EUROPA
Francia, verso l’Halloween dei padroni, niente dolcetti!
Coesione di classe e convergenza delle lotte nella grande mobilitazione francese di questi giorni. Nessuna paura nelle rivendicazioni e negli slogan
Ecco uno dei meme siglati CGT che circolano in questi giorni: «Per Halloween, fai paura al tuo padrone: sindacalizzati!».
Immaginiamo per un momento l’inimmaginabile, che questo succedesse in Italia. Settimane di polemiche, con conseguente licenziamento in tronco del* stagista che ha avuto una “trovata infelice” e profusioni di scuse da tutti i vertici del sindacato. Eppure qui, dall’altra parte delle Alpi, lo troviamo su tutti i social network e i canali Telegram che lo rilanciano instancabilmente. Niente scuse, ma un’idea precisa di sindacalismo e una società sempre più politicizzata che non ha alcun problema a porsi come obiettivo il messaggio del meme, né a rivendicarselo sui posti di lavoro come sui social network.
Il meme può essere anche spiegato con lo stile senza peli sulla lingua della politica della sinistra francese. È il caso per esempio dello stesso Philippe Martinez, considerato generalmente come “la destra” della CGT, che ha definito «una stronzata» la decisione del governo di procedere a una requisizione di massa nel comparto energetico.
Un termine che tradotto così potrebbe far pensare a perquisizioni o ammende pecuniarie. In Francia, si traduce più precisamente nel fatto che gli agenti si presentano nelle case di lavorat* per minacciarli di presentarsi al lavoro all’indomani, pena un processo penale e una multa salatissima oltre che un licenziamento in tronco. Questa è la realtà dei rapporti di lavoro in Francia e dei livelli di violenza istituzionale. Che messi all’interno di rapporti di forza politici non sono certo sufficienti ad arrestare delle mobilitazioni che, in questo autunno, sembrano registrare un nuovo ciclo.
Tentativi di convergenza
Domenica 16 ottobre e il martedì successivo centinaia di migliaia di persone in mobilitazione in tutta la Francia. Ma la storia ha un epilogo che data al 22 luglio. È il giorno in cui il gruppo petrolchimico TotalEnergies annuncia un abbassamento dei prezzi sulla benzina a partire dal primo settembre.
Si tratta evidentemente di una manovra commerciale che, facendo man bassa sulla fragilizzazione del potere d’acquisto de* francesi, prova a sbaragliare la concorrenza. Da lì in poi code alle pompe di benzina che si faranno pian piano chilometriche fino a metà settembre.
Risultato, un effetto a catena: aumento esponenziale del lavoro per i/le benzina*, quotidianamente minacciat* nelle stazioni di servizio; aumento altrettanto esponenziale per i/le lavorat* nelle centrali di estrazione e nelle raffinerie per fronteggiare l’aumento della richiesta di carburante. Aumenti a cui non risponde alcuna modifica in positivo dei salari, mentre ritmi e condizioni di lavoro diventano sempre peggiori.
È su questa contraddizione che i sindacati francesi puntano, rivendicando salari migliori oltre che un piano di assunzioni per alleggerire il peso del ritmo del lavoro quotidiano. È da notare che nelle tre settimane precedenti allo sciopero del 18 ottobre, più di una stazione di servizio su quattro era chiusa per sciopero mentre lavoratrici e lavoratori hanno incrociato le braccia nelle principali centrali elettriche e raffinerie.
Alla voce dei sindacati settoriali si è aggiunta quella di una larga fetta della forza lavoro francese, che rivendica riforme sociali e in materia di lavoro che rispondano strutturalmente alla crisi socioeconomica innescata dall’inflazione, risultato a breve termine del conflitto russo-ucraino. Un effetto a catena alimentato anche da un forte senso di responsabilità di classe di fronte alle réquisitions.
Anziché arrestare il propagarsi della mobilitazione, l’impiego di questa misura coercitiva e punitiva ha rinforzato i legami di classe. Che hanno dimostrato allo stesso tempo un salto qualitativo in termini di mobilitazione. La risposta è stata compatta. Per la prima volta da anni, le manifestazioni convocate dalle forze politiche (Marche contre la vie chère, 16 ottobre) hanno superato e non di poco la partecipazione dello sciopero sindacale (18 ottobre). Le cifre parlano chiaro – 140mila persone solo nella capitale domenica contro 200mila in tutto il paese il martedì successivo: 70mila il corteo parigino, circa metà del primo.
Domenica, alla testa del corteo assieme alla neo-premio Nobel Annie Erneaux, Jean-Luc Mélenchon ha dichiarato: «Con ciò che stiamo facendo oggi, con le numerose organizzazioni che vi aderiscono, stiamo tracciando la costruzione di un nuovo Front Populaire che eserciterà il potere nel suo paese quando verrà il momento. E che, come ogni volta, comincerà occupandosi del popolo povero, di quelli che patiscono e non possono difendersi».
La marche contre la vie chère (marcia contro il carovita) ha così posto le basi per delle ipotesi di convergenza a venire. E questo non solo in termini, importanti, di partecipazione, ma anche e soprattutto attraverso un avanzato programma rivendicativo.
Al primo posto spicca la rivendicazione dell’aumento dei salari, così come del minimo salariale, e contro la riforma degli assegni di disoccupazione, la cui durata è continuamente erosa a colpi di tagli. Si chiede anche l’introduzione di un tetto ai prezzi di elettricità e beni di prima necessità, così come il congelamento degli affitti. C’è inoltre la richiesta di una tassazione immediata e retroattiva dei superprofitti di multinazionali come Total, che garantirebbero fra l’altro una parte delle coperture finanziarie per la transizione ecologica. C’è infine un’altra convergenza con i sindacati: opporsi al progetto macroniano di portare l’età minima pensionabile a 65 (che in Italia, per la riforma Fornero, è a 67 anni). Non si tratta però di difendere lo status quo del minimo fissato a 62 anni dalla legge precedente, ma di abbassare la soglia a 60 anni. La Nupes ha rilanciato la proposta di un reddito per lo sviluppo dell’autonomia de* giovani a partire dai 18 anni.
Il governo e la maggioranza hanno speculato sulle divisioni interne fra i sindacati, cercando di indebolire lo sciopero. Un’operazione che ha parzialmente funzionato, trasformando quello dello scorso martedì in uno sciopero conteso e non unitario, che rivela una disunione tra sindacati. Il principale sindacato del Paese, la CFDT (Confederazione francese del lavoro), ha siglato un accordo con Total che prevede l’aumento dei premi di produzione del 7% – dai 3 ai 6mila euro.
Mentre la CGT ha spinto per un aumento diretto dei salari, quindi una misura universale per l’intero comparto, del 10%. Lo scenario dello scontro sindacati-governo è più contraddittorio di quanto possa sembrare a prima vista. Ne è un indizio la compattezza nel fronte sindacale nell’opporsi alla riforma delle pensioni che Macron in ogni caso vuole portare a compimento, come annunciato in campagna elettorale.
«Senza palle»
Siamo davanti, in Francia, ad un padronato più spietato che mai, che si esprime ad esempio nelle parole di Gaspard Proust, azionista di Total, secondo cui gli aumenti dei salari equivarrebbero letteralmente a dei «dividendi dei senza palle». I dividendi, si lamenta il prode azionario di Total, sarebbero «i salari di chi ha osato assumersi il rischio di perdere eventualmente tutto investendo in una società». Se non fosse chiaro, stiamo parlando del coraggio degli azionisti di una multinazionale di fronte alla “fortuna” di esserne lavoratori, ovvero benzinai nel migliore dei casi o operai nelle raffinerie, nel peggiore.
Proust non è il solo; a fargli compagnia un altro delirante editoriale per “Les Échos” di Olivier Babeau, presidente dell’Istituto Sapiens, intitolato Elogio dei dividendi. L’occhiello è un programma: «Il dividendo non è soltanto un grimaldello per lo sviluppo delle nostre imprese, e dunque della prosperità collettiva. È anche un buon affare per lo Stato». Per lo Stato macronista, certo.
Nel mondo reale, quello fatto di rapporti sociali di produzione e di relazioni sociali che ne riproducono le condizioni di possibilità, regge ancora la ferrea legge del determinismo sociale.
Come mostra l’INSEE (Istituto nazionale della statistica e degli studi economici), «gli investimenti negli attivi rischiosi dipende principalmente dal proprio patrimonio finanziario di partenza». Cifre alla mano, l’equazione è tratta: per il 2018, il 76% dei trasferimenti finanziari in questione sono effettuati dall’un percento, che non per caso appartiene alla classe dominante già dotata di patrimoni finanziari.
È il risultato della flat tax macroniana, introdotta nello stesso 2018, che configura un prelievo fiscale al 30% (12,8 per le imposte sul reddito, più tasse “sociali”). Questi dati offrono uno scenario possibile degli effetti di una flat tax del governo Meloni in Italia.
La forza degli studenti
In questo clima, la CGT ha costruito una piattaforma rivendicativa per l’aumento dei salari per tutto il mondo del lavoro, aprendosi a una convergenza con gli/le student*: «il movimento degli istituti professionali, già deciso per questo martedì 18 ottobre, si iscrive in questa dinamica», si è letto nel comunicato che ha indetto lo sciopero. Studentesse e studenti, d’altronde già mobilitati ad esempio a Nanterre e Paris8 da mesi per garantire l’accesso nelle università dei sans-fac (sans papiers che appunto si vedono sbarrato questo diritto), hanno colto l’occasione per rilanciare una piattaforma studentesca.
Solidaires étudiant.e.s rivendica l’aumento delle borse di studio e dei salari, attraverso la loro indicizzazione sull’inflazione; l’estensione universale dei pasti a un euro nelle mense universitarie; degli investimenti consistenti nel sistema sociale universitario così come nelle singole facoltà; l’istituzione di un salario studentesco; la difesa delle libertà sindacali.
In questo caso, la strategia per impedire la partecipazione studentesca è stata più rude. Nella scorsa settimana, gli/le student* del liceo Joliot-Curie di Nanterre hanno protestato per la reintroduzione di «progetti di accompagnamento alla riuscita scolastica», d’altronde appoggiati dal municipio.
La risposta è stata la militarizzazione dell’istituto e delle vie adiacenti per un’intera settimana, che hanno saturato il quartiere di lacrimogeni e flash-ball. Anziché erodere la partecipazione studentesca alle giornate del 16 e del 18 ottobre, quest’ultima si è estesa a macchia d’olio anche fra i giovanissimi.
Nella mattinata dello sciopero intercategoriale, fa sapere Cerveaux non disponibles (uno dei media nati dall’esperienza dei gilets jaunes), sono stati ben 500 i licei «bloccati» dagli studenti. Facendo salire così le tensioni già da ore prima dell’inizio del corteo. Ad esempio, al liceo Voltaire di Parigi si sono verificati episodi di violenza della polizia anche contro il corpo professori. Come fa sapere il comunicato delle sezioni dei diversi sindacati (SNES, Sud Solidaires, CGT e FO) dello stesso liceo, «la polizia è intervenuta mentre la folla si stava spostando, arrestando uno studente del liceo che era rimasto indietro rispetto agli altri».
Altri due studenti sono stati arrestati cadendo in una trappola: la loro colpa è stata andare da soli a chiedere spiegazioni dell’arresto. «Nello stesso tempo», continua il comunicato de* lavorat* del liceo, «i poliziotti hanno sparato lacrimogeni addosso ai liceali e anche ai professori che li accompagnavano a chiedere la liberazione dei propri compagni».
Manovre di governo
La ricerca di accordi paralleli con alcuni sindacati, misure coercitive contro lavorat* in sciopero e repressione spietata contro liceali e universitari, sono segni più che evidenti del problema di Macron con i concetti di “dialogo sociale” e “concertazione”. Ulteriore elemento è che questo problema sia portato dentro le istituzioni più alte dello Stato, in cui il governo cerca di disattivare d’un colpo le opposizioni (Nupes soprattutto).
A una settimana dallo sciopero (12 ottobre), Macron ha dichiarato: «nella fase in cui ci troviamo, bisogna essere uniti e solidali. Non posso immaginarmi neanche per un solo istante che la possibilità di riscaldarci, usare l’elettricità, andare a fare benzina, sia indebolita da dei francesi che diranno “no”, per difendere i miei interessi, comprometterò quelli della nazione». Dichiarazione che fa il paio con quella della prima ministra Élisabeth Borne, che marca quindi una continuità anche dopo lo sciopero: c’è bisogno di «responsabilità nazionale».
Il pomo della discordia è la finanziaria, che il governo vorrebbe far passare a colpi di legge d’eccezione, grazie al comma 3 dell’articolo 49 della Costituzione. Si tratta di uno dei punti problematici della quinta Repubblica francese.
Nello spirito di Michel Debré, redattore della Costituzione del 1958, l’articolo si giustificava come strumento di difesa dell’esecutivo: «L’esperienza [della quarta Repubblica] ha portato a prevedere inoltre una disposizione in qualche modo eccezionale per assicurare, malgrado le manovre, la votazione di un testo indispensabile».
La legge dota il governo, in materia di leggi ordinarie, della facoltà di tagliare gli emendamenti, solo una volta in un’intera sessione parlamentare (dal primo ottobre al primo giugno). Ciò non vale per le leggi in materia di sicurezza nazionale e di sicurezza sociale, dove invece il dispositivo può essere usato senza misura.
Il copione si è ripetuto giovedì 20 ottobre. Il governo, sempre attraverso il comma 3 dell’articolo 49 della Costituzione, ha imposto la legge sulla previdenza sociale, per fronteggiare le minacce di sciopero da parte de* lavorat* dei laboratori d’analisi. Non va dimenticata, in questo contesto, la mobilitazione di studentesse e studenti di medicina contro l’aggiunzione di un quarto anno di apprendistato di medicina generale, che non fa altro che aumentare il periodo obbligatorio di precariato per chi voglia intraprendere la professione. Tracciando così un ulteriore criterio di selettività socioeconomica all’accesso alla sola possibilità di cominciare un percorso di studi nel settore.
La risposta dei deputati di NUPES è stata l’abbandono dell’aula parlamentare, rimbrottati con un provocatorio «che spettacolino!» dai seggi di maggioranza. Mathilde Panot ha dichiarato: «Oggi, con la 49.3, non sono le opposizioni che rifiutano di votare il budget. È il governo che rifiuta di votarlo con il Parlamento». E ad André Chaissagne del PCF di aggiungere: «Fino a ieri sera, ci dicevano che bisognasse discutere. Alla brutalità, hanno aggiunto la menzogna!».
Una storia già scritta, scrivono su Médiapart, perché «anche i più idealisti fra i macronisti hanno compreso immediatamente, quest’estate, che non ci sarebbe stato alcuna finanziaria senza un ricorso allo stato d’eccezione».
Eppure, dei 94 emendamenti presentati e accettati dal governo, ben 75 provengono proprio dallo stesso governo o dalla sua maggioranza. Si tratta, ad esempio, dell’aumento del tetto massimo di profitti da 38 a 42.500 euro perché le imprese possano accedere alla riduzione delle imposte al 15%; esonero, sempre per gli imprenditori, dal pagamento dei contributi per i buoni mensa (si tratta di ben 140 milioni in meno nelle casse dello Stato); estensione di benefici fiscali supplementari a vedov* di morti in guerra (altri 133 milioni gettati al vento della propaganda, sempre più nazionalista).
Problema che investe tutte le rivendicazioni politiche, sociali e sindacali, già dalla battaglia contro la riforma del lavoro (Loi travail) varata durante il quinquennio di François Hollande (PSI) nel 2016. «Ci trattano come degli zerbini», ha aggiunto Chaissagne (PCF).
Immagine di copertina da pagina fb di CGT