MONDO
Undici anni dopo, cosa rimane della Rivoluzione egiziana?
Parla il fondatore della Egypt Wide: «La situazione dei diritti umani sotto Al-Sisi è catastrofica». Una panoramica sulla repressione di attiviste e attiviste nel paese nord-africano
Della rivolta che fece cadere Hosni Mubarak sembra non rimanere più nulla: arresti arbitrari, processi farsa, sparizioni forzate e torture sono all’ordine del giorno in Egitto. Ma fuori dal Paese mediorientale, piazza Tahrir continua a rappresentare un forte simbolo di liberazione nell’immaginario collettivo. In occasione dell’anniversario del primo «Venerdì della Rabbia» che diede inizio alla sommossa, Dinamopress intervista Sayed E. Nasr, testimone di questa pagina di storia, rifugiato in Italia da tre anni, nonché ex-membro del Movimento 6 Aprile e fondatore della Ong Egypt Wide, che ha base a Bologna.
Qual è la situazione dei diritti umani oggi?
È diventata catastrofica. Il regime, nel frattempo, sta provando in diversi modi ad “abbellire” la propria immagine di fronte all’opinione pubblica internazionale. Per esempio, è stato recentemente cancellato lo stato di emergenza presentandolo come un primo passo all’interno di un più ampio programma di implementazione dei diritti umani nel paese che lo stesso regime ha reso pubblico. Ma lasciate che vi spieghi come si è arrivati a questo punto. Durante lo stato di emergenza il regime ha promulgato varie leggi repressive che sono state adottato a livello di legislazione ordinaria. Ecco che in questo modo lo stato di emergenza può essere formalmente sospeso e interrotto, ma in realtà viene portato avanti anche nel nuovo contesto di “normalità”.
Ecco dunque che queste leggi repressive sono diventate qualcosa di ordinario e nessuno può veramente fermare questo processo di normalizzazione dal momento che molte libertà e la trasparenza istituzionale sono state cancellate durante lo stato d’emergenza. Tali norme vengono, sono e continueranno a essere usate per reprimere attivisti e attiviste e tutto ciò costituisce un’enorme minaccia alla difesa dei diritti umani in Egitto, così come le leggi sul terrorismo. Tra l’altro, prima che venisse messa in atto l’abolizione dello stato di emergenza, Al-Sisi, tramite la Pubblica accusa, ha fatto in modo che la maggior parte dei casi di natura politica venissero rinviati a giudizio, come dimostrazione della sua determinazione a reprimere il dissenso.
Dall’altro lato, non sono solo attiviste e attivisti a subire la repressione. Se per esempio guardiamo sul piano accademico, vediamo come la libertà accademica sia soppressa e come sussista un forte controllo interno. In più c’è il tentativo di estendere tale controllo anche all’estero: quelli di Patrick Zaki e Ahmed Samir Santawi non sono infatti casi isolati; al contrario ci sono tanti studenti e accademici che sono stati arrestati al loro ritorno in Egitto oppure persone alle quali viene impedito di lasciare il paese oppure ancora membri dell’accademia che subiscono pressioni da parte delle ambasciate egiziane presenti nelle nazioni in cui risiedono. Si tratta, dalla mia prospettiva, di uno schema repressivo che viene intenzionalmente utilizzato contro ricercatori e studenti all’estero. Allo stesso modo, c’è una ragazza che è stata incarcerata per aver pubblicato su TikTok alcuni video che il regime ha considerato osceni e inappropriati. Si tratta di una forma di soppressione della libertà e di affermazione dell’autorità patriarcale che viene esercitata in generale nei confronti del genere femminile. Questi sono esempi lampanti della difficile situazione dei diritti umani in Egitto, ma rappresentano solo una minima parte e ci vorrebbero giorni interi per parlare della questione nella sua totalità.
(foto di Mariam Soliman, da commons.wikimedia.org)
Il regime di Al-Sisi peraltro dà l’impressione di essere molto solido, sia all’interno che per quanto riguarda la sua politica estera. È effettivamente così? Ci sono dei punti di debolezza significativi?
Certamente al di fuori dei confini nazionali il regime di Al-Sisi è molto forte. Ma chi gli ha permesso di esserlo? Di sicuro non sarebbe così forte senza il sostegno dell’Unione Europea, il cui aiuto si regge su due assi principali: il commercio di armi e la gestione delle persone migranti (o per meglio dire, la prevenzione che le persone possano migrare verso l’Europa attraverso il territorio egiziano). È qualcosa che riguarda la maggior parte dei governi europei. In particolare l’Italia ha sponsorizzato la fiera Edex 2021 che si è svolta in Egitto di recente e ha visto la partecipazione di numerose aziende che si occupano di armi e munizioni. È bene ricordare che il governo italiano possiede il 70% di Fincantieri, che è stata appunto il principale sponsor dell’evento. Allo stesso tempo, le autorità egiziane si sono rifiutate di cooperare con quelle italiane per il caso dell’omicidio di Giulio Regeni. In più, Al-Sisi utilizza spesso un tono minaccioso e ricattatorio sul piano dell’immigrazione, il che gli ha permesso di risparmiarsi diversi problemi.
Per il rilascio di Zaki abbiamo assistito in Italia a una grossa mobilitazione della società civile. Pensi che questo tipo di pressione internazionale possa spingere l’Egitto verso uno sviluppo maggiormente democratico?
Una tale pressione internazionale può certamente fare una qualche differenza, ma un’azione efficace dev’essere sostenuta dalle entità governative e il nostro ruolo è appunto quello di motivare i vari governi a essere parte di questa pressione. Come accennavo, l’Italia attraverso delle sue aziende ha sponsorizzato una fiera d’armi nel nostro paese e in più non si è verificato nessuna messa in stato d’accusa per il caso Regeni. Questo significa porre pressione? Direi proprio di no. Piuttosto il governo italiano si dimostra colluso con quello egiziano.
Cosa rimane della rivoluzione di undici anni fa?
Forse la reale eredità di quell’evento è costituita dalla consapevolezza delle persone che vi hanno preso parte e dalla consapevolezza di chi è cresciuto ascoltando le loro testimonianze. Forse si è trattato dello schiudersi di una grande possibilità che poi non è riuscita a concretizzarsi e alla quale non è stata data sufficiente attenzione, ma che ancora esiste. Eppure, credo che l’eredità maggiore di quell’esperienza sia rappresentata dalla sconfitta. Penso che, valutando sulla base dell’osservazione empirica del presente, dobbiamo ammettere la sconfitta. E questo potrebbe aiutarci a costruire un futuro migliore per noi e per le nuove generazioni.
Immagine di copertina per concessione di Egypt Wide