cult
CULT
La primavera di Colapesce e Dimartino
“La primavera della mia vita”, il debutto sul grande schermo del duo musicale, diretti da Zavvo Nicolosi, è un film che danza leggero (anzi, leggerissimo) sui conflitti che ci costituiscono. Uno spaesante road movie in una Sicilia che sembra Arizona, tra Wes Anderson e Jodorowsky
Dalle teiere giganti alla segale allucinogena, La primavera della mia vita è un film che danza leggero (anzi, leggerissimo) sui conflitti che ci costituiscono. Scritto dal duo musicale Colapesce e Dimartino, Michele Astori e Zavvo Nicolosi, la pellicola si svolge on the road tra Catania, Messina e Palermo. Dopo tre anni di lungo silenzio, dovuto alla brusca rottura della loro amicizia e della colloborazione artistica nel duo musicale «I metafisici», Lorenzo e Antonio (cioè Colapesce e Dimartino, protagonisti), si ri-conoscono intraprendendo un viaggio. Lungo la strada, percorsa a bordo di un catorcio arancione, allegoricamente rinominato “Lazzaro”, li aspettano antiche leggende siciliane. I protagonisti devono prenderne nota e indagarle per poter ricevere un generoso compenso da parte dell’Antico Ordine Semenita, una setta devota all’albero del mandorlo di cui Antonio è entrato a far parte, che ne finanzierà la pubblicazione.
Al termine della visione, la sensazione che si può nominare con maggiore chiarezza è lo spaesamento. Bizzarro per un film ambientato in Sicilia, no? Non solo nelle rappresentazioni statunitensi, ma anche nel grande cinema italiano le regioni dell’Italia meridionale devono – quasi sempre – poter essere identificate. È importante che coloro che guardano il film capiscano subito (o poco dopo) che ci si trova in Calabria, in Campania o in Sicilia, che visualizzando sulla mappa l’ambientazione ci si predisponga a un certo linguaggio. Le aspettative del pubblico, così, possono essere accompagnate e cullate oppure disattese e distrutte con la rappresentazione del loro contrario. Diversamente, Nicolosi ha voluto rendere l’ambientazione del film riconoscibile e irriconoscibile al tempo stesso, «una Sicilia che potesse sembrare l’Arizona o il Sudamerica» come dice in un’intervista a “Il Manifesto”. Un luogo che è qui ed è altrove. La strategia complessiva del film, infatti, non è il ribaltamento, ma lo slittamento continuo. Nonostante questo, una tra le scene più divertenti affronta di punta la visione stereotipata della regione attraverso Speedy-pizzo, un pacchetto turistico di esperienze tipiche siciliane: furti, rapine e cosa nostra. Quel genere di cose che – salvo l’ultima – ci si aspetta di fare a Napoli, Palermo o Marsiglia, affrontando alcune città con paura, ma anche con attrazione e fascino verso piccoli assaggi di pericolo che potranno finire nei racconti della vacanza.
Tra le inquadrature simmetriche alla Wes Anderson e il surrealismo alla Jodorowsky, si scontrano i due diversi atteggiamenti dei protagonisti. L’oscillazione tra la razionalità moderna di Lorenzo e il misticismo di Antonio avviene sul terreno del verosimile. Davanti alle leggende che si susseguono sul grande schermo, ci assilla continuamente una domanda: «è vero o non è vero?». Lo svolgimento della trama mette a tema questo quesito di verità. Gli slittamenti e il disorientamento la rendono sempre più incalzante e allo stesso tempo sempre meno pertinente. A chi pretende di potersi «guardare dentro» come se il sé fosse il luogo della trasparenza e a chi cerca il primo strato delle sedimentazioni archeologiche, sovrapponendo verità e origine, il film risponde sempre «questo non è vero, ma potrebbe essere».
Potrebbe esserci Madame a esibirsi davanti a una trentina di persone che mangiano un pane allucinogeno, potrebbe esserci Roberto Vecchioni complottista, potrebbero esserci pirati o suore sommozzatrici. E cosa importerebbe se tutto questo, l’intero viaggio, originasse da una bugia? Su un’altalena che oscilla all’ombra di un mandorlo in fiore, l’intimità trova protezione dentro quella nebbia fitta che è la verità.