ITALIA
La flotta civile, resistenza e solidarietà tra le onde
Dodici navi, sei barche, tre aerei, un centralino. Tanti nemici, migliaia di sostenitori. Nonostante le tempeste politiche le Ong sono ancora «libere di solcare il mare»
Più che a una battaglia navale lo scontro tra governi italiani e organizzazioni umanitarie che da sei anni va in scena nel Mediterraneo centrale assomiglia a una partita a scacchi. Non ci sono sommergibili o incrociatori nascosti da colpire e affondare. Piuttosto ogni mossa serve a mettere all’angolo l’avversario, a impedirgli di proseguire senza rischiare di perdere un pezzo. Pure chi conduce la partita deve rispettare un sistema di regole che non può modificare fino in fondo. Più volte è stato gridato «scacco», in nessun caso era matto.
La cosa giusta
«So di fare la cosa giusta e non ho paura di nulla», ha spiegato al manifesto Anabel Montes Mier, 35 anni, in un’intervista dello scorso novembre. Si trovava sulla Geo Barents di Medici senza frontiere e davanti aveva un divieto di sosta nelle acque territoriali firmato da tre ministri: il primo passo, falso, del governo Meloni contro le Ong. Quella forza generata dalla consapevolezza di essere nel giusto è uno degli ingredienti che hanno permesso alla «flotta civile» non solo di continuare a navigare tra scogli politici e tempeste mediatiche, ma anche di crescere nel tempo. Altri fattori sono il sostegno delle decine di migliaia di persone che finanziano le attività di soccorso e la rigidità delle convenzioni internazionali che tutelano la vita umana a prescindere dai passaporti. Sembrerà strano ma nonostante codici di condotta, campagne diffamatorie, inchieste penali, porti chiusi, sequestri, confische, detenzioni amministrative, quarantene selettive, lunghe attese in mare, divieti di ingresso o transito le imbarcazioni umanitarie continuano ad aumentare.
Battono le bandiere di cinque paesi: Germania, Spagna, Norvegia, Italia e Panama. Alcune svolgono missioni con regolarità, come la Geo Barents che è l’ammiraglia della flotta civile: lunga 77 metri, larga 20, da maggio 2021 ha salvato 5.751 persone in 20 missioni. Altre fanno capo a realtà più piccole, con minori disponibilità economiche e maggiori ostacoli. Come la Aita Mari, a cui a fine novembre le autorità spagnole hanno imposto di rinviare la partenza perché l’eventuale fermo amministrativo avrebbe avuto conseguenze negative su tutta la flotta commerciale iberica.
Sbarco della Life Support, foto di Emergency
Le navi
Nel variegato mondo delle navi ci sono Ong che si concentrano sugli standard operativi e interpretano il soccorso come una questione «tecnica», per esempio Sos Mediterranée che utilizza la Ocean Viking. Altre sono convinte che nel Mediterraneo non si possa distinguere tra umanitario e politico, che salvare i migranti sia di per sé un atto di resistenza alle politiche di frontiera italiane ed europee. Politiche che producono razzismo, violenza, detenzione, morte. Su questa linea troviamo Sea-Watch e Mediterranea, che ha fondi sufficienti per poche missioni ma ogni volta finisce a scontrarsi con le autorità.
Celebre l’ultimatum di giugno scorso al Viminale guidato da Luciana Lamorgese. Era il periodo delle lunghe attese al largo, accettate passivamente dalle altre Ong, e dal ponte della Mare Jonio mandarono al ministero questo messaggio: «Avete dieci ore per organizzarvi, poi entriamo in porto». Dopo nove ore e venti minuti ottennero l’indicazione del luogo di sbarco.
La flotta civile è composta anche da unità più piccole: imbarcazioni veloci e velieri. Nella prima categoria rientrano: Louise Michel, Rise Above e Aurora Sar. A cui si dovrebbe aggiungere nei prossimi mesi la Sea Punks 1. Misurano tra 15 e 27 metri e viaggiano intorno ai 20 nodi (più del doppio delle navi grandi, quasi come delle motovedette). Il loro obiettivo è raggiungere le barche in difficoltà prima delle milizie libiche che danno la caccia ai migranti in fuga dal paese nordafricano.
A completare gli assetti marini ci sono tre velieri: Astral, Imara e Nadir. Questi tendono a rimanere più a nord, lungo la rotta che collega la Tunisia a Lampedusa. Il tratto di mare è più breve ma non meno letale. Ad aumentare i rischi i nuovi barchini utilizzati negli ultimi mesi dai trafficanti, soprattutto per i sub-sahariani: hanno lo scafo di ferro e si capovolgono facilmente. I velieri prendono a bordo le persone solo in casi estremi. In genere cercano di «stabilizzare la situazione», cioè distribuire i giubbotti di salvataggio, chiedere l’intervento delle autorità italiane e attendere che arrivino. A volte seguono i migranti a breve distanza, tenendosi pronti se le cose si complicano.
Aerei e Alarm Phone
Il soccorso civile ha anche occhi e orecchie. Gli occhi sono quelli dei tre aerei: Colibrì 2 (di Pilots Volontaires), Seabird 1 e 2 (di Sea-Watch). Pattugliano il mare dall’alto, riescono a vedere lontano. Svolgono un ruolo importante perché l’area attraversata dai migranti è vastissima, le autorità non comunicano e la sorveglianza aerea dei droni di Frontex non condivide informazioni con le Ong. Secondo alcuni studi, al contrario, i mezzi dell’agenzia europea indicano la posizione dei barconi soltanto ai libici. Anche i velivoli civili subiscono problemi e ostacoli da parte delle autorità. L’ultimo è toccato a quelli di Sea-Watch: divieto di sorvolare l’area di ricerca e soccorso libica, che ricalca la Flight Information region (Fir) di Tripoli.
Ad ascoltare le voci dei migranti, a rendere pubbliche e amplificare le loro richieste d’aiuto, c’è poi il centralino Alarm Phone. Grazie a una rete transnazionale di attivisti, il progetto garantisce dall’11 ottobre 2014 una presenza fissa dietro la cornetta. 24 ore al giorno, sette giorni a settimana. Le telefonate arrivano dalle diverse rotte migratorie: mar Egeo, Mediterraneo centrale e occidentale (tra Marocco e Spagna). A volte persino dall’Oceano Atlantico o dalle frontiere terrestri. Ap ha assistito in totale circa 5mila barche in difficoltà.
Mission Lifeline, foto di Johannes Räbel
La flotta civile
Il 24 agosto 2014 nessuno poteva prevedere che una flotta nata dalla società civile europea, quasi per caso e senza un piano prestabilito, avrebbe riempito per mare e per aria il vuoto lasciato dalle istituzioni. Dall’Italia in primis, che il 31 ottobre di quell’anno mise fine a Mare Nostrum: in 12 mesi l’operazione di marina e aeronautica aveva salvato oltre 150mila persone. E poi dall’Ue, con le sue missioni militari e di Frontex dal baricentro spostato sempre più a nord, proprio per evitare di dover salvare delle vite.
In quel giorno d’estate di otto anni e mezzo fa mollò gli ormeggi la prima nave privata che aveva l’obiettivo di soccorrere i migranti, la Phoenix di Migrant offshore aid station (Moas), un’Ong maltese fondata da due ricchi filantropi. Da allora le organizzazioni umanitarie hanno salvato decine di migliaia di persone. Due esempi: 31mila Open Arms, 35 mila Sea-Watch. Quest’anno tutte insieme hanno portato al sicuro quasi 12mila donne, uomini e bambini.
Negli anni, però, neanche il soccorso civile è riuscito a fermare le stragi che continuano a macchiare di rosso il Mediterraneo. Da gennaio a dicembre 2022 nel Mare Nostrum sono state accertate 1.998 vittime, di cui 1.396 lungo la rotta centrale. Non devono sembrare abbastanza al governo italiano che proprio in questi giorni ha messo a punto una nuova strategia. Lontana dai toni roboanti di Salvini e dalle prove muscolari dei «porti chiusi», ma non per questo meno spietata, si basa su due mosse: dare il porto subito dopo il primo soccorso, assegnarlo lontanissimo. Fino a Ravenna, a 900 miglia nautiche e quattro giorni di distanza.
Le accompagna un decreto che prevede multe, sequestri e confische per chi disobbedisce. In pratica con l’assegnazione istantanea del Place of safety (Pos) il Viminale applica alla lettera le convenzioni internazionali per tradirne lo spirito. L’obiettivo non è salvare vite ma ostacolare i soccorsi, renderli economicamente insostenibili, limitare la presenza delle navi.
IL GOVERNO PIÙ A DESTRA della storia repubblicana rinuncia così a bloccare le odiate Ong ma può gridare, per l’ennesima volta, «scacco». C’è da scommettere che neanche questa volta sarà matto. Che la flotta civile saprà riorganizzarsi nel nuovo scenario. Che ci sarà ancora chi – come l’anonimo protagonista del romanzo Q – potrà dire: «Sono stato tra questi. Dalla parte di chi ha sfidato l’ordine del mondo. […] Passo in rassegna i volti a uno a uno, la piazza universale delle donne e degli uomini che porto con me verso un altro mondo. Un singulto squassa il petto, sputo fuori il groviglio. Fratelli miei, non ci hanno vinti. Siamo ancora liberi di solcare il mare».
Nel caso #Iuventa, meno del 3% dei documenti sono stati tradotti nella lingua nativa dellǝ imputatǝ. Come possono difendersi se non capiscono le accuse contro di loro?
Video di Campagna di @iuventacrew #NoTranslationNoJustice
Riesci ad immaginare di essere in tribunale e non capire la lingua?
Nel caso #Iuventa, meno del 3% dei documenti sono stati tradotti nella lingua nativa dellǝ imputatǝ. Come possono difendersi se non capiscono le accuse contro di loro?
Non sono lǝ solǝ i cui diritti sono violati né quellǝ più colpitǝ. Ogni giorno, in tutta l’Unione Europea, le persone affrontano cause giudiziarie che non vengono tradotte o interpretate adeguatamente, rendendo impossibile per lə imputatə difendersi.
Questa non è solo una violazione sistematica di un diritto fondamentale, ma anche un altro aspetto della guerra dell’UE contro le persone in movimento. Il diritto a un equo processo è un diritto umano fondamentale.
Articolo originariamente pubblicato su “Il Manifesto”
Immagine di copertina di Giansandro Merli