approfondimenti

EUROPA

Verso un femminismo populista? Conversazione con Elżbieta Korolczuk

Come confrontarsi coi nuovi movimenti ultraconservatori che operano a livello internazionale e che fanno della retorica anti-femminista e anti-gender la leva su cui ottenere consenso? Parla una delle autrici di “Anti-gender Politics in the Populist Moment”

Lo spauracchio del “gender”: argomento-fantoccio utilizzato dalle destre ultraconservatrici e che interessa solo gruppi e realtà politiche marginali o “significante vuoto” attorno a cui si costruisce l’intero discorso del nuovo populismo reazionario? Da alcuni anni a questa parte, nello scenario globale, si assiste a inedite alleanze fra governi di destra e movimenti religiosi dal basso, quando non vere e proprie reti internazionali di lobbying che promuovono in diversi paesi leggi contro l’aborto, citando la “propaganda gay” o simili… Pensiamo alla collaborazione in Polonia fra l’organizzazione Ordo Iuris (che ha appunto contribuito a redigere la bozza di legge del 2016 da cui hanno preso avvio le Black Protest) e il governo del PiS di Kaczyński, oppure alla sempre più stretta alleanza in Russia fra regime putiniano e Chiesa Ortodossa (che, nel solco della recente invasione, ha assunto tinte grottesche con la giustificazione della guerra da parte del patriarca Kirill come un atto necessario a salvare territori “infestati dalle parate gay”).

Di questi temi si occupa il libro Anti-gender Politics in the Populist Moment (Routledge, 2022, disponibile anche in forma gratuita) delle sociologhe e attiviste femministe Agnieszka Graff ed Elżbieta Korolczuk. Una disamina di ampio respiro e allo stesso tempo molto accurata delle politiche populiste ultraconservatrici che operano nello spazio europeo e non solo. Abbiamo parlato con una delle autrici.

All’inizio del libro affermate che, in qualche modo, le diverse teorizzazioni del populismo non analizzano a sufficienza il ruolo che giocano in questi movimenti politici l’avversione al “gender” e l’anti-femminismo. Perché si tratta invece di elementi centrali?

Per dare l’avvio alla nostra riflessione, prendiamo in prestito da Chantal Mouffe il concetto di “momento populista”. Credo sia un concetto che restituisce bene il senso e la consapevolezza del fatto che le nostre società sono attraversate da molteplici crisi e in particolare negli ultimi decenni da una crisi della rappresentanza, o comunque da un crescente sentimento da parte di strati sempre più ampi di popolazione di non essere rappresentati a livello politico. La politica e i governi appaiono dunque sempre più distaccati dal “popolo”, acquisendo caratteristiche tecnocratiche e assumendo l’apparenza di coalizioni di funzionari, di esperti e via dicendo.

La sensazione di trovarsi a margini della vita politica è, storicamente, una sensazione con cui le politiche di stampo populista sono state capaci di entrare in contatto, alimentandole. Abbiamo voluto dunque utilizzare questo concetto perché se da una parte i “populismi” vengono spesso associati nel dibattito pubblico a qualcosa di negativo e manipolatorio, è sempre bene ricordare che nascono, o sono comunque intrecciati, a una reale esigenza di inclusione e a una reale richiesta di ascolto. E, nel caso di quei movimenti conservatori dal basso che portano avanti un’agenda di destra o per così dire “anti-gender” (contro il diritto all’aborto, demonizzazione del femminismo, contro i diritti Lgbt, ecc.) è opportuno osservare che nella maggioranza dei casi si definiscano appunto come movimenti anti-establishment, e dunque possono essere classificati come “populisti”, almeno in una certa misura.

Nella nostra riflessione ci concentriamo soprattutto sul contesto polacco. La Polonia è un paese che, per quanto riguarda alcuni fattori economici e politici, rappresenta un caso di successo nella transizione dal comunismo al sistema democratico. Ci siamo dunque chieste: se la transizione è avvenuta con successo, perché dal 2015 ci troviamo con un governo di destra conservatrice e populista come quello del PiS di Kaczyński? Che tipo di ansie, desideri, interessi o bisogni riesce a rappresentare un simile governo? Si può dare certamente una risposta dal punto di vista economico: è vero che in Polonia la percentuale di persone sotto la soglia di povertà è molto bassa, ma è altrettanto vero che quel “regno della prosperità” che ci si aspettava dovessero portare l’uscita dal comunismo e la democrazia non si è ancora concretizzato per tanti gruppi sociali (che vanno dunque a formare la base di consenso del PiS). C’è anche una spiegazione di tipo socio-culturale, che pone l’accento sui cambiamenti dei costumi, degli stili di vita e dei rapporti interpersonali: c’è stato un mutamento molto grande rispetto al passato che ha portato molte persone a sentirsi escluse ed emarginate dentro questo “nuovo mondo”. Queste persone sentono che le loro visioni, i loro valori e i loro comportamenti sono marginalizzati e discreditati.

Eppure, queste spiegazioni (pur valide) non riescono a rispondere a un’altra domanda centrale, che riguarda nello specifico la Polonia ma non solo: come mai, a partire dagli ultimi 7-8 anni, il tema dei diritti legati alla sfera riproduttiva è diventato così centrale nel dibattito pubblico e nei programmi politici? Cos’è che li ha “catapultati” nell’arena del conflitto politico? La nostra risposta è che questo è accaduto per via di una crescente collaborazione dei segmenti ultraconservatori presenti nella società e dei gruppi di fondamentalismo religioso con gli attori politici e i partiti di destra. Si crede spesso che si tratti di fatto delle stesse persone le quali, tutto sommato, hanno posizioni e opinioni simili fra loro, ma non è necessariamente così. C’è in realtà una sorta di doppio movimento, che è quello che cerchiamo di descrivere nel libro, per cui da una parte l’ideologia populista di destra sta diventando sempre più intrecciata o saturata con visioni misogine, omofobiche e ultraconservatrici e dall’altra (e simultaneamente) gli attori della società civile di orientamento “anti-gender” stanno diventando sempre più coinvolti o direttamente istituzionalizzati dentro le strutture di potere. In questo senso, la Polonia è un esempio lampante. Ma anche l’Italia di Salvini, in qualche modo, ha mostrato come questo di tipo di collaborazione e cooperazione è cresciuta nel tempo. Si tratta di una dinamica che definiamo “sinergia opportunistica”.

Il populismo di destra nei diversi paesi, dall’alt-right statunitense al Brasile di Bolsonaro, dalla Polonia del PiS alla Russia di Putin, assume traiettorie spesso molto differenti. Come si ricombina questa “sinergia opportunistica” a seconda dei contesti?

Parte dell’efficacia dei discorsi “anti-gender” e simili risiede nella possibilità di poterli adattare ai diversi contesti locali. Pensiamo a come questa retorica funziona in Europa, prendendo due paesi che per certi versi stanno all’opposto: Polonia e Svezia, la prima con le sue forti tendenze nazionaliste, con un ruolo molto prominente della Chiesa, ecc., la seconda invece con una democrazia solida e un welfare funzionante, aperta a politiche di uguaglianza di genere che anzi rappresentano un po’ il suo “marchio di fabbrica”.

Ora, in Polonia la retorica “anti-gender” viene utilizzata in maniera più apertamente omofoba e anche razzista: si parla proprio della necessità di proteggere le “nostre donne” dai migranti, dagli islamici, ecc., perché bisogna proteggere l’integrità della nazione e, di fatto, la purezza etica e razziale del paese. Allo stesso modo, la queerness o gli orientamenti non conformi vengono denunciati come una minaccia alla mascolinità tradizionale e al tradizionale binarismo di genere. Ci sono anche elementi che potrebbero ricordare l’omonazionalismo o il femonazionalismo più presenti nell’ovest europeo ma, la più parte delle volte, si tratta proprio di retorica etnonazionalista esplicita che vede le donne come la “base riproduttiva” della nazione, sia in senso culturale che biologico. In questo senso, le teorie o gli studi di genere vengono considerati una “blasfemia”, che rischia di minare le tradizionali gerarchie che stanno alla base dell’ordine sociale. In Svezia, al contrario, si trovano forti elementi di omonazionalismo e di femonazionalismo con una forte caratterizzazione anti-islamica: di base, il discorso è che la Svezia è un paese sviluppato e tollerante e va assolutamente protetto da altre culture o valori che arrivano da fuori. In pratica, in questo caso, ciò che va difesa è l’“eccezionalità svedese”. Siamo dunque di fronte a una retorica più sottile e meno apertamente reazionaria, per cui per esempio gli studi di genere vengono ugualmente criticati, ma in quanto posizioni ideologiche che non hanno nulla di realmente scientifico.

Allargando lo sguardo, se prendiamo per esempio il Brasile di Bolsonaro o l’alt-right statunitense penso che la differenza sostanziale – soprattutto per Bolsonaro – consista nel fatto che la retorica anti-gender assume un forte accento neoliberale e neocon. Il che è ben comprensibile, considerato il fatto che la sua figura e la sua campagna elettorale è sostenuta e finanziata dalle classi ricche e dalla grande proprietà terriera. Anzi, nel suo caso direi che non siamo tanto di fronte a un fenomeno di populismo ma di vero e proprio “fascismo”, per cui la questione del “gender” è innanzitutto una questione che ha a che fare con il mantenimento dell’ordine e delle gerarchie. In sostanza, Bolsonaro vuole riaffermare il diritto da parte delle classi dominanti di controllare e sottomettere i più deboli, che vanno tenuti “al loro posto”. E il tutto va fatto con la violenza: non prova neanche a presentarsi come qualcuno che sta dalla parte del popolo o della gente, ma al contrario si presenta come restauratore di un ordine sociale gerarchico ed escludente.

Per quanto riguarda la Russia, invece, penso che si sia verificato un processo di avvicinamento a un regime di stampo “fascista” (ritengo che si possa usare questa parola senza problemi) o comunque verso un regime sempre più apertamente autocratico, che ha abbandonato ogni parvenza di democrazia e che è stato accompagnato da una sempre maggiore repressione di ogni voce e realtà indipendente. Se pensiamo al 2013/2014 come una soglia che è stata oltrepassata in questo senso, è interessante notare che quel periodo corrisponde anche al momento in cui Putin è diventato ossessionato dall’esigenza di rafforzare una sorta di “ordine morale” della società attraverso la decriminalizzazione della violenza di genere, il giro di vite sulle soggettività Lgbt e queer, e attraverso la limitazione di ogni possibilità di sollevare preoccupazioni e domande relative alla parità di genere. Tutto ciò era anche collegato al rafforzamento dei legami fra il regime di Putin e il Patriarcato di Mosca. È una dinamica che ritroviamo più volte nella storia: le “strette” dei regimi o dei governi sulla popolazione sono spesso accompagnate da un avvicinamento fra potere temporale e religioso. Serve a ri-legittimare l’autorità della nazione anche attraverso l’istituzione religiosa e, dunque, attraverso la fede. Tra l’altro, questo fu proprio il momento in cui imprenditori conservatori legati a Putin, come Kostantin Malofeev, iniziarono a finanziare massicciamente associazioni e attori anti-gender e campagne anti-gender nel resto d’Europa: si trattava davvero del tentativo di creare una rete di soggetti che potessero indebolire e minare la tenuta delle istituzioni europee. Parliamo di oltre 180 milioni di dollari investiti in questo senso dal 2013 al 2019: certo, meno dei soldi investiti dalla stessa Unione Europea in termini di soft power, ma comunque di più di quelli impiegati dagli Stati Uniti nel contesto europeo.

Penso che questo abbia a che fare con la questione della ricerca del consenso: se da una parte un regime autocratico come quello di Putin non ha bisogno del sostegno democratico della popolazione, come invece è necessario per esempio per Kaczyński in Polonia, allo stesso tempo gli è utile promuovere questa visione dello spazio europeo come un contesto decadente, immorale, un mondo in un certo senso “sottosopra” che introduce leggi relative ai diritti riproduttivi o agli orientamenti sessuali che sfidano il “senso comune”. E gli è utile perché fornisce un terreno che – a mio modo di vedere – facilita la diffusione di un senso generale di “apatia” nella popolazione, che perdura e che possiamo osservare anche nella congiuntura di questa guerra. Se davvero ci si convince della linea di pensiero per cui la Russia sarebbe l’entità europea depositaria dei valori morali, del senso comune per così dire, ecco che davvero l’invasione dell’Ucraina può essere letta come un atto di autodifesa. E, di converso, è possibile pensare che la stessa Ucraina stia per essere “salvata” dalla Russia: è la conseguenza di interpretare l’Europa come un contesto di depravazione e contagio morale. È la sostanza del discorso di Kirill. Può sembrare assurdo dal nostro punto di vista ed è difficile prendere sul serio questa linea di pensiero, ma considerando la massiccia propaganda che viene portata avanti in Russia penso dobbiamo fare i conti col fatto che abbia una sua rilevanza culturale, e consente alla una buona fetta di popolazione di non farsi troppo turbare da quanto sta accadendo.

Anche le differenze di struttura economica dei diversi paesi giocano un ruolo in tutto questo?

Nel libro affermiamo che parte del successo delle retoriche anti-gender risiede nel fatto che riescono a presentarsi come forme d’opposizione al neoliberalismo, spostando però la critica su un piano socio-culturale. In pratica, la strategia delle forze ultraconservatrici consiste nel dire: «il mondo sta diventando sempre più precario, soffriamo per via dell’alienazione e del rampante individualismo, per l’erosione del senso di comunità e dei legami famigliari, in definitiva, per l’erosione del senso di essere connessi con le altre persone. Ecco perché occorre far ritorno a quel senso di solidarietà, di forze e di sicurezza offrivano le forme tradizionali di comunità e di appartenenza presenti nel passato, vale a dire nazione, chiesa e famiglia». Ho l’impressione che, soprattutto in occidente, non ci sia una grossa consapevolezza di come le forze politiche di destra riescano a presentarsi con successo come difensori del “popolo” contro gli effetti distruttivi del neoliberismo.

Tutti, sia a est che a ovest, siamo sotto una forte influenza culturale e teorica statunitense che tende a leggere l’intersezione fra neoliberalismo e posizioni conservatrici come un’alleanza costitutiva, che è stata sempre presente. Ma il problema è che la “spontaneità” e la naturalezza di una tale connessione – che è probabilmente vera per quanto riguarda gli Stati Uniti (al netto delle dinamiche di razza che la complicano al suo interno) oppure anche nel Brasile di Bolsonaro – non si applica al contesto europeo, dove ci sono una storia e una tradizione sociale differenti. Per fare un esempio, anche in paesi come la Polonia, c’è l’aspettativa diffusa nella popolazione che sia lo stato a garantire tutta una serie di servizi e, soprattutto, un certo senso di sicurezza e un certo livello di cura – istruzione pubblica, il sistema sanitario, ecc. L’idea neoliberale per cui lo stato dovrebbe ritirarsi e non avere voce in capitolo in nessuna di queste sfere, dunque, è qualcosa che tende a essere poco accettata se non da una minoranza agguerrita.

Se non abbiamo presente e non leggiamo tali dinamiche, non capiamo dunque perché la retorica populistica e “anti-gender” possa esercitare un così forte fascino e richiamo sulla popolazione e rischiamo di conseguenza di non capire come opporvisi. La sinistra e la sinistra femminista, a mio modo di vedere, identificano correttamente nel neoliberalismo un problema, ma poi difficilmente riescono a tradurre le proprie critiche in forme di discorso e di prassi politica che possano risultare convincenti per la popolazione e per il l’orientamento elettorale di quest’ultima. Se non capiamo che diversi gruppi sostengono le politiche di destra per diversi motivi, e che parte di questi motivi sono radicati nelle condizioni economiche in cui versa parte della popolazione (non necessariamente e non solo in termini di povertà, ma anche di perdita della propria dignità, di riconoscimento e della possibilità di autodeterminazione), ecco che ci troviamo paralizzati nel momento in cui si tratta di passare dalla nostra diagnosi teorica a una prassi politica efficace.

In questo senso, esiste forse una certa riluttanza a sinistra a lavorare con le emozioni e i sentimenti. Talvolta, i fenomeni populistici vengono semplicemente bollati come “irrazionali” e negativi, quando parte del loro successo consiste proprio nel saper agire su un tale livello meno teorico e razionale…

Credo che su questo a volte ci siano degli equivoci: si tende a pensare che le destre, o comunque i nostri opponenti politici, facciano spesso leva sui sentimenti di “paura” (pensiamo per esempio al libro di Ruth Wodak, Politics of Fear). C’è ovviamente del vero in questo: molto spesso i populismi di destra agiscono fabbricando paure e panico morale rispetto a temi e questioni specifiche, come possono essere le migrazioni. Si tratta di fenomeni che si sviluppano anche in maniera molto rapida: basti pensare che secondo i sondaggi fino al 2015 in Polonia quasi il 70% della popolazione aveva una posizione assolutamente favorevole e aperta verso l’accoglienza dei migranti mentre, dopo due anni di forte propaganda in senso opposto, il rapporto si era completamente ribaltato.

Tuttavia non penso si tratti solo della paura. Ciò che la destra populista riesce a fare è sfruttare quelle emozioni “positive” correlate al senso di comunità e di appartenenza. La retorica di destra e le politiche anti-gender riescono precisamente a offrire un senso di solidarietà e di appartenenza, la percezione di essere capiti, ascoltati e valorizzati. Il modo in cui tanti genitori vengono mobilitati da questo tipo di retoriche ha certamente a che fare con il “panico morale” ma rappresenta anche un modo per costruire un senso di connessione fra persone che desiderano avere una maggiore responsabilità e autodeterminazione per quanto concerne il proprio benessere, la propria famiglia, ecc. Mi pare che questo sia molto visibile in Italia, dove le realtà “anti-gender” sono stati capace di produrre una grossa mobilitazione di gruppi dal basso, senza operare in maniera decisa sul livello delle politiche rappresentative.

È una dinamica che funziona anche a livello inter-comunitario e inter-statale: in un modo simile, infatti, nazioni come la Polonia o a suo modo la Russia, possono ribaltare sul piano discorsivo quella relazione con l’Europa che sentono come ingiusta o in una certa misura frustrante. In tal modo, cioè, invece di percepirsi nella posizione di paesi che devono essere “salvati” dall’Europa o che devono evolversi verso certi standard, ribaltano la dinamica e riescono a porsi come realtà che sono invece esse stesse le “salvatrici” dei “veri valori europei”. È qualcosa di molto contraddittorio e ambiguo ma potente, perché fa appello a sentimenti come quello dell’orgoglio ferito, o a un senso di inadeguatezza collettiva che certamente attraversa le nostre società. C’è anche molto risentimento in questo “gioco degli specchi”.

Come si dovrebbe reagire, allora? Nel libro teorizzate una sorta di “populismo femminista”…

Abbiamo introdotto la nozione di “populismo femminista” a partire dalla convinzione che il principale conflitto politico con cui dobbiamo confrontarci al momento abbia a che fare con la questione di come si definisce il popolo. Chi è il popolo e cosa vuole? La strategia della destra nel momento in cui adotta una retorica “anti-gender” consiste sostanzialmente nel denigrare le femministe e le minoranze identificandole come “élites”, come soggetti colonizzatori. È difficile dunque decostruire o combattere questo tipo di discorso adottando gli stessi metodi delle élites, come per esempio la promozione di valori, le azioni di lobbying, le campagne di presa di coscienza, ecc.

Credo che, al contrario, un obiettivo sensato da porsi sia quello di capire come posizionare noi stesse e noi stessi in quanto “popolo”, una moltitudine di diverse tendenze e soggettività che però al contempo esprimono una volontà e un desiderio comuni. In questo senso, uno dei maggiori problemi che abbiamo a sinistra sia quello di non porci con sufficiente forza la questione relativa a cosa chi unisce, del “chi siamo”. Siamo semplicemente le persone che si oppongono al potere della Chiesa o dei vari Salvini nel mondo? Oppure c’è qualcosa che abbiamo in comune, c’è uno specifico programma politico che condividiamo, o una specifica idea di futuro?

Se è giusto che lo sforzo di definizione di un “noi” debba essere portato avanti sia sul piano delle identità e dei posizionamenti, ovvero del chiedersi “da dove veniamo”, non si può prescindere dal porsi la domanda di quale visione dell’avvenire condividiamo. Questo dovrebbe essere il punto di partenza nel creare un senso di comunità alternativo a quello messo in campo dalla destra. Il fatto è che, ogni qual volta si prova a elaborare un pensiero politico sul futuro, ci si imbatte inevitabilmente nel problema del cambiamento climatico, che rappresenta in effetti la questione che andrà a definire e influenzare praticamente ogni cosa che accadrà nei prossimi 30-50 anni.

Se non affrontiamo questo problema, se non capiamo come la traiettoria verso questa catastrofe possa essere modificata o ribaltata, perdiamo la capacità di produrre visioni alternative per il domani. Ed è proprio nel momento in cui si smette di credere in un cambiamento collettivo che ci si concentra solo sulle risposte di tipo individuale, che è poi il terreno in cui crescono e si rafforzano le destre.

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