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Nope: l’autonomia del vivente
È uscito in questi giorni nella sale italiane “Nope”, l’atteso terzo film di Jordan Peele, che all’incrocio tra horror, western e fantascienza sviluppa una straordinaria riflessione sulla logica dello spettacolo, l’immagine e il rapporto con l’alterità animale
I will cast abominable filth upon you, make you vile, and make you a spectacle (Naum 3, 6). Ti esporrò al ludibrio, recita la traduzione italiana del versetto che Jordan Peele sceglie per aprire il suo terzo lungometraggio, Nope. Ti esporrò, farò di te spettacolo – minaccia che, nel testo biblico, pende su Ninive, città maestra di incanti, che faceva mercato dei popoli (Naum 3, 4). E «lo spettacolo – per Guy Debord – non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediato da immagini», «è il riflesso fedele della produzione delle cose, e l’oggettivazione infedele dei produttori», «non ci dice nulla di più che “ciò che appare è buono, ciò che è buono appare”».
Lo spettacolo esibisce un’estrema unità, appare chiaro e identico a se stesso, mascherando così le divisioni su cui si ri/produce (in realtà, la realtà); le divisioni di classe, razza, abilità, genere e specie su cui poggiano i modi di produzione. Avrete tutti ben presente la sequenza di Muybridge, Sallie Gardner al galoppo – recita Emerald “Em” Haywood davanti alla troupe spazientita di uno spot televisivo che ha assoldato lei, il fratello e il cavallo Lucky –, avrete tutti ben in mente il nome di Muybridge come quello di Sallie G., l’animale lanciato in corsa e catturato nel suo incedere. Eppure, eppure, sapete dirmi il nome del fantino nero? Il primo attore e stuntman della storia, il primo uomo ad apparire su pellicola, non compare in nessun archivio né viene annoverato nella storia del cinema.Se tutto ciò che è buono appare, ciò che non è buono ha da svanire, va dimenticato. Contro di te decreta il Signore: “Nessuna discendenza porterà il tuo nome, dal tempio dei tuoi farò sparire le statue scolpite e quelle fuse, preparerò il tuo sepolcro, poiché non vali nulla (Naum 1, 14). Oblio selettivo, lo chiamava Borges: strumento (narrativo) per trasformare fatti in finzioni e finzioni in fatti.
Del fuori-scena (dell’osceno) del reale Peele aveva già trattato in Us, portando sullo schermo lə tethered, incatenatə, popolo di un letterale sottosuolo, al di sopra del quale ogni US (o U.S.?), ogni Noi (Dio, Patria, Famiglia) sopravvive sullo sfondo, o a scapito, di altro e altrə. Caratteristica dellə tethered era quella d’essere copia speculare, doppio-fondo non distinguibile dal proprio “vero” e “originale”, se non per il fatto d’esser mutə (o quasi), di non possedere dunque parola (o meglio: articolato linguaggio). Caratteristica minima che lə accomunava ai conigli bianchi, cavie da laboratorio, che percorrevano assieme all’umano residuo, e similmente nervosə, quegli stessi infidi corridoi sotterranei. Niente virtualmente separa il vero dal falso, il reale dalla sua rappresentazione, il noi e il voi, la totalità dal suo resto, sacrificale e sacrificabile; e la scelta che li divide, in/distinguendoli, è arbitraria – la sperimentazione deve pur compiersi su carni e corpi sufficientemente simili al Primo, cui si vuole apportare beneficio, di cui si vuole salvaguardare la vita. Scienza, in questo, per dir poco, un po’ stupida: «Non c’è sostituibilità specifica […]: è come mero esemplare che il coniglio percorre la via crucis del laboratorio», scrivono Horkheimer e Adorno.
Tutto ciò che è buono appare e prende spazio, tutto ciò che è buono parla e racconta, e giustifica, con la parola buona e giusta, questa scelta e il proprio buon discernimento. Rimembranza e smembramento. Chi non parla (o non parla come Noi), chi non ha nome (o chi il nome non l’ha ricevuto o l’ha solo come codice a s/barre) è materia bruta e muta, materiale buono solo all’edificazione della struttura: non s’inscrive nella Storia dei giusti (nessuna discendenza porterà il tuo nome) né si scrive nel suo archivio (come si chiamava il fantino nero?). Nope prova però a immaginare – oblio selettivo: strumento narrativo dal potenziale tanto conservatore quanto rivoluzionario – quella discendenza e quel nome: i due protagonisti, “Em” e il fratello Otis Junior Haywood (OJ, marca già satura di storture) sono, anche se da lontano, nipoti di quel cavaliere e, col nome di Haywood, portano in eredità anche l’attività paterna – la gestione di un ranch ai margini di Hollywood, in cui si addestrano cavalli per il mondo dello showbiz.
Farò di te spettacolo è la voce che istruisce e sprona non solo gli animali (Lucky, Clover, Jean Jacket e Gordy la scimmia, i cui nomi im/propri fanno da titolo ai capitoli del lungometraggio), ma gli stessi due fratelli, costretti, volenti o nolenti, a far proprie le condizioni di leggibilità del mondo bianco e splendido attorno al quale orbitano – vendersi bene, sempre e comunque: guardare in camera, sorridere, compiacere (ancora Debord: l’alternativa alla mimesi e all’identificazione con la vedette dello spettacolo, modello idealtipico della società civile – e spettacolarizzata –, è scomparire, «non aver nient’altro da essere. Dove domina lo spettacolare concentrato, domina anche la polizia»). Vendere la propria immagine allospettacolo, per riguadagnare lustro al proprio nome e per restituire credito e visibilità alla propria famiglia in un’impresa senza fine, come afferma Antlers Holst, il personaggio/regista alla ricerca dell’inquadratura perfetta. Non a caso, Otis, il padre di Em e OJ, è morto trafitto all’occhio da una moneta (In God We Trust).
Peele è sempre sapiente nel giocare a carte scoperte e il genere horror, in cui il regista si muove con maestria (assieme riverenza e scherno), è atto a mescolare allegoria e messaggio, immagine e verità, finzione e reale. «Analizzando lo spettacolo», del resto, «si parla in una certa misura il linguaggio stesso dello spettacolare», avverte di nuovo Debord. Scegliamo allora il soggetto più spettacolare, quel tropo dell’illusorio e dell’incredibile che è l’UFO – che ora si chiama Unidentified Aerial Phenomenon (UAP) –, per tagliar corto con speculazioni, teorie e sospetti, ricorda nel film l’IT-guy Torres (lo spettacolo, erede del progetto occidentale della comprensione attraverso lo sguardo e il chiarimento, vive dispiegando la propria razionalità tecnica e avocando a sé ogni tentativo e sforzo di fuga speculativo). Non si potrà che inseguirlo – braccarlo, in effetti questo UAP è un animale! –, nel tentativo di carpirne un’immagine, rubarne una breve ripresa, anche solo un unico frame e shoot, per portarne la pelle, il trofeo, da Oprah (vedette dello spettacolo, assurta e assunta al centro della scena, dalla periferia/fuoricampo che la nerezza generalmente comporta) e finalmente farsi valere. Utilizzare l’immagine per manipolare il reale, rendere il fatto una finzione anticipatoria – proiettarsi lì dove non si è, dal margine al centro, fare della narrazione il vettore di un’ascesa sociale, rimontando, a proprio favore, la presente gerarchia. E, allo stesso tempo, ribadendola: quando mai si deve abbassare lo sguardo di fronte a un animale, se non eventualmente per addomesticarlo? Quando mai si deve realmente temere, al di là dell’abissale paura che Derrida rintraccia nel naufrago Robinson Crusoe e al di là dell’esperienza “impossibile” di Val Plumwood, un’eterotrofia che coinvolga l’Umano nel ruolo di preda?
«Lo spettacolo in generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente», ricorda ancora Debord. Il movimento della ritrosia, lo scalciare del cavallo, il sottrarsi al disciplinamento e all’appropriazione pare, nel film di Peele, quasi per converso, quello dellə viventi. Gesto spesso violento, se il film si apre sul set di Gordy’s Home, singolare sit-com su uno scimpanzé e la “sua” famiglia umana adottiva, set imbrattato dal sangue dopo che la scimmia ha aggredito le umane co-star, sfregiandolə, ferendolə e uccidendolə (oblio selettivo e rimodellamento di fatto in finzione, realtà tradita dall’immagine: nel 2009, lo scimpanzé Travis, comparso in sketch pubblicitari, feriva la “sua” umana Carla Nash, che mesi dopo apparirà come ospite da Oprah per mostrare al pubblico – toccate con mano – il volto sfigurato dal primate). Gesto a volte minuto e minuscolo: la mantide che copre l’obiettivo della telecamera, impedendo di riprendere la misteriosa creatura celeste: invertebrato, parassitario, male d’archivio. A volte spettacolare, quale il fremito di Lucky e la sua elegante protesta davanti alla telecamera o il dispiegarsi dei tentacoli, elici e volute dell’animale alieno (o straniero estraneo per dirla con Timothy Morton), che replica il movimento a scatti della cinepresa e della rapida successione di fotografie di Sallie Gardner al galoppo – sequenza nata proprio per rispondere all’interrogativo: il cavallo al galoppo alza tutti e quattro gli zoccoli assieme? E per tracciare, se possibile, quel momento di sospensione, aerea e volatile, che l’occhio umano nella corsa non aveva mai colto prima del kinetoscopio.
Intuizione preziosa di OJ è allora quella di riconoscere nel disco ultraterreno nient’altro che l’animale – il vivente, la possibilità della ritrosia. E, in qualche modo, di chiamare in questione la gerarchia di specie. Ci sono molti animali che non possono e non vogliono essere addomesticati, viene detto nel corso del film, ma con tuttə si può stringere un accordo o un patto. Questa creatura è un essere territoriale, ma non per questo aggressivo – basta non guardarlo negli occhi. O meglio: basta non puntarvici su lo sguardo, che sia umano o di cinepresa, occhio panottico, senza palpebre e onnicomprensivo che pretende di poter riportare tutto a sé, per farne proprietà e guadagno («Tutti vogliono possedere la fine del mondo», scrive Don DeLillo nell’incipit di Zero K). Di farne spettacolo, capitalizzazione, materia d’archivio.
Nope: fuggire dallo scontro e dalla Legge della competizione che è ritirata del mercato per darsi alla macchia. Senza lasciare traccia? Chi si ricorda il nome del fantino nero? La dimenticanza può essere strumento della cultura dominante per omettere o mettere da parte (lasciare fuori campo o, come recita l’insegna del ranch-parco di Agua Dulce, Out Yonder: laggiù, fuori) un passato scomodo, per mantenere la bella apparenza della tolleranza (questo, ci sembra, racconta Peele già in Get out). Eppure, la dimenticanza, il trascorrere sotto traccia, è anche meccanismo di fuga davanti all’accumulazione conservativa – della memoria e del guadagno di storia, di capitale, di senso.
Nope non lascia un archivio né della protesta della mantide né del cavallo imbizzarrito davanti alla cinepresa e alle luci del set. Non viene scritta né detta, quantomeno non in lingua comune, la rivolta dello scimpanzé Gordy, che lascia illeso solo il giovane Jupe – una volta cresciuto nella e della celebrazione della tragedia, l’uomo di spettacolo potrà raccontare (a sé e al pubblico) l’accaduto come un’elezione, convincendosi della Legge (del) capitale della predazione: ogni bestia può essere ammansita, resa docile, appropriata – tutti vogliono appropriarsi della fine del mondo. E questo fa Rick “Jupe” Park, mettendo in scena l’abduzione aliena, sacrificando ogni giorno alle 18 i cavalli di OJ ed Em all’occhio-fauce delle creature celesti – fiere che presenta agli astanti (affamati anch’essi, sulle tribune), chiamandoli viewers. Gli osservatori sono pronti a inghiottire qualsiasi cosa (possedere, ogni volta, la fine del mondo, potrebbe dire Derrida): il cielo rivela la verità della terra, e viceversa – niente, virtualmente, separa immagine e reale, contraffazione e originale. Niente, se non la volontà di discernere l’autentico e l’artefatto, d’indovinare la profittabilità al cuore di ogni mostro per portarlo in scena, dalle tenebre che abitava.
Niente, se non l’imposizione della Legge: che, nelle parole di Baudrillard, produce un proprio spettacolo, un proprio sistema di senso e valore, al quale ciascunə ha da sottomettersi e consegnarsi, in cambio d’una parte (non esiste animale che non possa essere domato). Di contro allo spettacolo, movimento autonomo del non-vivente, esiste la fuga, la rabbia, la diserzione del vivente; di contro alla Legge, sempre aiutatə da Baudrillard, diremo che esiste la regola che dalla Legge libera. La regola è infondata, senza struttura né sovrastruttura a mantenerla: non investe, non tiene registro né archivio, ma esiste solo nel momento in cui ci si impegna in un gioco comune. E pertanto la si segue, se si vuole, senza crederci – non creerà né credito né debito. Nessun animale vuole essere domato, ma non c’è animale con cui non si possa trovare un qualche tipo d’accordo, di volta in volta arbitrario – e sì, anche dubbio e ingiustificato: esiste e basta, esiste solo del/nel momentaneo, del/nel labile, senza ulteriore assicurazione e senza che ne sia effettivamente data parola. È un animale forse territoriale, ma basterà non guardarlə – l’accordo pattuito riguarderà solo me e ləi – forse, un giorno, “noi”.
Dovremmo non perdere traccia dei nomi e dei corpi che la Storia – il banco del macellaio, secondo le parole di Hegel – ha cancellato e cancella e ha divorato e divora, dei nomi e dei corpi su cui si sono sperimentate – e si sperimentano – forme di non-vita e modi di produzione. Dovremmo tracciare noi, us, la storia di quellə viventə – umanə e non-umanə – che si sono rivoltatə, che non hanno osservato la Legge, che hanno optato per il get out. Dovremmo, ora, non perderlə più di vista: estendere loro quella visibilità tanto chiara e che pure è sempre stata guadagnata a loro spese (lamenta Kendra Coulter in The Conversation: alla fine della fiera, i titoli di coda ricordano i nomi di tuttə, proprio di tuttə, meno che dellə cavallə). Fare loro monumento, fare, di loro, spettacolo, affinché si possa serbar memoria. Far tesoro. Conservare. Dovremmo? Davvero? Forse, no. Ripensandoci, non farò di te uno spettacolo. E forse, egualmente, nessuna discendenza porterà il tuo nome. Potrai darti alla macchia, senza lasciare traccia né ricordo. E – ce lo siamo detto, sottovoce, di sbieco e sottecchi – andrà bene così.