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Cannes #1. Esterno notte di Marco Bellocchio
Il film di Bellocchio in corcorso a Cannes si confronta con la Storia capire di che cosa “il rapimento Moro” sia il nome. Ha certamente le sembianze del fantasma per la storia italiana, e forse anche di un trauma destinato continuamente a ritornare
Anche quando il cinema decide di misurarsi con la Storia come oggetto della propria rappresentazione, finisce per avere a che fare con dei fantasmi. Questo perchè la storia non è un oggetto empirico da cercare di riprodurre con la maggiore esatezza possibile – anche se purtroppo è spesso così che la si tratta quando si discute di film a tema storico – ma è soprattutto un problema, un enigma, un buco nero reale da simbolizzare e talvolta persino da esorcizzare. E di cui spesso ci si trova a scrivere e riscrivere ancora per anni e anni in una spirale infinita. Lo sapevano bene sia Freud che Walter Benjamin: è un’illusione quella di lasciarsi la storia “alle spalle”, come se i conti con gli eventi passati potessero essere chiusi una volta per tutte.
Ha certamente le sembianze del fantasma il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro per la storia italiana. E forse anche di un trauma destinato continuamente a ritornare.
Nonostante ormai la cosiddetta Prima Repubblica sembri essere lontana anni luce dalla politica italiana di oggi, c’è qualcosa di quell’evento che non manca di riemergere in modo perturbante anche a distanza di più di quarant’anni. I fantasmi d’altra parte non li si può ammazzare: bisogna imparare semplicemente a farci i conti, spesso anche nostro malgrado.
Esterno notte, il film per la TV di Marco Bellocchio di più di 5 ore presentato ieri fuori concorso a Cannes ed ora anche in sala nei cinema italiani (la prima parte è uscita ieri, mentre la seconda uscirà il 9 giugno – verrà trasmesso in Tv in 6 parti nel prossimo autunno), inizia proprio con l’immagine di un fantasma – che richiama la celebre fine di Buongiorno, Notte: quello di Aldo Moro ancora vivo su un letto di ospedale, appena liberato dalle Brigate Rosse. Di fronte a lui Zaccagnini, Cossiga e Andreotti che lo guardano con un’aria tra lo smarrito e l’impaurito, e una domanda che implicitamente viene rimandata a noi spettatori: qual è stato il loro atteggiamento nei confronti del rapimento del Presidente della DC dell’epoca? Qual è stato il loro “desiderio”?
Ci viene in mente una scena di A Place in the Sun, il famoso film di George Stevens del 1951 dove il personaggio di Montgomery Clift progetta di ammazzare la moglie durante una gita sul lago e sul più bello decide di desistere convinto dalle parole di fedeltà di lei. Quando un incidente fortuito provoca davvero la morte di lei il dilemma morale, e poi giudiziario, diventa insostenibile: il fatto di averlo “desiderato” non equivale forse a una vera e propria responsabilità? Anche se non fu sua la mano che scoperchiò la barca e gettò la moglie nel lago, il fatto che “il suo cuore” – come dice il prete del film – l’abbia voluto non lo rende forse comunque colpevole agli occhi di Dio?
E forse la stessa domanda ce la dovremmo porre riguardo all’establishment della DC dell’epoca e all’atteggiamento che ebbero in quei 55 giorni di rapimento: il fatto di aver desiderato di far fuori Aldo Moro per via del suo tentativo mai davvero digerito dalla DC di formare un governo di unità nazionale con l’appoggio esterno del PCI, non li rende se non colpevoli quanto meno un po’ “oggettivamente” responsabili di quello che poi è successo?
Mischiando Storia e storie individuali, i primi tre episodi del film infatti ci mostrano tutta una serie di sintomatologie individuali che indicano una formazione di compromesso di qualcosa di traumatico e irriducibile che rigettata nell’inconscio non può che emergere nella forma di un ritorno del rimosso sul corpo: le macchie sulle mani di Cossiga, la sua ossessione per le intercettazioni o i suoi momenti di isolamento in una stanza ovattata, la crisi di vomito di Andreotti o la cintura di cilicio di Paolo VI.
Bellocchio, nei primi tre episodi (senz’altro i più riusciti), sembra raccontarci il caso Moro solo come un fantasma tutto interno alle stanze del potere. Ed è proprio questo cotè psicoanalitico tanto caro al regista che lo mette al riparo da ogni teoria del complotto che è sempre in agguato quando si parla di Moro (come dice l’uomo dei servizi americano, “dietro alle BR non c’è nessuno. Siete voi italiani che avete sempre bisogno di cercare delle spiegazioni recondite e nascoste”) e che riesce a restituire l’evento in tutta la sua traumaticità soggettiva, a un tempo collettiva e individuale.
Ed è interessante che venga evitata anche quella santificazione martiriologica un po’ da “parroco” che spesso aleggia sulla figura di Moro, che qui viene visto come un uomo di potere, senz’altro di grande caratura morale, ma che non si sottrae alle trame di potere più controverse, alla distribuzione corrotta di ministeri e sottosegretari, alle manipolazioni del dibattito interno. Anche Moro soffre di insonnia, è ossessionato dalla morte, e ha una serie di tic enigmatici come la paura del gas acceso e il lavaggio compulsivo delle mani che lo rendono in qualche modo parte di questa atmosfera plumbea che aleggia attorno all’evento del suo rapimento.
È un peccato che poi Bellocchio cada in alcuni cliché sui brigatisti nel quarto episodio (quello senz’altro meno riuscito della serie) che si inseriscono nel solco di quella lunga tradizione di patologizzazione dei membri delle Brigate Rosse la cui riflessione politica interna viene ridotta a una pagina di volantino e i cui dilemmi morali non vanno al di là del conflitto tra individuo e ideologia.
E che il quinto episodio – nonostante la convincente interpretazione di Margherita Buy – finisca per insistere sul carattere di incompatibilità tra le necessità politiche di difesa dello stato da parte della DC e la difesa della vita di Aldo Moro da parte della famiglia.
La conclusione, che si perde meravigliosamente nel labirinto delle rappresentazioni, dei simulacri (dai gruppi di teatro che mettono in scena il rapimento e che vengono scambiati per un vero covo delle BR ai vari pazzi e sensitivi) e dei possibili esiti alternativi della vicenda, finisce per restituirci una storia in cui realtà e immaginario rimangono strutturalmenti indivisibili. E dove i sintomi di quel trauma sono ben lungi dall’essere scomparsi.
Il problema non è tanto quello di gettare luce sui coni d’ombra di un episodio della storia italiana di cui si conosce letteralmente tutto ma di cercare di capire di che cosa “il rapimento Moro” sia il nome. E di quello che possa dire oggi non tanto della Storia come oggetto ma del nostro posto soggettivo in essa.
Articolo pubblicato originariamente su cineforum.it