza, che hanno scatenato una caccia all’uomo, deportando tutti migranti che sono riusciti a trovare. In serata, la polizia ha fatto irruzione nella chiesa dove si erano rifugiate molte delle persone in transito presenti sul territorio. I solidali europei che erano con loro sono stati portati in caserma e identificati. Undici di loro hanno ricevuto il foglio di via, misura che li obbliga a non ritornare a Ventimiglia per tre anni (qui aggiornamenti).
Nonostante questa enorme difficoltà, occorre provare a mettere per iscritto alcuni dei momenti trascorsi a Ventimiglia. Forse serve soprattutto a noi, ma vogliamo sperare che, in qualche modo, possa essere utile anche per quella straordinaria esperienza.
Partiamo da quello che abbiamo fatto. Nei giorni prima della partenza, abbiamo invitato a portare a ESC cibo, vestiti, tende e altre forme di solidarietà. Tutto quello che siamo riusciti a raccogliere è stato consegnato poco dopo l’arrivo al freespot, uno spazio fuori dal paese che funziona come punto di appoggio e magazzino. Dopo aver partecipato all’assemblea in cui shabab (ragazzi) e solidali discutevano dell’incombenza dello sgombero e delle contromosse necessarie, abbiamo montato le nostre tende sotto al ponte, vicino alle altre. In serata abbiamo vissuto un bel momento tutti insieme: avevamo portato l’attrezzatura per montare il wifi point e, su richiesta di alcuni ragazzi, abbiamo trasmesso la finale di Champions League: Real Madrid-Athletico Madrid. Prima su un piccolo computer e poi, grazie agli sforzi infaticabili di chi ha rimediato un proiettore e ha fatto funzionare il generatore, su un maxi-schermo arrangiato. Sotto un cavalcavia di Ventimiglia, ai bordi di un fiume, alcune decine di persone di paesi diversi hanno seguito fianco a fianco la partita, emozionandosi ed esultando insieme, fino ai calci di rigore. Dopo la fine del match, abbiamo attivato il wifi point, che in tanti hanno utilizzato per contattare amici e parenti lontani, a casa o in viaggio. Durante i due giorni, e in maniera un po’ casuale, abbiamo anche cercato di risponder alle tante domande che ci venivano poste, soprattutto a quelle di natura legale, provando a rendere utile ciò che abbiamo imparato nei nostri sportelli e ciò che abbiamo studiato specificamente per quest’occasione, soprattutto in merito alle questioni legate al transito, ai respingimenti, al sistema Eurodac.
Quello che abbiamo dato, però, è una minima parte di quello che abbiamo ricevuto. A Ventimiglia abbiamo incontrato dei compagni generosi e sinceri, che dedicano tempo (tanto, tantissimo tempo), passione, competenze, energie a sostenere la lotta per la libertà di movimento che attraversa tutto lo spazio europeo e ovunque si scontra con i dispositivi repressivi e di confinamento, con la materializzazione del Regolamento di Dublino e della fine di Schengen. Li abbiamo visti impegnati in una solidarietà diretta, quotidiana, che rifugge la spettacolarizzazione e l’autorappresentazione e che ha un obiettivo concreto: sabotare la frontiera. Abbiamo conosciuto tanti shabab: storie e sogni differenti, problemi grandi e grandissimi. Sotto quel cavalcavia, in mezzo alla polvere, sui giacigli di fortuna, lontani dalle comodità, abbiamo sentito il loro enorme desiderio di libertà. Siamo stati investiti da una dignità infinita, una dignità che quegli altri, quelli che passano la vita a costruire muri e distruggere ponti, non riusciranno mai a intravedere, neanche da lontano.
Siamo stati parte, anche se per poco, di un corpo fluido collettivo. Cuore e testa di quel corpo è l’assemblea. Che si tiene in arabo, con traduzioni in italiano. Shabab e solidali discutono insieme, si confrontano, decidono. Quello che viene scelto non è obbligatorio per le diverse parti del corpo. Ci sono esigenze e ritmi diversi. Ma la solidarietà e la grande fiducia reciproca costituiscono un collante più forte di qualsiasi forma di coercizione. Il corpo collettivo rispetta e applica le decisioni dell’assemblea. Sabato era stato deciso di abbandonare l’area sottoposta all’ordinanza di sgombero, di farlo il mattino seguente per permettere a tutti quelli che orbitavano intorno all’accampamento di essere informati della decisione. Il giorno dopo, con una coordinazione che forse non avrebbe avuto neanche un’assemblea che si riunisce con cadenza regolare da anni, un serpentone di persone ha costeggiato il Roia, arrivando alla sua foce, dove l’acqua dolce incontra quella salata, su una spiaggia di ciottoli. Ognuno sembrava sapesse cosa fare, come muoversi, cosa trasportare, come lasciare pulito il luogo che aveva abitato anche solo per qualche ora.
Corpo collettivo, perché fatto di tanti corpi. Corpo fluido, perché fatto di corpi che cambiano. Nell’assemblea e nelle attività che la circondano, spazio e tempo sono autorganizzati. Questo crea un’alterità totale con gli spazi e i tempi dei centri di accoglienza, dei campi ufficiali o di quelli informali in cui non ci sono forme di organizzazione comune. L’autogestione innerva ogni piccolo gesto, qualsiasi attività, produce immediatamente un sentire comune. Sembra quasi che, nonostante carnagioni spesso molto diverse, shabab e solidali tendano ad assomigliarsi: i primi dicono “grazie”, gli altri “tamam” (va bene), alcuni ragazzi africani parlano in italiano, alcune ragazze italiane in arabo, le preoccupazioni corrugano le facce in modi simili, la polvere copre tutti allo stesso modo.
La percezione che nel campo non ci sia spazio per deleghe o forme di assistenzialismo è immediata e orienta le diverse attività. Alcuni ragazzi ci offrono delle bottigliette d’acqua saccheggiate alla Croce Rossa: non possiamo non prenderle, nonostante ne abbiamo una cassa in macchina. È pronto il pranzo: appena arrivati ci viene offerto senza fare la fila, il secondo giorno non siamo già nuovi e il cibo non basta per tutti, come altre persone rimaniamo senza. Nonostante le enormi difficoltà materiali di un posto in cui non c’è luce, gas, né acqua corrente, non ci sono particolari tensioni. Sembra di avvertire forte il sentimento che si stia combattendo una lotta comune, sebbene differenti siano i ruoli e i rischi.
Questo sentimento cresce all’ombra della frontiera, che a Ventimiglia si materializza in tutta la sua crudeltà e, allo stesso tempo, nella sua impossibilità di fermare la spinta di libertà che trasporta le persone in quel luogo. Da Ventimiglia, dal fiume, dalle spiagge si vede la Francia. È giusto due o tre insenature più in là. Una fermata di treno o qualche chilometro a piedi: cambia davvero poco per chi è partito a piedi dall’Eritrea, dal Sudan, dall’Etiopia o dalla Nigeria. Quella frontiera ostacola, ritarda, respinge momentaneamente, produce un giro d’affari e violenze per la criminalità organizzata, permette gli abusi della polizia, ma non può fermare nessuno. E infatti tutti passano. Qualcuno ci mette un giorno, qualcun altro due mesi. La verità della frontiera non è il blocco del movimento, ma la sofferenza quotidiana, i business, gli interessi politici che genera ininterrottamente. Con il sigillo dell’Italia, della Francia e dello spazio di libera circolazione tutto.
A Ventimiglia, però, la frontiera produce anche solidarietà e resistenza: principali obiettivi dei tanti e diversi attacchi portati avanti dallo Stato. Fino ad ora, però, fogli di via e deportazioni, intimidazioni e pestaggi, denunce ed espulsioni non sono riusciti a vincere. A Ventimiglia si scrive un capitolo importante della battaglia per la libertà di movimento e contro ogni frontiera che sta scuotendo l’Europa, da Idomeni a Calais, dal Brennero a Melilla, da Lesbo a Taranto. Questa battaglia chiede a tutti di prendere posizione: noi vogliamo stare al fianco di chi viaggia, con o senza documenti.
* S.T.A.M.P. significa “Sostegno ai Transitanti e Accoglienza a Migranti e Profughi” ed è un progetto di sportello mobile su quattro aree (sanitaria, linguistica, legale, internet) nato alcuni mesi fa a Roma.