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Ottobre cileno: nascita e crisi del modello neoliberale

In vista dell’uscita prevista per settembre per Manifestolibri di “Ottobre cileno” di Andrea Fagioli, un estratto del libro che indaga la crisi del neoliberismo a partire dalla rivolta del 2019, il processo Costituente e la sconfitta referendaria

Uscirà a settembre per Manifestolibri “Ottobre cileno” del ricercatore Andrea Fagioli, con la prefazione di Rodrigo Karmy Bolton e la postfazione di Sandro Mezzadra. In anteprima, pubblichiamo un estratto del libro che ricostruisce una genealogia del neoliberismo in Cile e ne indaga la crisi a partire dalla rivolta sociale del 2019 e dal processo Costituente, interrogandosi infine sulla sconfitta referendaria e le possibili prospettive future. Il libro, con la presenza dell’autore in Italia, sarà presentato a Roma venerdì 28 luglio alle 18.30 presso la libreria Raponi, via Luigi Zambarelli, 25, all’interno del ciclo letterario “Sotto la Magnolia, Vivaio Albero Blu”

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In una riflessione molto intima sulla sconfitta dell’Apruebo [Approvo] nel referendum costituzionale del 4 settembre 2022, la scrittrice cilena Alia Trabucco Zerán (2022) si domandava, in piena depressione post-voto, in quale parte della sua libreria andasse a quel punto messa la bozza della nuova costituzione. In generale – scriveva – non c’è uno spazio per un tipo di testi, le bozze, che sono una sorta di bussola segreta; una bussola che non raggiunge mai lo status di libro e quindi la dignità necessaria a trovare posto in una biblioteca.

L’urgenza della congiuntura, dopo un risultato tanto netto quanto impronosticabile (e impronosticato) nelle dimensioni, come quello del referendum de salida [di uscita], è un invito a raccogliere e riformulare la domanda della scrittrice. Lungi dal voler ridimensionare la durezza della sconfitta, mi pare fondamentale chiedersi, parafrasando Trabucco Zerán, quale posto troverà adesso quel soggetto molteplice ed eterogeneo che ha messo in discussione le fondamenta del modello cileno, ma non è per il momento riuscito a stabilire nuove basi costituzionali per il paese. Domanda cruciale, perché da quel soggetto dipenderà anche il futuro assetto costituzionale del Cile.

Ottobre cileno non costituisce, ovviamente, un tentativo di dare una risposta a questo interrogativo. Si propone, in maniera molto più umile e realistica, di fornire un contributo alla fondamentazione della domanda. Nelle prossime pagine, che da una parte riuniscono e danno organicità a problemi affrontati negli ultimi anni (nota 1), da ancora prima che scoppiasse l’Estallido social, e parallelamente cercano di pensare la rivolta e lo scenario che ne è seguito, si possono scorgere due problemi, il cui intreccio perenne costituisce il filo conduttore del libro. Da un lato, quello della dimensione costituzionale, che ha avuto un ruolo fondamentale tanto nel consolidamento del modello cileno quanto nella sua crisi. Dall’altro lato quello delle soggettività che hanno fatto implodere un modello del quale erano, allo stesso tempo, posta in gioco e condizione di possibilità.

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Facciamo un passo indietro. Nelle ultime settimane del 2019 era sufficiente atterrare a Santiago del Cile per avvertire che qualcosa era cambiato. Qualcosa che nemmeno l’ambiente asettico di un grande aeroporto, mai uguale a se stesso e sempre uguale a tutti gli altri, poteva occultare del tutto. Percorrendo in auto i pochi chilometri che separano l’aeroporto dalla città, i ponti, le rive del fiume Mapocho e i blocchi spartitraffico dell’autostrada “urlavano” le consegne della rivolta. Lasciarsi alle spalle la Costanera Norte ed entrare nell’elegante quartiere di Providencia, era inoltrarsi in un ambiente estraneo a chi conosceva la Santiago pre Estallido Social. Le vetrate di banche e uffici coperte dai panò di legno e le scritte sui muri disegnavano un orizzonte completamente diverso da quello che faceva dire a un certo tipo di turista latinoamericanə, con un pizzico di malcelata invidia, “Santiago non sembra nemmeno Sudamerica”.

L’avenida Nueva Providencia – che fino al 2013 si chiamava avenida 11 de septiembre, in memoria del golpe che aveva “liberato il paese dal giogo marxista” – portava i segni di settimane di battaglie che avevano il loro epicentro qualche isolato più a ovest, nella piazza intitolata al Generale Manuel Jesús Baquedano e ribattezzata dallə manifestanti Plaza Dignidad. Una piazza abitata da tensione e festa, colorata dagli striscioni e ingrigita dal fumo dei lacrimogeni, presidiata 24 ore al giorno da vari gruppi di militanti e sorvegliata, per lo stesso numero di ore, dai blindati dei Carabineros.

Non c’erano ancora stati né il plebiscito, né l’elezione della Convención Constitucional [Convenzione Costituzionale]. Nessuno poteva immaginare che, appena due anni dopo, un nostalgico del pinochetismo avrebbe sfiorato la presidenza e meno ancora le dimensioni del rifiuto alla bozza di costituzione figlia dell’Estallido social. Nonostante questo, era in qualche modo chiaro a qualsiasi sensibilità politica sintonizzata sul momento storico, che una soglia era stata mandata in frantumi e che – credo che si possa continuare a sostenerlo tre anni e un’enorme sconfitta dopo – non sarebbe stato possibile tornare indietro.

Proprio per questa irreversibilità e per le forme di mobilitazione e soggettivazione che eccedevano ogni tipo di legge e di diritto, forse non è esagerato chiamare l’Ottobre cileno “rivoluzione” (vedi, da diversi punti di vista, Brito, 2021a; Hardt e Negri, 2000; Ricciardi, 2001). Le parole circolate sulla stampa, nella frenetica copertura di quei giorni, sono state ovviamente altre: terremoto e tsunami su tutte. In un paese spesso sconvolto da eventi di quel tipo, le catastrofi naturali sono state immediatamente usate come metafora per la rivolta, ma l’Ottobre cileno non è sorto improvvisamente, in maniera inaspettata. Al contrario, parafrasando lo storico britannico E.P. Thompson, che usò questa formula per la classe operaia inglese, si potrebbe dire che il soggetto che si è preso strade e piazze «non spuntò come il sole, a un’ora stabilita: fu presente al suo “farsi”» (Thompson, 1963, p. 9). Per questa ragione voglio partire da tre scene; tre cartoline che provengono dal Cile degli ultimi lustri e che permettono di fare una genealogia dell’Estallido social, di metterne in discussione la spontaneità e il carattere inatteso, e di non invisibilizzare il lavoro politico che lo ha preceduto, preparandogli il terreno.

Prima scena: primavera australe 2011. Uno striscione attraversa la facciata della sede centrale dell’Università del Cile occupata. Pochi metri di tela coprono l’emblematico palazzo giallo che si affaccia sull’Alameda, la grande avenida che taglia in due Santiago, e danno voce al grido dellə studentə: “Educación pública, gratuita y de calidad” [Educaziona pubblica, gratuita e di qualità]. Vogliono buttare giù il sistema educativo privato a cui ha dato forma una legge del 10 marzo 1990 – ultimo giorno di presidenza del tiranno – e mai intaccata nella logica, nonostante alcune riforme. Un sistema che quasi 30 anni dopo continua a costituire un dispositivo di esclusione e spossessamento, presente e futuro, nella vita di quellə giovanə.

Foto di Luca Profenna

Seconda scena: 16 maggio 2018. Le strade di Santiago e delle principali città del paese traboccano di centinaia di migliaia di donne. È la manifestazione più grande di quella che si conosce come Revolución feminista [Rivoluzione femminista] o Mayo feminista [Maggio femminista] e una delle più grandi della storia del paese. Il movimento incorpora rivendicazioni dei movimenti femministi regionali e globali contemporanei, come il #metoo e, soprattutto, il #niunamenos [#nonunadimeno] nato in Argentina, ma esibisce anche un legame con le lotte femministe locali del passato (Follegati Montenegro, 2020; Ponce, 2020). Negli striscioni delle millenials – e non solo loro – risuonano potenti le parole del Manifiesto feminista [Manifesto femminista] scritto in piena dittatura. Il paragrafo iniziale di «Demandas feministas a la democracia» [Rivendicazioni femministe alla democrazia], leggibile a stento nel volantino del 1983 conservato nell’Archivio nazionale, mostra una straordinaria vigenza politica.

«Nessun progetto di democratizzazione sarà possibile, solido o giusto – si legge nella carta ingiallita e usurata dal tempo – se non affronta i problemi di discriminazione che soffriamo il 50 percento della popolazione per il semplice fatto di essere donne». Il Mayo feminista rivendica ancora una volta che il personale è politico, che il modello discrimina le donne nella politica, nel lavoro – remunerato e domestico –, nella previdenza sociale, nella sanità, nell’educazione e nella famiglia, sia a livello legale sia attraverso la violenza. E che il movimento antineoliberale sarà femminista o non sarà.

Terza scena: primavera australe 2019. Una marea di studentə mediə forzano i cancelli degli ingressi della Metro. Le telecamere a circuito chiuso di diverse stazioni catturano l’impotenza dei Carabineros di fronte all’onda straripante di adolescentə che saltano i tornelli. È il celebre “Evade[3] – letteralmente “Evadi!”, imperativo –, che invita a ribellarsi contro l’ennesimo aumento del prezzo della corsa e a dimostrare l’indignazione contro le parole del ministro dell’Economia, Juan Andrés Fontaine, che senza nemmeno provare a dissimulare il disprezzo di classe aveva affermato cinicamente: “chi si alza presto avrà una tariffa più bassa” [4]. Il governo farà marcia indietro due giorni dopo, ma sarà troppo tardi: “No son 30 pesos, son 30 años” [Non sono 30 pesos sono 30 anni]. L’Estallido social è cominciato.

Note:

[1] Si tratta di articoli pubblicati sulle riviste Democrazia e Diritto, Isegoría e Soft Power – già inclusi nell’edizione argentina del libro – e di un capitolo di Dopo la marea. Crisi del progressismo e nuovi processi costituenti in America Latina, a cura di Giuseppe Cocco e Graziano Mazzocchini, pubblicato nel 2021. Ottobre cileno riprende inoltre alcune considerazioni già pubblicate su Dinamopress ed Euronomade. Agli editori delle riviste e ai curatori del libro va il mio ringraziamento (Vedi Fagioli 2015, 2018, 2020, 2021).

[2] Letteralmente “Esplosione sociale”, è il nome che ha preso, fin da subito, l’ondata di proteste cominciata a ottobre del 2019. Si tratta di una definizione particolarmente significativa, nella misura in cui l’idea di esplosione rimanda a una rottura che non è possibile ricomporre.

[3]    L’’“Evade” era un invito a non pagare per protesta il biglietto della metropolitana. Ma se può sembrare un ossimoro l’uso del verbo “evadere” per indicare l’azione di entrare, anche se a gratis, nei sotterranei della metropolitana, l’“Evade” può anche essere pensato – così sostengo nel terzo capitolo – come un appello a uscire dagli argini del modello neoliberale.

[4]     Il prezzo della corsa della Metropolitana di Santiago varia in base all’orario. Le ore di punta, quelle che coincidono con gli spostamenti dellə studentə e di certi segmenti della popolazione lavoratrice, sono le più care.

Immagine di copertina di Luca Profenna