ITALIA
Il crollo dell’Università di Cagliari
Come un cielo nuvoloso genera necessariamente fulmini. Di come è crollata un’aula magna nell’università sarda e le giustificazioni ridicole che vengono date
Il 18 ottobre, alle 21.45, un edificio del campus umanistico dell’Università di Cagliari è imploso su se stesso; i due piani che fino alle 19 erano occupati da studenti e lavoratori dell’ateneo sono crollati sotterrando di macerie l’Aula magna della Facoltà di Studi Umanistici.
Nella notte del crollo il Rettore dell’Università di Cagliari, Francesco Mola, ha dichiarato: «Questo è stato un fulmine a ciel sereno». A ciel sereno può scrostarsi l’intonaco, può cadere un pezzo di muro, ma sicuramente un edificio non può cadere su se stesso come se fosse stato colpito da un missile.
Fino a poche ore prima l’Aula magna Vardabasso ospitava una lezione. In aula gli studenti e la docente hanno sentito dei rumori, le prime incomprensibili avvisaglie di un disastro che stava per realizzarsi; ciò rende in maniera inequivocabile l’entità della tragedia sfiorata. Sarebbe stata una strage senza precedenti in Italia, paragonabile solo a un terremoto. Ma qui non si tratta di una catastrofe naturale.
Sempre il Rettore dà a intendere che l’Università effettua controlli periodici sulle sue strutture, poi però si viene a scoprire che questi controlli sono solo controlli a campione; perciò ci si affretta a cambiare i regolamenti per salvare le apparenze. Il plesso di Geologia era stato riaperto recentemente dopo lavori durati più di un anno; ci si chiede come, dopo aver effettuato questi lavori, si sia potuto verificare un evento del genere.
L’Università smentisce: i lavori non hanno interessato quel corpo aggiunto di geologia, perché era stato valutato “sicuro”. Eppure risulta che le crepe erano state segnalate e che queste segnalazioni sono state bellamente ignorate.
Il giorno dopo il crollo gli studenti dell’ateneo vanno sotto il rettorato per chiedere conto a Mola del “fulmine a ciel sereno”, non vengono ascoltati e raggiungono in corteo il Polo di Studi Umanistici, dove è avvenuto il crollo. Gli studenti dei corsi di laurea in Lingue, che erano stati spostati dall’Ex Clinica Aresu, anche per problemi strutturali, nei locali dell’Ex Facoltà di Geologia, si ritrovano senz’aule.
Sin da subito si è sentita una voce pressoché unanime: «Non vogliamo la didattica a distanza». Negli anni della pandemia, nonostante non ci fossero servizi di alcun tipo, gli studenti hanno continuato a pagare tasse salatissime. Perché dobbiamo pagare? Dove vanno a finire i nostri soldi? Sicuramente non nell’edilizia e nel diritto allo studio, visto che dal 2019 varie mobilitazioni hanno denunciato le condizioni pietose di Case dello studente e mense, risultato della progressiva erosione del diritto allo studio.
Qui sta il punto: l’Università è un’azienda, anzi, un’azienda che non funziona. Le politiche di privatizzazione, di taglio al diritto allo studio, di spoliticizzazione dell’Università, creano un cielo tutt’altro che sereno, che necessariamente genera fulmini, che, anche quando non fanno vittime, fanno danni.
«Perché protestate per la scuola o per l’università? Ringraziate perché in altre parti del mondo vi crollerebbe il tetto in testa» – così vengono apostrofate le proteste studentesche dai benpensanti secondo i quali la “sicurezza” è uno dei valori fondanti all’interno delle società occidentale. Nella parte fortunata del mondo ogni protesta che esuli dai bisogni fondamentali è squalificata da questa presunta garanzia fondamentale.
Ma cosa succede quando anche la sicurezza viene intaccata in maniera così evidente e radicale? Tutto viene ridotto ad un problema tecnico-amministrativo, ogni spiegazione politica, ma anche semplicemente riferita al funzionamento organico dell’Università viene accuratamente evitata. Ad esempio, non serve una laurea per capire che gli appalti pubblici al ribasso comportano una perturbazione decisiva della tenuta dell’edilizia universitaria, che si regge su interventi di tamponamento volto più a curare l’estetica che la sostanza. Non serve una laurea per capire che è più probabile che un evento simile accada a Cagliari piuttosto che a Milano.
Questo crollo fornisce molti elementi per capire il livello di avanzamento e di irreversibilità di processi sicuramente già noti. Il richiamo agli esperti, siano architetti o magistrati, è del tutto strumentale; la scienza e il diritto sono mere giustificazione ideologiche. L’Università, che più di ogni altra istituzione dispone degli strumenti tecnico-culturali, affronta la questione in maniera del tutto casuale, su pressione delle contingenze economiche e politiche.
I professori e gli studenti che, secondo una certa sinistra intellettualistica, dovrebbero essere la parte più “dinamica”, ovvero più capace di reagire a determinate situazioni, non riescono assolutamente ad affrancarsi da un meccanismo per cui il susseguirsi di lezioni ed esami non può arrestarsi, ma al contrario, è ancora più apprezzato e serrato in una situazione di “disastro”.
Quando un edificio viene lasciato all’incuria rischia di diventare non ristrutturabile, perciò va abbattuto e ricostruito dalle fondamenta, o comunque nelle sue componenti portanti. L’Università sembra uno di questi edifici e la sua “sovrastruttura” è forse messa peggio delle sue strutture fisiche, il che è tutto dire.