ROMA
Due pene e due misure
Sabato 18 febbraio dalle 17.30 a Esc Atelier Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto, Aurora d’Agostino, avvocata e copresidente Giuristi Democratici e Giso Amendola, docente di sociologia del diritto discuteranno di carcere.
«I più impauriti davanti al magistrato sono i potenti», ha affermato pochi giorni fa Carlo Nordio. Parole che farebbero sorridere se non fossero pronunciate dal ministro della Giustizia: in Italia un detenuto su sette è analfabeta o non ha terminato il primo ciclo di istruzione, ma meno di uno su cento è in cella per reati economico-finanziari. Soltanto poche ore prima lo stesso Nordio aveva negato la revoca del 41 bis ad Alfredo Cospito sostenendo, tra le altre cose, che il prigioniero anarchico avrebbe ribaltato il significato di una protesta tradizionalmente nonviolenta come lo sciopero della fame.
A dimostrarlo sarebbe una frase pronunciata da Cospito: «Il corpo è la mia arma».La distanza tra le parole e i fatti in questi due episodi non è casuale. Al contrario, indica la direzione su cui si muove il governo più a destra della storia repubblicana in tema di giustizia: garantismo verso i ricchi, fermezza contro poveri e «nemici». Una parola, quest’ultima, riferita a tutti quei «soggetti pericolosi» sulla cui pelle vengono alimentati allarmi sociali che hanno sempre la stessa risposta: pene esemplari.
Sin dal suo insediamento l’esecutivo Meloni ha scelto questo come suo principale terreno di gioco. Prima con i raver, poi con i migranti e le Ong e adesso con gli anarchici per mano dei quali, secondo la premier, lo Stato italiano sarebbe addirittura «sotto attacco». Il fenomeno del «populismo penale», comunque, è di lunga durata e non riguarda soltanto le destre. Tutt’altro: ha da tempo ipnotizzato il centro-sinistra ed è costitutivo dei 5 Stelle. Basti pensare al paradosso che caratterizza gli ultimi 30 anni della storia di questo paese: a fronte di una consistente riduzione dei reati sono aumentate le persone private della libertà personale, il loro carico di «sofferenza penale» e perfino l’insicurezza percepita della popolazione.
Gli omicidi, al pari di molti altri crimini, sono crollati: passando da poco meno di 2mila nel 1991 a circa 300 oggi. Contemporaneamente i detenuti sono quasi raddoppiati: da 30mila a 56mila. Gli ergastoli sono quadruplicati e anche le persone ristrette in regime di 41 bis sono salite fino a 749, più di quante ce n’erano nel periodo delle stragi di mafia. L’ergastolo, in particolare quello «ostativo» cioè senza possibili benefici, e il 41 bis rappresentano le forme più estreme della violenza perpetrata sui corpi di chi finisce dietro le sbarre. Ma non vanno interpretati come buchi neri eccezionali contro il funzionamento ordinario del diritto: ben rappresentano linee di tendenza generali di una macchina penale sempre più divisa in due.
Da un lato i reati dei «colletti bianchi», verso cui permangono le garanzie previste dalle norme e le scappatoie permesse in sede dibattimentale da forti disponibilità economiche. Dall’altro i crimini del resto della popolazione, caratterizzati da sproporzione delle pene, afflittività delle condizioni detentive e punizioni che rispondono alla ricerca di consenso elettorale più che alla protezione della collettività. L’introduzione dello scudo penale per i dirigenti dell’ex Ilva e le contemporanee richieste di punizioni esemplari per gli ambientalisti che protestano contro il disastro climatico riflettono plasticamente questa dinamica.
Lo sciopero della fame di Cospito ha riaperto il dibattito sulla forma più estrema di detenzione, ma è il carcere nel suo complesso a diventare sempre più strumento di regolazione delle questioni sociali. Quale forma hanno assunto i meccanismi punitivi e l’arcipelago detentivo sotto la spinta di tre decenni di «populismo penale»? Con la guerra che bussa alle porte dell’Europa, la militarizzazione del dibattito pubblico e l’avanzata di caratteri illiberali nel sistema politico è ancora possibile parlare di garantismo?