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Tifiamo Rivolta. Dall’aspra stagione alla cronaca della fine
Torna in edizione aggiornata “L’aspra stagione” di Tommaso De Lorenzis e Mauro Favale, che in stile ellroyano racconta la storia del giornalista Carlo Rivolta. Un libro che è anche un affresco di un’epoca, di cosa voleva dire fare cronaca prima della morte dei giornali, soprattutto de “la Repubblica”. Un pezzo di storia d’Italia tra anni settanta e ottanta
Il pezzo sull’ennesimo suicidio in carcere lo scrive lui. E spiega cosa significa cella d’isolamento: «È uno scotto che tutti pagano al momento di entrare in carcere: il detenuto, infatti, fino a che non è stato interrogato, resta in cella da solo a disposizione del magistrato». E rincara la dose, riportando il numero di quanti si tolgono la vita proprio durante il periodo d’isolamento: «Cifre che parlano da sole e accusano le lentezze burocratiche della Giustizia in Italia come una vera e propria ‘disfunzione omicida’ del nostro Stato. Per questo sarà necessario che la riforma dei codici e del regolamento carcerario corrisponda alle aspettative dei democratici e alle richieste ragionevoli dei reclusi, che nelle carceri italiane, non bisogna dimenticarlo mai, sono per la stragrande maggioranza “in attesa di giudizio”». Non si guadagna in popolarità a difendere i diritti dei detenuti. Questo Carlo lo sa. Ma non si preoccupa. Lui fa cronaca.
Lui fa cronaca. È in queste tre parole il senso della vita di Carlo Rivolta, giornalista, o meglio cronista, che racconta in prima persona quella dolce stagione che si apre con la gioiosa contestazione al sindacato all’Università La Sapienza di Roma nel 1977 e si chiude con il meraviglioso urlo di Marco Tardelli al Bernabeu nel 1982. Quella aspra stagione attraversata da repressione, inquisizione, processi farsa, fucilazioni coatte e celle d’isolamento. E dal rapimento di Aldo Moro, attraverso la Strategia della tensione e gli innumerevoli misteri della Notte della Repubblica, precipita nel pozzo artesiano dove muore in diretta tv il piccolo Alfredino Rampi.
Lui fa cronaca. È in queste tre parole il senso di scrivere un libro su Carlo Rivolta. L’Aspra Stagione di Tommaso De Lorenzis e Mauro Favale, ripubblicato in versione aumentata da La Nave di Teseo, dieci anni dopo la fortunata prima edizione uscita per Stile Libero di Einaudi. Un riedizione necessaria, anche solo perché in questi dieci anni è cambiata la cronaca, sono cambiati i giornali. O più probabilmente sono morti. Precipitati anche loro in un pozzo artesiano, quello della disintermediazione, del tutto per tutti, del do it yourself postpunk e neoliberale. E ci sono precipitati per loro volontà. Nessuna giustificazione, nessuna assoluzione.
Rivolta è lontanissimo da alcune odierne formulazioni che indicano le frontiere di un giornalismo dinamico e moderno nella tenace schiettezza delle piccole cose, nell’eloquenza della singola immagine, nella presunta espressività dei dettagli. I sostenitori di questo giornalismo della declinazione plurale permanente, i cacciatori di storie che si vorrebbero “altre”, di vite che valgono da buoni esempi, gli ottimisti estensori di parabole laiche che incarnerebbero valori tanto universali quanto generici, come la risolutezza, il coraggio, la re-silien-za, hanno abdicato alla complessità di una visione e alla scelta di campo. O meglio: hanno fatto dell’esistente il loro orizzonte. Per contrasto, si risparmiano il prezzo che certe decisioni comportano.
Carlo Rivolta scrive dell’agguato di via Fani e della contestazione a Lama, del terremoto in Irpinia e dell’invasione dell’eroina. Ma è nel brano in apertura, pubblicato su “Paese Sera” nel 1973, che si coglie perfettamente lo scarto tra giornalismo e intrattenimento. Per raccontare l’ennesimo episodio di isolamento, l’ennesimo suicidio in carcere, il cronista raccoglie dati, disegna mappe su cui traccia linee indelebili che portano a una conclusione: la responsabilità è dello Stato. Il cronista invoca una riforma dell’ordinamento giudiziario e del regolamento carcerario. Il cronista non scrive per compiacere la linea dell’editore, ma scrive ancora per i lettori, per i parenti dei detenuti, per i detenuti. Lui fa cronaca, nella stagione aspra, quando è ancora possibile farla. Quando:
«Ogni storia che sceglie di narrare si inserisce in una precisa visione della società, della politica e della professione di cronista, in una dialettica in cui non esiste dettaglio senza contesto, effetto senza insieme di cause; in cui non c’è racconto di un’ingiustizia senza ragionamento sul sistema che genera iniquità».
E così la storia della vita di Carlo Rivolta non è più, e non può essere, la rievocazione della vita di uomo, di un cronista. Diventa l’affresco di un’epoca. Un’epopea narrata in puro stile ellroyano in cui si rincorrono la ricerca storica, l’ascolto dei testimoni, l’elaborazione delle fonti e un continuo ribaltamento dei punti di vista su quello che accade in quegli anni tra le rotative delle stampanti, gli studenti che cospirano, gli operai che s’incazzano, le pistole che sparano e le bombe che esplodono, le telefonate di rivendicazione e le informative dei servizi segreti, gli editoriali in prima pagina e le cronache in sesta.
Un continuo cambio di passo e di prospettiva che non ha la funzione di sottrarsi al giudizio, ma quella di fare esplodere tutte le contraddizioni del passato sul nostro presente. A partire dalle mille contraddizioni dello stesso protagonista: Carlo Rivolta. Come fosse un articolo scritto dallo stesso protagonista della loro storia, il libro di Tommaso De Lorenzis e Mauro Favale funziona quindi come centrifuga che partendo dal centro della cronaca minuta esplode sulle pareti del grande affresco di un’epoca. E racconta:
«l’età di una rivoluzione mancata e della reazione, uguale e contraria, che sempre corrisponde al fallimento di ogni tentativo di sovvertire lo stato di cose presente. È l’età del cambiamento imposto dall’alto come risposta alla conflittualità dispiegata dal basso, l’età in cui si ribaltano i rapporti di forza nella società italiana, emerge un altro paradigma produttivo e si affermano nuovi mezzi di comunicazione: dalle radio libere alla televisione commerciale».
Uno di questi nuovi mezzi è il quotidiano “la Repubblica”, nato nel 1976, in cui Carlo Rivolta firma fin dal primo numero. E se la figura del Fondatore appare romanzata sullo sfondo come l’Howard Hughes vampiro di James Ellroy, il ciclo materiale della carta e dell’inchiostro ha la funzione di movimento reale utilizzato per cambiare lo stato di cose presenti. È ancora possibile la cronaca oggi? È ancora possibile il giornalismo oggi?
Carlo Rivolta racconta i fatti del 12 marzo 1977 a Roma. Da Filmando in città – Roma 1977, archivio AAMOD
Perché “la Repubblica” nata nel 1976 oggi è morta. E non solo perché è morto il Fondatore. Non solo per il cambio di proprietà, di schieramento politico e di posizionamento editoriale. Ma perché oggi la cronaca ha perso la sua funzione di indagine sociale e si è trasformata in una giostra di sentenze morali. Tutti colpevoli, fino a prova contraria. Basta un avviso di garanzia per chiudere a tripla mandata la cella. Costruire nuove prigioni in cui rinchiudere il presunto innocente, altro che indagare la piaga dell’isolamento e dei suicidi in carcere. Non solo i mostri, ma anche le vittime sono sbattute in prima pagina senza ritegno. La loro esistenza vivisezionata per il morboso piacere del lettore voyeur.
Mai come oggi la cronaca è concime di passioni tristi, snodo che lega vecchi e nuovi media in un’oscillazione perversa in cui l’alto infiamma il basso che torna a pasturare l’alto. La cronaca, la cattiva cronaca, è carburante che nutre il grado zero del populismo, quello penale, che rinforza il feticcio della legalità e occulta la sostanza della giustizia, che fa del colpevole di turno – spesso presunto – un mostro da sbattere in prima pagina. Lo sapeva bene, Carlo Rivolta, e l’aveva detto con parole chiare, forse ingenue, di certo forti: «Si misura lo spessore umano di un giornale da come dà la cronaca, se fa a brandelli la vita della gente o cerca di aiutarla».
È nella perdita di umanità, di connessione con il reale, di coraggio e desiderio di mettere in discussione lo status quo, che muoiono oggi i quotidiani, i settimanali e i siti di informazione. È nella mancanza di Carlo Rivolta, pur con tutti i suoi limiti e con tutti i suoi sbagli. È nel silenzio assordante sulle condizioni dei detenuti in carcere. A partire da una cronaca che ha già emesso la sua sentenza di colpevolezza sul caso di Alfredo Cospito, senza avere nemmeno immaginato una campagna per l’abolizione di quella mostruosità etica e politica che è il 41-bis. La tortura più violenta, la condanna a morte per isolamento. È nella perdita di umanità, la morte dell’idea stessa di giornalismo.
Tutte le citazioni in corsivo sono tratte dal libro L’Aspra stagione.
In copertina, fotografia di Tano d’Amico.