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Sloterdijk, regole di riduzione per il parco più-che-umano
Dalla storicità dell’antropogenesi alla saturazione capitalistica del mondo, dalla mostruosità delle “esplicitazioni” moderne allo sgravio permesso dalla tecnologia digitale, fino alle peripezie della maternità, Eleonora de Conciliis in “Sloterdijk Suite Espansione e riduzione dell’umano” ripercorre le tappe fondamentali del filosofo di Karlsruhe per proporre una svolta pedagogica e psicotecnica per un futuro in formato ridotto: dopo aver pensato l’espansione, bisogna insegnare il ridimensionamento dell’umano
«Il mondo è uscito dai cardini a colpo sicuro, solo dei movimenti violenti possono riaggiustare l’incastro. Ma potrebbe essere che tra gli strumenti che servono a ciò ce ne sia uno piccolo, fragile, che richiede di essere manipolato con leggerezza», recita Brecht in epigrafe al capitolo Esercizi per il futuro (p. 205) di Sloterdijk Suite. Espansione e riduzione dell’umano, il recente saggio di Eleonora de Conciliis per Meltemi. Muovendo entro le coordinate tracciate dal (controverso!) filosofo di Karlsruhe, docente e rettore della Hochschule für Gestaltung, in un percorso che si dipana dalla sua Critica della ragion cinica, interseca le tre Sfere e l’imperativo Devi cambiare la tua vita!, de Conciliis sembra andar cercando quel piccolo, minuto, sfuggevole strumento da manipolare con leggerezza, artifizio che conduca, come vuole il titolo, a una riduzione dell’umano – una piccola Morte apparente per evitare la morte della specie, una variazione e, quindi, fuga rispetto alla prevedibile e prevista fine del mondo-per-noi.
«Qual è il compito della filosofia – se ne ha ancora uno?» (p. 17), si chiede infatti l’autrice nel prender parola. Domanda in cui declina l’interrogativo da dove, e per chi, la filosofia parli. L’umano, si rintraccia assieme alla riflessione sloterdijkiana – e con l’umano il globo (la rappresentazione del mondo, prodotto di un fenomeno ormai immemore d’espansione e conquista, ricorderemo con Schmitt e Latour) –, non conosce terrae incognitae, né volti né musi che non siano già familiari – già appropriati – a cui riferirsi. La saturazione dello spazio, frutto di un’espansione estensiva e intensiva (puntiforme è la piattaforma terrestre e in un istante vi viaggia l’informazione, sia essa in pacchetti di byte, sia essa virale contagio), impedisce la veduta di alcunché se non di uno Stesso, l’identico globalizzato; occorrerebbe perciò che lo spazio faccia quel tanto di spazio e «rend[a] libero un che di libero», con le parole di Heidegger, autore di cui spesso Sloterdijk ha ripreso i sentieri interrotti – occorrerebbe quel ritiro, strumento minuto e leggero per riaggiustare l’incastro dei cardini.
Questa, in breve, la Storia: attraverso i raffinati meccanismi di quella che Sloterdijk, sulla scorta dell’antropologia di Bolk, Alsberg e Claessens, definisce auto-domesticazione, gli umani si sarebbero costruiti (lə unə con lə altrə) un corpo e una conseguente mente del tutto sui generis, per cui si son fatti del tutto alieni (!) ai puri criteri di fitness darwiniani, ossia all’adattamento al “naturale” ambiente. Il permanere degli individui più forti e performanti ai margini dei primi nuclei abitativi, come per proteggerli, avrebbe consentito un lussureggiare, quasi in una serra, dei corpi rimasti, al centro – anzitutto madri e bambinə, che di questo prolungato rapporto, nella quiete del cerchio, avrebbero alfine beneficiato. Ecco la neotenia, un restare-feto, che assieme nasce, e richiede, questa inedita e lunga cura materna. O ancora: ecco, con l’attivazione della mano, liberata dalla cattività della zampa, l’espansione della tecnica, artefatto di cui l’umano si sarebbe rivestito diventando scimmia nuda. Una stessa dinamica del vizio (che si arrischia in un gioco di espansione e riduzione, interno ed esterno, liberazione e impiego) è quella propria, per esempio, del digitale – è innegabile, scrive l’autrice, che l’impresa digitale «abbia realizzato in pochi decenni uno storico alleggerimento o sgravio […], che è anche una liberazione disinibitoria rispetto al peso e alla durata della formazione alfabetico-umanistica antica e moderna», conducendoci a quella che Fisher definiva post-lessia – «in quanto cioè ha mostruosamente “viziato” gli individui» (p. 93). L’umano si sarebbe insomma guadagnato la libertà dalla pressione ambientale e dall’animalità, entro un benessere sempre crescente, promessa lanciata in avanti (primo mondo: liberazione dalla penuria e liberazione del desiderio o liberazione financo dal lavoro) che però, a ben vedere – anche se lo spazio libero alla vista è poco! –, «sembra coprire, come acqua torbida e stagnante, la sofferenza di tanti altri cuccioli esclusi dal mondo del benessere» (pp. 17-18).
Ecco perché prender posto nella suite, termine che in origine si riferiva al tempo ed è poi stato traslato al lessico musicale, finendo per appartenere alla grammatica turistica del mondo del wellness – e, appunto, del lusso. Perché, qui, «“suite” significa un luogo della mente in cui trascorrere un periodo piuttosto lungo, caratterizzato dalla riduzione del movimento e dalla dilatazione del tempo» (pp. 19-20): se l’umano da sempre si è plasmato, abitando in un tanto più letterale circolo, se non Sfera, se non Bolla, di azione e retroazione (il corpo che ingaggia la tecnica, la tecnica che domestica il corpo, lo affina e lo sgrava, il corpo che la tecnica torna a perfezionare, e così da capo), si tratterà di rintracciare quell’esercizio di «riduzione antropotecnica», che comporta a sua volta «la riduzione del filosofo (genitivo oggettivo) ad animale» (!) […] «ma anche (genitivo soggettivo) del suo esercizio speculativo a format di istruzioni tecniche miranti a una concreta, pratica, rarefazione dell’umano» (p. 46). Divenire minori e minutə, perché anzitutto ristretti sono gli orizzonti di abitabilità, e di sopportabilità, del mondo. Il differenziale fra interno ed esterno della Bolla che la Kultur garantisce, operando quella retro-ingegnerizzazione dell’esistenza cui accennava anche Sadie Plant, è infatti un fasto cui qualcunə, già solo entro quella comunità oltre-animale e dunque già oltre-umana, deve scontare il prezzo: l’espulsione del fuori, dei suoi pericoli e delle sue seduzioni, richiede un pegno uguale e contrario (azione, retroazione). La trasposizione dell’esterno nell’interno viene rimessa in scena in forma «preventiva e omeopatica» (p. 80), attraverso l’eliminazione dei membri della comunità ritenuti potenzialmente impuri – altra fine antropotecnica, che va dal sacrificio rituale all’allontanamento in quelle che Foucault definiva «eterotopie di crisi» e Goffman «istituzioni totali», (non)luoghi considerati ed edificati come altri, dal carcere all’ospedale alla nave dei folli e all’isolamento psichiatrico o al quadrillage epidemico. «Siamo destinati a convivere, ma non siamo fatti per convivere» è l’adagio sloterdijkiano impiegato da de Conciliis per raffigurare la precarietà dell’equilibrio omeostatico dell’immunitas umana.
Se gli umani non sono fatti per la coesistenza, ricorda però l’autrice, ne hanno bisogno per diventare “umani”, nella cronistoria del filosofo di Karlsruhe: il processo antropotecnico, processo di per sé storico (non è mai uno e eguale a se stesso il meccanismo che sgrava l’umano dalla necessità che si vuole natural-istintuale, ma co-evolve assieme all’umano che l’ha portato in essere, o che ne è stato portato all’essere), prende le mosse propriamente dal grembo materno, nel quale lə cucciolə umanə possono sostare via via più a lungo. A ben vedere – anche se lo spazio, ancora, è poco! – la serra in cui lə cucciolə umanə sostano e lussureggiano è una madre prostetica – altri membri del consesso umano forniscono cure, sguardi, carezze o rimbrotti. Ecco la maternità sgravata dal genere, ecco la maternità sgravata dallo stesso atto fisico della procreazione: ogni comunità può essere un’allo-madre o, per usare le parole di Haraway, sono numerosi i kin che lə bambinə, e poi lə adultə, possono, da sempre, intessere. Possono intesserle, anzi, anche con quello che oltre-animale e oltre-uomo non è: la sfera, estensione e assieme potenziamento e assieme decostruzione della maternità, diventa «tanto più estesa e attrezzata quanto più ricca e complessa è la società che la fornisce» (p. 131) – anch’essa quindi è fatto storico. E, pertanto, se ne possono sperimentare nuove forme e composizioni – di madri lupe la Storia è piena, introduciamo allora anche un grembo cyborg. Promessa lanciata in avanti che, a oggi, sempre altrə scontano – il lussureggiare dell’Occidente coloniale si è prodotto ingerendo le risorse di fuori che tutt’oggi si tiene a immunitaria distanza, attraverso sempre fini (!) antropotecniche di razzializzazione (come la spiaggia di Cutro, da cui il mare non ha ancora cancellato il volto dell’Uomo, impietosamente ha mostrato). Anche la maternità tecnica e mecenatistica di una comunità che possa fare le veci della cura genitoriale, estendendola e sganciandola dai cardini biologici e culturali in cui spesso la si rinchiude, non è una possibilità eguale per tuttə: «sul piano economico-politico la possibilità di un alleggerimento totale e definitivo delle madri non è affatto scontata, né garantita, ovunque» (p. 131).
Eppure, anche davanti all’antropotecnico Antropocene (che infatti altrove si preferisce chiamare Capitalocene, o Piantagionocene) disastro dell’umano che avrebbe reso la Terra sua Sfera (azione/retroazione: organismo e ambiente non sono mai separati, a ben vedere, non sono forse due individui, ma increspature e rivoli di un’unica Schiuma), teniamo fede all’esergo di Canetti, citato anche dall’autrice: «Tutti sopravvivranno o nessuno» (p. 217). Si tratta d’invenire quelle tecniche, quegli strumenti sottili, per alleviare quel pericolo che minaccia non tanto «l’esistenza del pianeta, che ha superato ben altre catastrofi tettonico-climatiche […], ma i delicati equilibri di ecosistemi indispensabili a noi e alle forme di vita da cui dipendiamo come piccoli, brulicanti, parassiti» (p. 218). Parassita è forse l’umano, malgré o il grâce-à, le sue fini antropotecniche che lo avrebbero sollevato dallo stato di dipendenza in cui l’animale sarebbe ancora rinchiuso – che lo avrebbero sollevato dallo stato d’indigenza in cui moltə umanə sono ancora reclusə. O, ancora, siamo «simili a batteri» (p. 174). «L’uomo è un essere di terra che calca il suolo», scriveva e ribadiva Schmitt, con cui Sloterdijk è da tempo in dialogo, «cammina, staziona e si muove sulla terra dal solido fondamento». Ed è anzi proprio misurando, ripartendo, estraendo dalla terra resa, con la forza, fertile (per-noi! Quale il mondo-globo che ora giace fuori dai cardini), che l’umano si sarebbe infilato in quel guaio che Morton definisce agrilogistica, inaugurazione della stanzialità, stoccaggio di (si pensava, infinite, per-noi!) risorse, e stanziamento del disastro climatico. Eppure, sempre con Schmitt (a ben vedere… se lo spazio, qui a terra e sulla Terra, è poco), contraltare della terra è anche il mare, che ripartizioni e confini – esterno e interno, amico e nemico, impiego e sgravio – non conosce (sapienza dell’insieme che i marinai, dal mare, apprendono: non a caso la terraferma avvistata dal mare, un’isola, è la prima Utopia, che non custodisce alcuna sofferenza né discriminazione).
Approdiamo allora alla Schiuma, e al suo sapere: «l’afrologia – dal greco aphros, schiuma – è la teoria dei sistemi toccati (collegati) da una co-fragilità. Se si riuscisse a dimostrare che ciò che ha la foggia della schiuma può allo stesso tempo essere ciò che porta in sé il futuro, e che a certe condizioni è capace di procreare, si sottrarrebbe terreno al pregiudizio sostanzialistico», si scrive appunto in quel che è il terzo volume di Sfere. Approdiamo alla sospensione della distinzione – ce l’ha già insegnato quella madre diffusa in cui ci siamo trovatə, appena natə, e quando mettiamo in opera questa pedagogia del comune. Ritornando anzitutto sui passi percorsi: si è detto della domesticazione che ha traghettato quel che era imberbe primate in bipede implume capace di logos e di politica – si è presupposto, alle sue spalle, un superamento della mera risposta allo stimolo ambientale, un adattamento e una selezione non più naturali ma artificiali. Eppure anche il lussureggiare nella serra non ci pare che piena e anzi più che mai partecipata immersione in un ambiente, che è, per il vivente, un mondo-intorno fatto, assieme, da sé e dall’altrə: la zecca di von Uexküll egualmente crea la propria sfera di acido burritico e temperatura corporea, e in essa prospera; l’ifa che è il fungo riceve nutrimento da quell’abete che torna a nutrire, perché questi poi, ancor di ritorno, la vizi con nuove derrate. Così va il mondo: sempre fuori dai cardini – ci pare.
Se quindi è vero che Non siamo ancora stat[ə] salvat[ə], è pur vero che è quell’esercizio di distanziazione, rimozione e confinamento (del corpo animale, del corpo altro-che-umano), in vista dell’appropriazione, dell’integrazione, della consumazione (dei corpi animali, dei corpi altro-che-umani), che spesso non ci ha consentito e non ci consente di vedere, in così esiguo spazio, possibilità di salvezza. O di una co-abitazione in un mondo non già salvato, bensì infetto. E che la stessa animalità, ricordava Foucault riprendendo la filosofia cinica («mi è stato segnalato di recente» il testo «di un certo Sloterdijk», raccontava il filosofo francese nel corso delle sue ultime lezioni, «e porta il titolo solenne di Kritik der zynischen Vernunft (Critica della ragione cinica)», è una forma ridotta, ma non già data, bensì prescrittiva, della vita – un esercizio. Ci viene offerta spontaneamente, e assieme è una sfida da accogliere, prova e compito. Per svolgerlo, per riavvolgere le fila, occorrerebbe uno strumento così piccolo – una riduzione, appunto, benjaminiana debole forza messianica che lascia le cose pressoché quali già sono, o quantomeno le cambia di pochissimo; fa spazio a quello spazio per intravvedere (questa la definizione di giustizia, secondo Benjamin) quello stato del mondo in cui esso appare come bene del tutto inappropriabile. Tuttə sopravvivranno, o nessunə, ci diremo allora l’unə all’altrə, anche se «per noi non c’è nulla da fare» – altra sapienza che proviene invece dagli “aiutanti” di Kafka, creature mediane, creature certamente ridotte e ridottesi, che di aiuto né supporto non sembrano capaci – eppure, conforto ci hanno dato, e sempre ci danno. Quindi, riduciamo sì l’umano per poter meglio aprire lo sguardo: se il soggetto si sostanzia e prende presenza solo attraverso i processi – antropotecniche, naturculture – che lo costituiscono e non ha realtà sostanziale di per sé, riconosciamo che il corpo a corpo che lo produce (ora in crescendo, ora diminuendo) coinvolge innumerevoli enti viventi, che da questo corpo a corpo a loro volta ricevono e restituiscono, forma. In ogni ambiente – non solo nell’asfittica Sfera! – una prostetica madre, in ogni mano una zampa, un tentacolo, una squama, una foglia – l’aiutante ci tende! Una complicata suite, in cui volentieri prender dimora.