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MONDO

L’eredità degli insediamenti maoisti e le rivendicazioni dei nativi nella Cina nordoccidentale

Seppure lo spirito rivoluzionario della Repubblica Popolare Cinese (RPC) è stato inquadrato dai discorsi della liberazione e dalla retorica della solidarietà antimperialista, il PCC dominato dagli Han ha comunque ereditato e intensificato il controllo sulle terre ancestrali dei gruppi di lingua non cinese più grandi del paese, cioè i tibetani e gli uiguri

Fin dalla sua nascita, lo spirito rivoluzionario della Repubblica Popolare Cinese (RPC) è stato inquadrato dai discorsi della liberazione e dalla retorica della solidarietà antimperialista. La fondazione della RPC si colloca in opposizione al retaggio dell’imperialismo europeo e giapponese e alle disuguaglianze radicate nell’epoca moderna della fine della dinastia Qing e dell’era repubblicana. Come per l’URSS, la Cina si è posta come uno stato postcoloniale. Ma nonostante queste rivendicazioni e gli sforzi profusi dai leader maoisti per la promozione della solidarietà multi-nazionale e i moniti contro lo sciovinismo Han, il PCC dominato dagli Han ha comunque ereditato e intensificato il controllo sulle terre ancestrali dei gruppi di lingua non cinese più grandi del paese, cioè i tibetani e gli uiguri. Questo ha portato a uno stato di insediamento coloniale (settler state) nell’Asia interna durante l’era maoista e quando la Cina è passata poi a essere un nodo centrale dell’economia globale negli anni Ottanta e Novanta, questo progetto nell’Asia interna si è evoluto a includere sempre più molte delle caratteristiche del colonialismo interno di insediamento  (internal settler colonialism) . Allo stesso tempo, la perdurante eredità maoista del “socialismo di insediamento coloniale ” (settler socialism) — termine che prendo dal lavoro di Grace H. Zhou —  ha funzionato come ulteriore elisione delle attuali rivendicazioni di autonomia e conoscenza degli Uiguri e delle altre popolazioni di frontiera.

La RPC è stata fondata sull’eredità imperiale del tardo impero Qing. Mentre alcuni aspetti delle politiche imperiali del primo periodo Qing sono stati conciliatori e centrati sulle alleanze con le popolazioni dell’Asia interna, la RPC ha ereditato la più recente tradizione Qing, a guida Han, della violenza di massa portata avanti dagli eserciti di Zuo Zongtang negli anni Settanta dell’Ottocento, della presa delle istituzioni turcofone basata sulla cultura confuciana e delle deportazioni di massa e gli insediamenti di popolazioni sia Han sia turcofone nella regione. Quando viene lanciata la campagna di liberazione nazionale negli anni Cinquanta del Novecento con l’obbiettivo di radicare i sistemi statali del PCC,  le sue strutture amministrative e adattare istituzioni già esistenti quali scuole, media, e strutture delle autorità comunali per promuovere i valori centrali del Partito, il retaggio delle passate espropriazioni e del passato dominio, spesso non riconosciuti come tali, hanno svolto un ruolo, sotto certi aspetti, di forzare gli uiguri a ricevere la liberazione. 

Anche le politiche difensive di edificazione dello stato della nuova Repubblica Popolare hanno contribuito a smorzare una liberazione autonoma degli Uiguri. La conversazione del 1949 fra Stalin e il vice premier di allora, Liu Shaoqi, è particolarmente istruttiva, Stalin infatti espone la necessità per la Cina di occupare il Xinjiang al fine di assicurarsi il petrolio e il cotone contro l’imperialismo britannico.

Così disse Stalin: «Non bisogna rimandare l’occupazione del Xinjiang, perché un ritardo potrebbe portare all’interferenza degli inglesi negli affari del Xinjiang. Potrebbero attivare i musulmani, compresi quelli indiani, per continuare la guerra civile contro i comunisti, cosa questa non auspicabile, perché nel Xinjiang ci sono grandi giacimenti di petrolio e cotone, di cui la Cina ha estremo bisogno. La popolazione cinese nel Xinjiang non supera il 5%, dopo aver preso lo Xinjiang si dovrebbe portare la percentuale di popolazione cinese al 30% attraverso il reinsediamento dei cinesi per lo sviluppo integrale di questa enorme e ricca regione e per il rafforzamento della protezione dei confini cinesi. In generale, nell’interesse di rafforzare la difesa della Cina, si dovrebbero popolare tutte le regioni di confine con la popolazione cinese».

Quindi, da una parte la Repubblica Popolare si è sforzata di istituzionalizzare un socialismo uiguro, ma fin dall’inizio le risorse delle terre ancestrali degli Uiguri e dei Kazaki sono appartenute al Partito-Stato e sono state subordinate alle necessità della rivoluzione guidata dalla maggioranza Han.

Quando negli anni Cinquanta si vengono a  stabilire nella regione un arcipelago di colonie agricole e militari guidate dagli Han, l’insediamento di quelle terre da parte di soldati smobilitati e altri portò a quella occupazione invocata da Stalin. Alla fine del decennio, gli Uiguri e i Kazaki che avevano conoscenze tradizionali (considerate come superstizioni controrivoluzionarie o come “nazionalismo locale”) vengono rimossi dalle posizioni di potere che avevano nella guida delle comunità e ci si concentra sulla modernizzazione scientifica a base Han. È il periodo in cui la conoscenza nativa uigura o yerlik, termine su cui tornerò nella seconda parte di questo saggio, viene considerata come retrograda e necessitante della civilizzazione scientifica “avanzata” della maggioranza Han.

Questa perdurante presenza di aspetti imperialistici nel dominio cinese dell’Asia interna ha portato me e un certo numero di altri studiosi impegnati sui temi della decolonizzazione e dell’antirazzismo a considerare, in parallelo a Grace Zhou, il Xinjiang, il Tibet, la Mongolia interna e l’Asia centrale dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta come spazi di socialismo di insediamento coloniale (spaces of settler socialism) .

Questo quadro interpretativo lo considero sia come un riconoscimento della promessa non mantenuta della rivoluzione maoista, sia come un riconoscimento dell’occupazione, del dominio e dell’espropriazione emergenti dallo stesso processo, è un modo per dare un nome alle forme particolari dei progetti coloniali sovietici e cinesi del XX secolo.

Il socialismo di insediamento coloniale è forse meglio considerarlo come un tipo di “sub-imperialismo” (subimperialism) o sub-colonialismo capaci di rispondere alla “ferita morale” di cui parla Natasha Kaul per le colonizzazioni o le semi-colonizzazioni del passato, che  la storia ufficiale dello Stato cinese narra spesso come “secolo dell’umiliazione”.

Il sub-colonialismo, che intendo come azioni di tipo coloniale fatte da chi una volta era colonizzato, è rappresentato in questo caso attraverso l’imposizione dello sviluppo e l’intensificazione della colonizzazione nella frontiera cinese dell’Asia interna (soprattutto durante il periodo post-Mao quando la Cina si lega al capitalismo globale) giustificando ciò attraverso la logica della ferita. Questa logica porta alla conclusione per cui siccome il corpo politico della Cina è stato gravemente ferito durante il periodo semi-coloniale, allora l’occupazione, il dominio e l’espropriazione delle popolazioni alla periferia non sono solo atti giustificati ma essi stessi espressione di attenzione e cura antimperialistica.

Certo, c’è del vero nell’ auto-rappresentazione positiva dei coloni cinesi. La politica di riconoscimento inerente al socialismo colonizzatore era più progressista di altre politiche coloniali di riconoscimento. L’esempio più chiaro riguarda il modo in cui lo sforzo di indigenizzazione dei sistemi statali e della pedagogia ha permesso alle minoranze non assimilate come i Tibetani, gli Uiguri e i Kazaki di proteggere le proprie lingue e, sebbene filtrate dall’apparato statale, di espandere la produzione di conoscenza in quelle lingue. Questa “differenza permessa” (permitted difference), come la definisce Lousia Schein, ha garantito alle popolazioni le istituzioni utili a preservare alcuni aspetti della loro differenza epistemica. A differenza delle popolazioni native del Nord America dello stesso periodo, questi gruppi svilupparono i propri programmi di studio, le proprie letterature, la propria musica, le proprie arti e le proprie scuole di medicina tradizionale, anche se erano subordinati alla conoscenza cinese e alla modernizzazione scientifica. Questo è uno dei motivi per cui i movimenti del Red Power nordamericano, nel bel mezzo del “Sixties Scoop” in cui migliaia di bambini delle First Nations furono portati con la forza in scuole residenziali di lingua inglese, spesso cristiane, erano affascinati dalle politiche maoiste. Allo stesso modo, gruppi come gli Ainu, che a quel punto ancora non erano riconosciuti dallo Stato giapponese, vedevano come ideali le politiche di liberazione nazionale cinesi.

Per essere chiari, il socialismo di insediamento coloniale prima che diventasse capitalismo di insediamento dell’era post-Mao e di cui ho scritto nel libroTerror Capitalism, è stato per per alcuni versi una forma differente di occupazione militare e coloniale rispetto alle varianti euro-americane e giapponese. Si potrebbe pensare che siccome fu inteso come liberazione, dovrebbe essere considerato in modo qualitativamente differente rispetto agli altri colonialismi o, come alcuni pensano, che non sia stato affatto colonialismo ma un’espressione di un lodevole “universalismo plurale”.

Tali apologeti danno forza alle loro argomentazioni negazioniste spiegando anche come fra Uiguri e Tibetani una piccola classe dell’élite parlante la lingua cinese emerse negli anni Sessanta e partecipò al progetto di socialismo di insediamento coloniale in qualità di collaboratore. Presentando però questo piccolo numero di cittadini urbani parlanti cinese come figura normativa, gli apologeti non riescono a vedere come queste élite incarnino molte delle caratteristiche dell’ambivalenza dell’imitazione coloniale discussa da Homi Bhabha in merito al ruolo dei collaboratori nel colonialismo britannico. L’approccio centrato sulla lingua cinese e l’incapacità di pensare partendo dalla prospettiva dei subalterni è proprio il problema di tale tipi di interpretazioni apologetiche. La posizione “moderata” che vede il collaboratore coloniale come soggetto normativo e che «rompe il binomio colonizzatore-colonizzato», accettando la giustificazione statale del progetto di socialismo di insediamento coloniale a parole senza prima esaminare e valutare i suoi ampi danni strutturali, tale posizione e i suoi studi riproducono le rivendicazioni coloniali. In questo modo, si cancellano le esperienze normative e vissute di ampie maggioranze di Uiguri e Tibetani, mettendo a tacere le voci di coloro che sono stati maggiormente danneggiati dal socialismo di insediamento coloniale.

Per uscire dal vicolo cieco di una difesa del socialismo colonizzatore Han-centrica e prodotta dal nazionalismo metodologico, la questione delle intenzioni (caratterizzanti la liberazione) deve essere ovviamente problematizzata da una storiografia comparativa e da un attento esame delle esperienze dell’Asia interna.

Molti imperialisti hanno giustificato le loro azioni con discorsi di salvezza cristiana o razziale e con teorie della scoperta, o con i doni portati dall’istruzione, dallo sviluppo e dalle libertà democratiche. Per capire criticamente come questi progetti vengano accolti, e non riprodurre le loro logiche, è importante esaminare le esperienze di chi è stato investito da questi progetti.  Ciò mi porta alla questione del modo in cui il nativo viene eliminato dai progetti multiculturalistici dei coloni socialisti. A causa della parzialità del socialismo di insediamento coloniale come progetto coloniale – in particolare il modo in cui le strutture statali sono state parzialmente indigenizzate, ma ancora dominate dalla modernizzazione scientifica Han-centrica, dal controllo discorsivo dei media statali e da un’occupazione militarizzata che pretendeva di essere post-coloniale – è stato difficile per i popoli nativi collocarsi nelle più ampie lotte indigene.

A Uyghur woman stands in front of large scale portraits of Liu Shaoqi and Mao Zedong used as the walls of a home in an informal settlement in Urumchi in the late-2000s. Image by anonymous, used with permission.

In un senso ampio, il termine nativo – sia come descrittore che come identità politica con la “I” maiuscola – è criticato nella RPC perché è visto come un concetto che sfida la sovranità dello Stato cinese e il diritto della maggioranza, definita come “il popolo”, di possedere le terre ancestrali delle minoranze. Il discorso degli anni Novanta contro il “separatismo” e, negli anni Duemila, la retorica anti-musulmana e le tecnologie dell'”antiterrorismo”, che hanno preso di mira Uiguri e Kazaki, percepiti come eccessivamente attaccati alle loro identità particolaristiche, hanno ulteriormente cementato la percezione che “nativo” abbia una connotazione negativa. Ma, per riprendere un’espressione di Elizabeth Povinelli sul multiculturalismo liberale, c’è qualcosa di ancora più “sottile” nella politica cinese di riconoscimento della nazionalità. Dopo decenni di immersione nel socialismo e nel capitalismo dei coloni, molte élite uigure hanno interiorizzato i discorsi di sviluppo della civiltà incentrati sugli Han e considerano la loro mancanza di autodeterminazione nazionale e l’attaccamento alle tradizioni della terra come un segno di mancanza che caratterizza la propria stessa modernità sociale. Per loro, il termine “nativo” è venuto a significare una sorta di “arretratezza” primitiva che i discorsi statali del socialismo e del capitalismo dei coloni hanno identificato con le loro società precedenti alla “liberazione”. Per queste élite, la modernità dello Stato e la conoscenza scientifica sono gli unici ideali per cui vale la pena lottare. A causa delle pressioni statali contro le identificazioni autonome e a causa del rifiuto interiorizzato nei confronti delle idee “native”, le élite dei gruppi tibetani e uiguri, anche nella relativa protezione dell’esilio, non hanno cercato di posizionarsi all’interno dei movimenti internazionalisti dei nativi.

Tuttavia, a dispetto delle ragioni per non identificarsi come nativi, una generazione sempre più giovane di studiosi di sinistra dell’Asia interna ha iniziato a fare propria l’identità politica nativa, rispondendo così ai movimenti decoloniali globali. Loro sono consapevoli del fatto che, via via che le loro terre e la loro differenza diventano oggetto di un furto economico sempre più esteso, le autorità statali e la popolazione dominante sono arrivate a interpretare le rivendicazioni alla differenza da parte delle minoranze come una mancanza e una minaccia. Questo, a sua volta, ha prodotto una più marcata razzializzazione della loro differenza etnica. Di conseguenza, le ricerche comparative sui nativi, sulla decolonizzazione, l’antirazzismo e l’abolizione internazionalistica hanno fornito a questi studiosi nuovi modi di comprendere la narrazione e la tradizione orale, i paesaggi sacri e la violenza epistemica, e li hanno spinti a disimparare gli assunti che erano stati loro insegnati riguardo allo sviluppo e al socialismo dei coloni. Ha anche dato loro modo di comprendere sia l’utilità che il fallimento degli approcci all’identità incentrati sullo Stato e ha stimolato una critica decoloniale emergente verso il nazionalismo metodologico – cioè l’eccezionalismo cinese che emerge dalla logica della ferita – che pervade gran parte degli studi sulla Cina.   

Il lavoro di questa generazione emergente di studiosi – Dawa Lokyitsang (Tibetana), Anonimo (Uiguro), Guldana Salimjan (Kazaka) e altri – mi ha spinto a pensare alle problematiche delle identificazioni uigure come a una particolare espressione dell’indigeneità che si trova sia all’interno che all’esterno dei movimenti decoloniali internazionalisti. 

Come ho mostrato altrove, nel mio lavoro sul campo nella Cina nord-occidentale ho scoperto che il modo in cui gli uiguri incarnavano le conoscenze tradizionali attraverso i mestieri del patrimonio, le tradizioni culturali e l’aiuto reciproco forniva loro un modo per rifiutare la violenza strutturale. Questo ha dato loro una sensazione di radicamento in una tradizione profonda ma mutevole che preesisteva alla forma statale moderna. Seguendo i segni scritti a mano che ho visto usare dai contadini uiguri per segnalare l’autenticità dei loro prodotti e servizi tradizionali, nel mio libro Terror Capitalism sviluppo il termine uiguro yerlik, traducibile con “della terra”, inteso come rivendicazione positiva di un’identità nativa con la “N” maiuscola.

Rivendicando questa come un’indigenità esclusivamente uigura, gli uiguri segnalano che le identificazioni uigure dovrebbero essere considerate vicine alle rivendicazioni dei popoli nativi altrove. Insistere, almeno per ora, sull’uso del termine yerlik o nativo, riconosce anche che il termine indigeno è oggetto di un grande dibattito attuale tra gli Uiguri della diaspora, anche se ora c’è quasi unanimità tra lo stesso gruppo nel caratterizzare la violenza statale nei loro confronti come una struttura di colonizzazione portata avanti da un Partito-Stato capitalista colonizzatore. Questa discussione, insieme allo spacchettamento delle eredità del socialismo colonizzatore, sta iniziando solo ora a svilupparsi. Ma anche nella sua forma nascente, sta dando vita a conversazioni tra i Sinophone Studies e i Critical Indigenous Studies e sta creando nuove solidarietà con i movimenti decoloniali, abolizionisti e autonomi in Asia, Medio Oriente e nelle metropoli ancora coloniali euro-americane.

Articolo pubblicato originariamente su positionpolitics, che ringraziamo per la gentile concessione. Traduzione in italiano a cura di GioGo per dinamopress

Immagine di copertina da positionpolitics. “A Uyghur man holds a copy of Mao’s “little red book” in an informal settlement in Urumchi in the late-2000s. Image by anonymous, used with permission