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MONDO
A che punto siamo in Iran?
I numeri parlano di circa 450 morti e circa 18000 persone arrestate in Iran per le proteste degli ultimi tre mesi. Il corpo è stato motore e continua ad essere il fulcro delle rivendicazioni, che arrivano da un movimento in espansione che raccoglie voci eterogenee . Voci collettive e disilluse, stanche della classe politica che perpetua la violenta repressione nel tentativo di zittirle
A tre mesi dalla morte di Jina Mahsa Amini, le proteste non si sono fermate nonostante la repressione che le ha colpite brutalmente. A oggi, il numero delle vittime è circa 450 e circa 18.000 sono le persone arrestate, di cui sono decine condannate a morte per aver messo a rischio la sicurezza nazionale.
Un mese fa, una dichiarazione sostenuta dalla maggioranza dei parlamentari che chiedeva ai giudici di condannare a morte i manifestanti è stata letta ad alta voce in Parlamento e applaudita.
In questa situazione senza speranza, a inizio settimana la stampa nostrana ci ha presentato la notizia secondo la quale la polizia morale sarebbe stata abolita, il tutto mentre sono già iniziati i tre giorni di sciopero in concomitanza del 16 Azar (7 dicembre), ricorrenza nazionale che ricorda il massacro degli studenti che, nel 1953, protestarono contro il presidente statunitense Nixon in visita a Teheran.
A che punto sono le proteste e come si sono evolute in questi tre mesi? Quali sono i limiti e le potenzialità di questo movimento? Come leggere le reazioni del regime?
Le proteste e la politicizzazione del corpo
Siamo di fronte a un movimento che è in grado di organizzarsi e di manovrare spazi e tempi della repressione grazie all’esperienza accumulata nei cicli di lotte e proteste che abbiamo visto negli ultimi 10-15 anni e, nonostante non sia emersa una figura, un collettivo o un’organizzazione egemonica, a guidarlo strategicamente e politicamente.
Le proteste hanno attraversato strade, campus universitari e scuole superiori, e lo stesso hanno fatto le forze dell’ordine, che hanno assaltato scuole superiori femminili, facendo anche vittime, assediato campus universitari e represso sia in maniera indiscriminata, come li abbiamo visti fare nelle piazze e nelle strade, usando anche armi da fuoco, sia in maniera più “chirurgica”, come accade più recentemente nelle stazioni della metro, diventate luoghi di protesta, con il chiaro intento di impedire ai manifestanti di muoversi nelle città.
Le tattiche e l’intensità della repressione, tuttavia, variano a seconda della geografia umana e politica dell’Iran. Nei contesti urbani e nelle aree non abitate da minoranze etniche e linguistiche, infatti, la repressione è meno violenta. Nelle regioni periferiche abitate dalle minoranze, invece, lo stato interviene militarmente, come è successo recentemente nella regione curda, o come è accaduto in Sistan-Baluchistan. La giustificazione del regime è quella di reprimere forze separatiste armate, mentre sappiamo che la violenza di abbatte su civili non armati. Le reazioni da parte dei e delle manifestanti sono state sia di confronto diretto con le forze dell’ordine (come abbiamo visto fare a tante e tanti giovani per strada e nelle scuole), sia indiretto. Una delle azioni più comuni, ad esempio, è quella di creare traffico per rendere più difficile il movimento mezzi delle forze dell’ordine, quindi permettendo a chi manifesta di scappare o muoversi con più libertà.
Abbiamo visto meravigliose espressioni di una politica femminista, radicalmente intersezionale e anti-patriarcale. Abbiamo visto come il corpo e le sue funzioni – siano queste riproduttive, performative, affettive – è stato politicizzato in modo collettivo e radicale.
I corpi delle manifestanti e dei manifestanti, in questi mesi, sono stati al centro delle proteste: li abbiamo visti ballare, inscenare vere e proprie coreografie con falò dove i veli venivano bruciati e, soprattutto (come ci ricorda L in questo articolo e Asef Bayat in questa intervista), abbiamo visto una simbologia crearsi attorno al corpo nelle strade, in movimento e impegnato negli scontri con la polizia, in comunione politica, quindi, con altri corpi.
A parte l’esoticizzazione dei commentatori occidentali, il video della ragazza che si lega i capelli biondi in una coda di cavallo in preparazione agli scontri con la polizia crea un’iconografia politica che mobilita significati molto potenti. Le immagini circolate sui media di ragazze che si baciano, di bandiere arcobaleno e trans, di slogan nei dormitori universitari che lanciano messaggi come “questa è la voce di LGBTQ” e “liberazione queer e trans”, e di assorbenti usati per censurare le telecamere di sorveglianza nella metro di Teheran ci raccontano di come il corpo sia politico e collettivo.
Si tratta quindi di espressioni e messaggi che vanno a colpire il cuore dello stato, fondato sull’idea che il corpo delle donne vada espropriato a vantaggio dello stato, dei padri, dei mariti, dei fratelli, e reso simbolo della forza e dell’onore di questi. Da canto loro, padri, mariti e fratelli non hanno altre opzioni se non quella di adempiere al ruolo assegnato loro. La politicizzazione del corpo, dell’amore del desiderio di poter essere altro, quindi, serve a rivendicare l’essere soggettività politica autonoma. Si tratta di espressioni di una politica che mette sì al centro il corpo delle donne ma che è in grado di tenere insieme dimensioni diverse. Abbiamo infatti visto espressioni di una solidarietà intersezionale che ha saputo leggere l’intreccio tra razzismo, classismo e sessismo. Le moltissime espressioni di solidarietà transnazionale e trans-regionale, infatti, hanno proprio messo al centro come non esista la possibilità di isolare un’oppressione da un’altra.
Immagine di una telecamera oscurata da assorbenti, da Twitter di Vahid Online
Espansività ed egemonia
In questo momento, il movimento vive una fase espansiva. Questa è certamente incerta (chi guida il movimento? Chi decide strategie e richieste?), ma è in grado di contenere – e accomodare ideologicamente – diverse tradizioni di pensiero e genealogie politiche. Vediamo il movimento di liberazione curdo operare fianco a fianco, almeno idealmente, con i lavoratori e i sindacati informali attivi nel settore petrolchimico, dell’educazione, del trasporto; e questi, a loro volta, si sostengono tra di loro e appoggiano e mettono in primo piano la questione dei diritti delle donne e si muovono insieme ai commercianti, in sciopero in moltissime città del paese. Di questo quadro espansivo fanno parte anche le organizzazioni studentesche che sono state, e ancora sono, fondamentali nel lavoro di coordinamento delle mobilitazioni, nonché di analisi e che sono in questi giorni le protagoniste di azioni e manifestazioni.
Molte organizzazioni studentesche hanno una storia di collaborazione – sebbene intermittente e certamente non negli ultimi anni – con le fazioni riformiste e più liberali della classe politica, per le quali ad esempio nel 2016 hanno fatto campagna elettorale, nella speranza di scongiurare la vittoria elettorale delle fazioni più autoritarie. Si tratta quindi di un movimento che include molteplici storie e tradizioni di pensiero e di azione politica, che nel corso degli ultimi decenni hanno, tra di loro, avuto duri scontri ideologici che si sono articolati sulle coordinate dell’appartenenza di classe e al sistema, della provenienza geografica e del razzismo persiano-centrico (non a caso, l’espressione “Persian supremacy” sta acquistando popolarità e viene sempre più usata perché in grado di descrivere un fenomeno socio-politico reale).
Quello che tiene insieme questi mondi è uno spazio di agibilità politica risultato da un processo di radicalizzazione che ha interessato negli ultimi 10-15 anni tutti i movimenti sociali e molti e diversi segmenti della popolazione. Infatti, quello che contraddistingue le proteste oggi è la loro direzione rivoluzionaria e il fatto che chi protesta pare aver superato l’idea che il sistema sia riformabile e che, nella classe politica, ci sia qualcuno disposto a dialogare. In questo quadro, ci sono stati dei tentativi da parte di rappresentanti delle fazioni riformiste di porsi come “mediatori” attraverso petizioni, lettere ai giornali e interventi sui quotidiani. Rimangono, tuttavia, due problemi. Da un lato, la poca fiducia che questi riscuotono presso la popolazione e certamente presso chi protesta, dall’altro il fatto che essi restano esclusi da posizioni di rilievo e che, quindi, hanno poco potere e credibilità come mediatori presso le fazioni più interne al regime.
La radicalizzazione e la scarsa inclusività del sistema, persino a livello della classe politica, sono il risultato di un’involuzione autoritaria che, dal 2009, ha interessato il paese a tutti i livelli.
L’espansività del movimento al momento non pare essere guidata da una leadership, collettiva o meno, chiara. Mentre questo può essere un vantaggio in quanto permette maggiore diversificazione, dall’altro lato rende il movimento più vulnerabile alla repressione e ai tentativi di cooptazione che abbiamo visto in questi mesi. Un esempio è Massy Alinejad, presentata come la leader se non l’iniziatrice del movimento e personaggio che in Iran raccoglie poco consenso; altro esempio sono i Mujaheddin del popolo nelle loro molteplici forme, quali l’Associazione dei rifugiati politici iraniani in Italia, o l’Associazione dei giovani iraniani in Italia, organizzazione con nessun seguito in Iran e nessuna legittimità interna al paese. Eppure, non solo vediamo molto attivismo da parte loro nell’imporre la propria leadership su un movimento che non li riconosce, ma vediamo anche i media aiutarli in questo. È infatti importante chiedersi, nell’assenza di leadership, quali voci nella diaspora vengono prioritizzate, perché, e quali narrazioni delle proteste propongono.
Questa situazione, inoltre, è caratterizzata dalla presenza in carcere di numerose intellettuali e leader politiche, la cui voce e il cui lavoro avrebbe potuto dare direzione al movimento. Prigioniere politiche come Nasrin Sotoudeh, Nargues Mohammadi e la meno conosciuta Zeynab Jalalian hanno ovvie difficoltà a far trapelare la loro voce fuori dal carcere, ma stanno portando avanti, anche in carcere, forme di lotta connesse alle proteste di questi mesi, pur nell’indifferenza dei media. Fuori dal carcere intanto, il movimento tenta di dotarsi anche di un apparato intellettuale. Resta tuttavia da capire quanto questo movimento sia interessato e disposto a confrontarsi con la produzione teorica e politica che ha caratterizzato i cicli di lotta anti-patriarcale in Europa, America del Nord e Latina, considerando che le tradizioni di pensiero postcoloniale e decoloniale sono viste con sospetto da chi si oppone al regime, poiché questo se ne è sempre servito in maniera strumentale e che concetti come intersezionalità sono visti con sospetto da alcune leader femministe storiche.
Il prezzo della “messiness of governance”
La Repubblica islamica viene spesso vista come un sistema monolitico senza sfumature. La vita in Iran è invece piena di contraddizioni a causa di quella che Nazanin Shahrokni e Spyros A. Sofos hanno chiamato la “messiness of governance”: luoghi segregati per genere convivono e si sovrappongono a luoghi dove non esiste nemmeno la possibilità di creare una distanza fisica minima tra donne e uomini, creando per chi vive e si muove in Iran la costante necessità di negoziare convinzioni personali, bisogni concreti e doveri teorici. Le giovani iraniane e iraniani crescono con una socialità imperniata sulla celebrazione di giovani uomini e donne che hanno dato la vita per combattere contro le ingiustizie e che vengono presentati come esempi viventi da seguire. Non è quindi strano che in Iran si protesti molto e che esista una grande tolleranza per ambiguità e contraddizioni. Recentemente, viste le proteste, la televisione di stato ha cominciato a usare immagini di donne iraniane non velate. La flessibilizzazione dei codici morali e culturali non è cosa nuova in Iran (come non lo è altrove) e nello stesso modo vanno lette le ambigue dichiarazioni del procuratore generale Montazeri circa la dissoluzione della polizia morale e quelle precedenti del parlamentare Ali Larijani sullo stesso tema.
Non basta, tuttavia, dire che ci sono disaccordi nella classe politica iraniana per sostenere che la Repubblica islamica, dopotutto, è meno peggio di come ce la immaginiamo. Mentre la classe politica cerca una via di fuga che le permetta però di non “perdere la faccia”, ovvero cerca di capire quali siano le coordinate della flessibilità in questo contesto, le proteste vanno avanti e sale il numero delle vittime, delle persone arrestate e condannate a morte.
Pur mappando le reazioni della classe politica, come dice Azadeh Pourzand, l’attenzione deve rimanere sulle violenze perpetrate dallo stato e sulla complicità della comunità internazionale, Italia in testa, che fornisce all’Iran le munizioni per le armi usate durante la repressione.
Paola Rivetti è docente presso la Dublin City University. Ha scritto, tra le altre cose, Political participation in Iran from Khatami to the Green Movement (2020). Ringrazia Gennaro Gervasio e Sara Borrillo per la possibilità di discutere parte dei contenuti di questo articolo presso l’Università Roma Tre e l’Università di Tor Vergata.
Immagine di copertina da Openverse di Gwenaël Piaser