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CULT
La Gran Loggia dei Dializzati
Recensione di Settantadue di Simone Pieranni.
Come un pugno alla bocca dello stomaco che ti lascia senza fiato, intontito. Non senti il dolore ancora, ma solo il fastidio. Questo è l’effetto delle prime pagine di Settantadue, Oggetto Narrativo non Identificato di Simone Pieranni.
Lo leggi e ti viene da cercare le vene, le tue vene, quelle che non sai di avere. O meglio, che sai che sono lì ma che non senti. E magari ti dà pure fastidio il più normale prelievo del sangue o quando il medico ti stringe i polsi per contare i battiti, e non vedi l’ora che finisca quella tortura: perché quella pressione ti fa sentire le vene, la consapevolezza di essere un assemblaggio di vasi comunicanti, tubi e altri fragilissimi marchingegni organici. Tra questi i reni. La maggior parte di noi ha solo una vaghissima idea della funzione svolta dai reni. Grosso modo sono due spugne che filtrano il nostro sangue dalle scorie che poi espelliamo sotto forma di urina. Quello che ancora meno persone sanno è cosa accade quando i nostri reni non funzionano. Lo sa, suo malgrado, Simone. È in dialisi, perché i suoi reni non funzionano per colpa di una malattia genetica. Una sfiga impressa nel suo Dna, a causa della quale ha già visto morire suo padre.
Se i reni non funzionano il tuo corpo diventa un gran casino di valori sballati, e finisce che non puoi bere e non pisci neanche più. Sopravvivi grazie ad una macchina che ti ripulisce il sangue, una macchina dalla quale sei dipendente, che ti spreme come una spugna. Simone è un dializzato, in attesa di trapianto. È un malato in un mondo e in una società che elide la malattia dal proprio orizzonte, non la racconta, la consegna all’oblio del posto più brutto che esiste: l’ospedale. Una condizione che si può vivere solo nel silenzio e nell’isolamento. Invece Simone si spoglia e si mette a nudo: ci mostra il suo sangue sporco nel corpo, descrive il modo in cui passa tramite un ago esageratamente grande nella macchina. Si mette a nudo davanti ad uno specchio e con pazienza ci racconta. E nel mentre prende coscienza della sua condizione, ha la grande capacità politica e narrativa di inserire la sua vicenda dentro una dimensione collettiva, riconoscendosi con i suoi compagni di viaggio: gli iscritti per forza alla Gran Loggia dei Dializzati, con i loro codici e linguaggi ermetici a cui ci inizia. E così anche l’ospedale – istituzione totale – diventa un terreno di guerriglia quotidiana tra medici e infermieri, non accettando di vivere in maniera esclusivamente passiva la condizione di malato, sottomesso al sapere e alla disciplina medica.
Perché quella di Simone è la storia di un io narrante che vuole vivere nonostante la sua condizione di malato. La decostruisce senza rifiutarla, la comprende e la utilizza come motore narrativo, nonostante l’angoscia per quelle spugne che prima o poi smetteranno di funzionare. È incazzato, perché non si arrende alla medicalizzazione di tutta la sua esistenza. E allora decide di fare quello che fa per guadagnarsi da vivere quando esce dall’ospedale: racconta. Perché Simone fa il giornalista e lo scrittore. Indaga, prende appunti, raccoglie indizi e prove, si guarda intorno e impara a conoscere i suoi compagni di viaggio. Da qui si dipana una narrazione sghemba, obliqua, da quella stanza dove ha passato settantadue giorni degli ultimi tre anni della sua vita in dialisi: sulle orme della Roma criminale, tra la Banda della Magliana e sulle tracce di personaggi ai margini della legalità, in ricordi e assemblaggi di vite tra Genova e la Cina, dove il protagonista è andato a lungo a vivere per cercare nuove strade e storie. Espediente narrativo ed esperienza biografica si mischiano e sovrappongono diventano in districabili come i fili della macchina della dialisi, come le vite così diverse dentro la sala dei dializzati, come gli organi vitali interdipendenti. Così quella maledetta stanza che dovrebbe solo essere consegnata a un tempo morto, di attesa, di non vita per continuare a vivere, diventa un laboratorio di ricerca, per restituire la propria storia assieme a quella di chi la sorte gli ha assegnato come compagni. E alla fine non solo si soffre e si cammina per sentieri mai battuti, ma si ride a crepapelle. Perché il cinismo e l’ironia sono l’antidoto migliore al lasciarsi andare, a vivere a contatto diretto con la morte in una società che cerca l’elisir di lunga vita. Un’ironia coltivata con disciplina e costanza.
Settantadue è edito dalle Edizioni Alegre nella collana Quinto Tipo, diretta da Wu Ming 1, che anche con questo titolo si conferma fucina di narrazioni oblique e di frontiera, rompendo gli steccati tra generi (Spoiler: il prossimo Quinto Tipo sarà firmato da Selene Pascarella, si parlerà di narrazioni di crimini e di come i delitti e il modo in cui vengono raccontati conservino lo spirito del tempo).