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Don’t look up , la crisi climatica è già qui
Il film di Adam MacKay è primo nelle classifiche di Netflix dove è stato visto da milioni di persone. Una chiave di lettura a partire dai conflitti ambientali
Il film che sta dominando l’attenzione collettiva in questi giorni di fine anno è certamente Don’t Look Up. Le recensioni e il dibattito social corrono veloci, parallelamente alle visualizzazioni su Netflix che lo hanno portato in testa alle classifiche. Qui su DINAMOpress ne ha parlato Luca Celada, ricostruendo il contesto sociale e istituzionale statunitense e la traiettoria artistica del regista Adam MacKay.
A partire dagli Usa segnati a livello politico e culturale dal trumpismo, la pellicola descrive, con tono satirico, le relazioni tra governi, media, scienza e cambiamento climatico andando ben oltre il paese e stelle strisce. Se questo ha le maggiori responsabilità storiche nelle emissioni climalteranti, infatti, l’emergenza ambientale è un fenomeno globale che riguarda tutti.
Un film per il clima
L’intenzione di dare un contributo alla battaglia per il clima è dichiarata esplicitamente da Leonardo Di Caprio in un video di presentazione della pellicola. Don’t Look Up descrive una realtà e delle emozioni che sono immediatamente comprensibili a chi partecipa alle lotte ambientali, studia il cambiamento climatico o ne soffre le conseguenze. Su tutte quella sensazione di dolorosa frustrazione nel vedere il pianeta scivolare verso l’abisso in mezzo all’indifferenza o derisione generale.
Prova della forte identificazione che genera la pellicola sono i tanti post social diffusi in questi giorni da singoli e collettivi che partecipano ai movimenti ecologisti. O il dibattito su chi sia, nelle intenzioni del regista, il miliardario che propone la soluzione tecnologica alla catastrofe imminente: Elon Musk, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg, Bill Gates o tutti e quattro insieme? Extinction Rebellion ha anche avviato una campagna social di successo per chiedere a Di Caprio di unirsi al gruppo nelle azioni di disobbedienza civile, passando dagli schermi alla lotta nelle piazze.
Il film è di fatto una denuncia spietata dell’inadeguatezza dell’apparato politico-mediatico occidentale di fronte al cambiamento climatico, estremamente significativa per chi si porta addosso il ricordo vivo del fallimento della conferenza di Glasgow e vede nella realtà quotidiana le dinamiche raccontate nel film. Partiti e istituzioni si dimostrano indifferenti, totalmente orientati al mantenimento del proprio potere attraverso relazioni clientelari. I media coltivano un audience addomesticato, divertito, mai impaurito e sempre coccolato con superficialità e perbenismo.
Ne è un esempio il pressapochismo con cui in Italia stampa e tv trattano la figura della leader del movimento Greta Thunberg. All’inizio elogiata con paternalismo buonista, poi ridicolizzata per smagnetizzare l’urgenza della questione clima e infine esclusa da qualunque visibilità mediatica perché per la radicalità del suo discorso politico non ci può più essere spazio.
La scienza salverà il clima?
Insieme alla crisi e all’inadeguatezza di politica e media, emerge in Don’t Look Up il riferimento al ruolo cruciale e ambiguo di una tecno-scienza che cattura attenzione e fiducia solo quando si presta alla spettacolarizzazione e ai progetti egoici e predatori dei padroni del capitalismo High Tech.
Il film mantiene comunque un elemento di speranza basato su un’idea che il regista ha esplicitato in un tweet: «La scienza per agire contro il mutamento climatico esiste». Questo assunto può essere utile politicamente in una fase triste e segnata dalla non accettazione della crisi climatica. Tuttavia, a leggere gli stessi report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), si tratta di un’affermazione sostanzialmente falsa. Purtroppo.
Soprattutto negli ultimi anni sono state sviluppate prospettive critiche sul presente e modelli teorici di futuro ecologico, ma nella sostanza scienza, tecnologia e forme di relazione con la natura necessarie ad agire dentro e contro il cambiamento climatico devono ancora essere costruite. E andrebbe fatto con urgenza.
Gli scienziati del Panel Onu per i cambiamenti climatici, infatti, ci aggiornano annualmente sulla drammaticità della situazione e su quanto sia necessario ridurre drasticamente le emissioni di Co2 per contenere l’aumento della temperatura al di sotto di 1,5 C°. Per capire come una vera transizione ecologica possa davvero avvenire, però, servirebbero investimenti considerevoli in primis per capire come farlo.
Al momento non ci sono ricette pronte e garantite. Servirebbe tutta l’intelligenza collettiva per proporre ipotesi sensate, sperimentarli, vagliarle. È necessario il supporto di scienze dure e tecnologia, ma serve anche il contributo delle discipline sociali e umane, dalla sociologia all’urbanistica, fino ai saperi pratici come quelli che derivano dall’agricoltura o da altre forme di attività umana. È quanto mai urgente unire sforzi e analisi di chi condivide l’obiettivo di preservare la specie umana sul pianeta contro quelli che vogliono solo conservare i profitti del capitale.
La realtà, però, continua ad andare nella direzione opposta. In Italia la persona che dovrebbe coordinare la transizione ecologica ragiona in modo analogo al miliardario scienziato-tecnocrate del film. Davanti al disastro climatico il ministro Roberto Cingolani si appella a soluzioni tecniciste dalla dubbia efficacia ambientale ma dai risvolti economici certi: mantenere (o alimentare ulteriormente) le possibilità di costruire profitto sulla produzione energetica.
La sua litania ripete le parole nucleare, gas e Carbon Capture and Storage, cioè il faraonico progetto ravennate con cui Eni vuole garantirsi la possibilità di continuare a estrarre gas. L’obiettivo di Cingolani, così come del Ceo della Bash nel film, è preservare il sistema non proteggere il mondo. I movimenti, al contrario, hanno l’obiettivo opposto: sradicare un modello di sviluppo basato su consumo, produzione e morte per difendere la possibilità di vita umana sul pianeta.
Anche Biden è inadempiente
Celada nella sua recensione allude al rischio del ritorno di Trump alla guida degli Stati Uniti. Una possibilità concreta che forse segnerebbe una condanna definitiva (anche) sul piano del cambiamento climatico. Tuttavia a essere inadempiente rispetto agli impegni climatici non è solo la presidenza repubblicana. Lo dimostra il paradosso di un meeting internazionale come la Cop26 che ha solennemente sancito l’esigenza di contenere l’aumento delle temperature a un grado e mezzo sopra quelle pre-industriali senza disporre le misure necessarie e urgenti perché ciò sia almeno possibile. Come se il riscaldamento globale fosse un numero di un termostato che dipende dall’accordo dei grandi della terra, invece della conseguenza di politiche scellerate che riproducono un sistema economico e produttivo insostenibile.
Al meeting di Glasgow hanno partecipato i delegati di Biden che, nonostante discorsi ben diversi da Trump, non hanno ancora prodotto nulla di diverso a livello sostanziale. Nemmeno sui fondi promessi da Obama nel 2009 ai cosiddetti Mapa (Most Affected People and Areas), i paesi che già oggi stanno finendo sommersi dalle acque del Pacifico a causa del cambiamento climatico.
Ovviamente Trump e Biden non sono uguali, ma la critica del regista alla miopia e al negazionismo delle classi dirigenti verso la catastrofe ambientale in corso può valere per Trump come per Biden, o anche per Draghi, Johnson e Macron.
Basta aprire la finestra per vederlo. Proprio in questi giorni, mentre il film scorre sugli schermi, un’ondata anomala di calore attraversa il nostro paese: a fine dicembre sul Monte Bianco fa più caldo che in estate e ad Aosta sono attesi 25 gradi. In tutta l’Europa centrale si parla di 15°C sopra la media stagionale.
Gli effetti del moltiplicarsi e del sommarsi di eventi come questo sono semplicemente impossibili da prevedere. Come nessuno può sapere come sarebbe andato a finire il tentativo di deviare l’asteroide: non averci provato è un crimine, ma il fatto che saperi e tecnologie attualmente disponibili avrebbero potuto garantire il risultato è solo una possibilità. Allo stesso modo, la realtà del cambiamento climatico è molto più complessa e imprevedibile di quanto riusciamo a comprendere con gli strumenti di cui siamo in possesso. Anche la pandemia ci sta mostrando una dinamica simile, mentre “guardiamo ancora in basso”. E probabilmente è solo un antipasto.