OPINIONI
Insurrezioni inoperose
Il rapporto fra contenuti realizzati o realizzabili e il momento spettacolare delle insurrezioni: una lunga storia che ora esplode anche a destra con i golpe inconcludenti a Washington e a Brasilia. Poi però c’è la Francia non sottomessa che riapre l’inconcluso del passato
Molto si è scritto sulla stranezza e sulle analogie fra le manifestazioni golpiste fallite di Capitol Hill e sulla loro replica puntuale a Palácio do Planalto. La seconda situazione è ancora aperta e occorre quindi una qualche prudenza nel pronunciarsi. Ma già così questo doppio evento ha destato in me rilevanti perplessità.
Spiegazioni non sono mancate: logiche possibili solo in regimi presidenziali con un elettorato spaccato a metà, convocazione digitale delle masse e loro implosione quando la frenesia sui media tocca terra nei luoghi pubblici del potere, irresolutezza e retromarcia dei leader golpisti, mentalità complottistica e agitazione messianica delle sette evangeliche.
Resta peraltro inspiegabile che i presidenti battuti, che avevano conservato importanti chances di rivincita elettorale e un elevato grado di controllo delle assemblee e dei poteri locali, nonché il consenso fanatico della maggioranza dei loro seguaci, abbiano rischiato di perdere tutto con mobilitazioni ritrattate nel momento culminante.
Alla fine, nel caso statunitense, l’establishment politico, finanziario e militare ha ritenuto, a buon diritto, che il prezzo della follia trumpiana e della profanazione delle istituzioni fosse troppo alto per la legittimità e continuità dell’Impero Usa. Ha dunque preferito avallare Biden e sembra difficile che un golpe sudamericano possa avere successo senza l’appoggio Usa e addirittura contro la deplorazione di Biden.
Tuttavia questi tratti non esauriscono la stranezza di quelle vicende e inducono a una meta-riflessione sulla forma-rivolta.
Da quando e perché siamo in presenza di folle inconcludenti, che cioè abortiscono una sfida insurrezionale e non si connettono con i loro leader potenziali, rischiano molto e non portano a casa niente, nemmeno una sconfitta dopo uno scontro reale?
Proviamo a guardarci indietro, constatando che ovviamente elementi messianici e complottistici ci sono sempre stati, sul versante sia dei rivoluzionari che dei controrivoluzionari, con il correlato di fake news e intrighi effettivi. Anche la composizione mista di obiettivi immediati e realizzabili e di retorica spettacolare con relativa costruzione di simboli e di feste è una costante storica.
Dove stanno però le vere differenze?
Le “giornate” che hanno scandito il ciclo rivoluzionario francese a fine Settecento hanno visto folle armate scendere in piazza per rovesciare la monarchia e per spostare i rapporti di forza interni tra le fazioni rivoluzionarie (la difesa degli Stati Generali, il ritorno da Luigi XVI da Versailles alle Tuileries, la liquidazione dei prigionieri aristocratici, l’epurazione dei Girondini, la fallita difesa di Robespierre), insomma furono episodi vincenti o perdenti di guerra civile, in cui alla manifestazione di piazza seguivano atti concreti, esecuzioni, cambi di regime.
Lo stesso vale, sempre con esiti alterni, nel 1848 europeo e nelle sue code bonapartiste. La Comune parigina del 1871 ebbe le sue “giornate” e, come nel giugno 1848, le sue barricate e si combinò in maniera assai significativa con la guerra perduta e l’assedio prussiano della capitale. Il 1905 russo (dopo la sconfitta epocale con il Giappone) fu inaugurato dal massacro della “domenica di sangue”, la processione popolare guidata dal messianico quanto ambiguo pope Gapón e la Rivoluzione di febbraio da grandi scioperi e cortei.
La prima fu soffocata dopo alterne vicende, la seconda rovesciò lo Zar e aprì una stagione di scontri che culminò con la presa del Palazzo d’Inverno – operazione tutta militare e incruenta, supportata dai nuovi rapporti di forza costruiti dalle lotte operaie e dall’attività dei Soviet. E l’intreccio sempre piò stretto di scontri di piazza e intervento militare segnò anche il biennio rosso italiano, la rivoluzione spartachista, l’ascesa al potere del nazismo – prima operazione di massa di segno reazionario, a differenza della farsa della marcia su Roma. Rivolta militare e insurrezione popolare segnarono l’inizio della sanguinosa guerra civile spagnola.
Nel secondo dopoguerra europeo – assente una guerra guerreggiata vicina, sostituita dalla guerra fredda e affiancata da conflitti e rivoluzioni più remote (tranne la censurata Grecia), mobilitanti solo in forma di solidarietà (Cuba, Algeria, Cina, Vietnam, Cile), abbiamo ancora episodi prolungati di violenza nella Spagna franchista e scontri anche sanguinosi di tipo difensivo, soprattutto in Italia dove la risposta diffusa dopo l’attentato a Togliatti costituì quasi una coda della guerra civile e nazionale condotta fra il 1943 e il 1945 contro fascisti e nazisti e gli eccidi di Portella della Ginestra, Modena o in occasione delle occupazioni di terre nel Mezzogiorno erano funzionali alle battaglie sindacali e alla riforma agraria, inibite da ogni sbocco politico per la scelta operata dal Pci post-Salerno della “via pacifica al socialismo” e, realisticamente, dai vincoli del Patto atlantico.
Si trattò quasi sempre di battaglie perdenti, anche se garantirono la tenuta e la crescita di una solida forza di opposizione, conseguendo un risultato visibile soltanto nel giugno-luglio 1960 (Genova, Reggio Emilia, Roma), quando arginarono il ritorno al governo della destra neofascista e aprirono la strada al centro-sinistra. Anche le rivolte operaie e nazionali di Poznań e di Budapest del 1956, su cui incombevano i vincoli internazionali del Patto di Varsavia, operanti fino all’invasione di Praga nel 1968, rientrano in questa categorie, sebbene represse e produttive di effetti solo un decennio dopo.
Con il 1960 si chiude in Italia e in Europa la fase delle insurrezioni o manifestazioni violente che conseguono risultati tangibili.
Nel ventennio successivo crollano le residue dittature in Spagna, Portogallo e Grecia, ma attraverso transizioni di tipo diverso. L’ancora imperfetta globalizzazione lasciò altri spazi in Africa, America Latina (il massacro di Tlatelolco è dell’ottobre 1968!) e Asia – ma di questo qui non discorriamo, se non per ricordare che la distanza garantì alle forze progressiste europee di applaudire la decolonizzazione e le lotte di liberazione scindendole per il momento da ogni conseguenza sul piano eurocentrico. Beninteso in Francia le ricadute della guerra d’Algeria furono più incisive sia in termini di immigrazione che di cambio di regime. Idem negli US a causa della disfatta in Vietnam.
Alla fine degli anni ’60, nell’ambito di un forte allentamento della guerra fredda, decolonizzazione diffusa almeno in superficie e di ripresa del ciclo di lotte operaie e studentesche, succede qualcosa di nuovo. Lì per lì, noi che ci stavamo dentro, non ci facemmo caso e fu solo un raffinato letterato dal dubbio passato, Maurice Blanchot, che se ne accorse in pagina fulminanti quanto metafisiche – facendo cioè torto a un movimento che, fuori dalla mitologia del Maggio francese ovvero negli Stati uniti e in Italia, ebbe agganci assai diretti con le lotte sindacali e con il ritiro dal Vietnam.
Scrive Blanchot già nel dicembre 1968: «La debolezza del movimento è anche quello che ha fatto la sua forza, e la sua forza è di essere riuscito prodigiosamente in condizioni che hanno reso il suo successo eclatante, ma senza mezzi politici per l’avvenire, senza potere istituzionale. La maggior parte degli osservatori, compresi i commentatori benevoli, dicono che è stato importante ma che ha fallito. Questo è falso. È stato importante e si è sovranamente realizzato», insomma la vera rivoluzione è quella che compiendosi cambia tutto senza lasciare traccia.
Movimento inoperoso, irripetibile che inserisce una discontinuità radicale nella storia, «più sociale che istituzionale; più esemplare che reale», che distrugge non tanto il passato, ma il presente stesso in cui si compiva e non cerca di darsi un avvenire, estremamente indifferente all’avvenire possibile, come se il tempo che cercava di aprire fosse già al di là di queste usuali determinazioni». Abbiamo raggiunto la fine della storia e la tradizione rivoluzionaria stessa va riesaminata e rifiutata, almeno nella forma finora tramandata: «LA RIVOLUZIONE È DIETRO DI NOI: oggetto già di consumo e a volte di godimento. Ma quello che è davanti a noi e che sarà terribile non ha ancora un nome».
Abbiamo già per intero il personaggio concettuale inedito del désœuvrement, l’inoperosità di Nancy, Esposito, Agamben – eredi della heideggeriana Gelassenheit (abbandono, rilascio della volontà) – messo però in cortocircuito con il tumultuoso divenire degli enti. La formulazione più icastica è quella contenuta, a congrua distanza, nella Communauté inavouable (1983), laddove si parla della presenza dispersa di un popolo che occupa per un attimo tutto lo spazio e insieme il non-luogo dell’utopia annunciando solo la propria autonomia e désœuvrement. Con metafora meravigliosa quel popolo viene paragonato ai figli d’Israele che si riuniscono in vista dell’Esodo, e quindi non per dar vita a una Nazione o a uno Stato, ma dimenticano poi di partire.
Si potrebbe ribattere che le proposizioni di Blanchot colgano in effetti l’esperienza esplosiva ma concentrata del maggio-giugno 1968 parigino, che spezza in due la storia francese, senza raggiungere gli obiettivi dichiarati e senza continuità con i cicli di lotta successivi, pur sconvolgendo la cultura e il costume nell’intero l’Occidente. Gli si potrebbe contrapporre tanto l’anticipazione culturale e politica degli US (controcultura beat e hippie, movimento studentesco, campagne per i diritti civili e potere nero, Black Panthers) quanto il “lungo ’68” italiano, radicato nelle fabbriche e nell’Università, stimolo di profonde riforme strutturali, dotato di forti e originali ramificazioni organizzative e prorogato nel secondo millennio con il femminismo e l’ambientalismo. Del resto, molti processi interrotti o addirittura riassorbiti in chiave neoliberale potrebbero essere letti con altrettanta plausibilità con le lenti della “rivoluzione passiva”.
Tuttavia qualcosa dell’intuizione di Blanchot resta. Per esempio il nostro ’68 vide la persistenza (spesso malsana) di un retaggio organizzativo per forme e temi in continuità con i decenni precedenti, dove si inserivano performance istantanee, da società dello spettacolo, contro le seriose intenzioni di promotori e partecipanti che recitavano episodi del passato rivoluzionario – l’inno di Potere operaio che ricalcava la Warszawianka del 1905, i travestimenti m-l della Rivoluzione culturale maoista, il neo-trotskismo o Lotta continua in versione post-narodnik…
Perfino alcuni momenti del 1977, quando la gestione era passata definitivamente dal movimento estraparlamentare assortito all’Autonomia operaia con relativo slittamento nella composizione di classe, accanto agli scontri feroci con i fasci e le mute sbirresche di Kossiga e malgrado il sangue versato, ebbero un carattere ludico e di rappresentazione teatrale d’avanguardia. Lo ebbero l’animato convegno bolognese sulla repressione del 23 settembre ma perfino la cacciata di Lama dalla Sapienza a febbraio e il corteo armato del 12 marzo, maldestramente rievocato da Bellocchio. Tanto palese era l’inefficacia o la sproporzione fra impegno e messinscena da una parte, esercizio di potere dall’altro, che in parallelo crebbe il partito armato che, con mezzi del tutto tradizionali, cercò di supplire con azioni terroristiche al girare a vuoto dei cortei e della violenza diffusa. Con i risultati rovinosi che divennero evidenti dopo il rapimento Moro.
Non ci attardiamo sull’intreccio sempre più fitto fra rivendicazioni concrete e manifestazioni simbolico-spettacolari nei movimenti del nuovo millennio – dalla contestazione dei vertici mondiali a BLM, dagli scioperi degli intermittenti e dei rider all’epopea fruttuosa dei Gilets Jaunes, dai cortei femministi e ambientalisti alle provocazioni di Extinction Rebellion e Ultima generazione – se non per rilevare che il bilancio in termini di risultati è molto variabile da un Paese altro, con un minimo di successi in Italia. Come per molte parole d’ordine, la destra si è prontamente appropriata dei momenti di metamorfosi e crisi della sinistra, fornendo anzi nel recente biennio gli esempi più clamorosi di manifestazioni di strada pre-insurrezionali senza conclusione stringente, tali da indebolire chi le aveva ispirate e si è ritirato all’ultimo minuto.
Come se la crisi della forma-partito – e di quei movimenti che si erano costituiti in rapporto ostile ma parassitario a essi – avesse ormai contagiato ogni declinazione, a destra e a sinistra, di un sistema istituzionale in stato pre-agonico.
Cionondimanco – per dirla con Machiavelli – vi sono eccezioni in cui la messa in scena performante illumina ma non relega in secondo piano il contenuto materiale, rivendicativo ed effettuale. Penso al grande sciopero francese delle pensioni contro Macron (preparato da una lunga stagione di lotte sindacali e selvagge, di intermittenti, insegnanti, ferrovieri e Gilets Jaunes) e in cui addirittura arrivano a ricongiungersi idealmente quei due cortei e flussi storici sessantottini di operai Cgt e studenti il cui mancato “incontro” era stato denunciato e rimpianto da Althusser e che a volte in Italia si era realizzato malgrado il sabotaggio della vecchia sinistra. Una seconda occasione per il Maggio e per l’autunno caldo, in condizioni e composizioni sociali diverse. Si riapre l’inconcluso del passato. Una “convergenza intersezionale” dagli inequivocabili toni novecenteschi che ben si confà a una stagione non più di consumismo e di pace imperiale ma di impoverimento e di guerra.
Quali prospettive prevarranno è difficile presagire, ma di sicuro stiamo assistendo a un cambio di paradigma sullo sfondo una crisi politica e ambientale accelerata dall’esplosione di una terza conflagrazione mondiale strisciante.
Immagine di copertina da Flickr