cult
CULT
The best of 2021. Immagini espanse
Raccogliamo in questa nostra terza best of tutto ciò che non è né una serie tv né un film. Perché il nostro immaginario visuale si nutre sempre di più di prodotti diversi e non sempre facilmente etichettabili
Il lockdown, la pandemia, l’esplosione delle piattaforme, immagini in movimento su schermi vari. È il 2021, ma era anche il 2020, anni in cui la trasformazione dei nostri immaginari mediali si è forse definitivamente compiuta. Come lo scorso anno, tentiamo una cartografia – imperfetta, incompleta, a giudizio e cura esclusiva delle e degli scriventi – di quanto abbiamo visto muoversi in questo anno passato su tutti gli schermi. Un anno che sembra immobile, ma che presenta invece tanti momenti simbolici che già si sono fissati nell’immaginario collettivo.
STORMING CAPITOL HILL
Storming: prendere d’assalto. Il 6 gennaio 2021 questa parola ha accompagnato le immagini di un palazzo bianco costruito in stile neoclassico due secoli fa che veniva prima assediato e poi occupato da centinaia di persone che correvano, spingevano e sparavano. Un assalto durante il quale morirono cinque persone. Dentro al Campidoglio statunitense i rappresentanti eletti del popolo certificavano l’elezione di Joe Biden a quarantaseiesimo presidente degli Stati Uniti d’America; fuori dal palazzo una parte di quel popolo denunciava inesistenti brogli elettorali e pretendeva che Donald Trump rimanesse per altri quattro anni al 1600 di Pennsylvania Avenue.
Paradossale ma vero, l’obiettivo di entrambe le parti era apparentemente lo stesso: salvaguardare la legalità e garantire il rispetto della volontà popolare. Senatori e rappresentanti attraverso lo svolgimento delle procedure di certificazione dei voti espressi nelle elezioni presidenziali del novembre 2020, i sostenitori di Trump attraverso la denuncia di risultati elettorali falsi e un vero e proprio assalto al Campidoglio per “ristabilire” la volontà del popolo.
L’immagine di Capitol Hill assediato è datata 6 gennaio 2021 ma contiene traiettorie che si sono sviluppate nel tempo; fotografa il processo con cui Donald Trump ha trasformato una parte del corpo elettorale in una fan-base, pronta a eseguire gli ordini del capo, e fissa gli effetti dell’emersione dei movimenti complottisti, rappresentati da QAnon ma eredi di una tradizione complottista con radici solide e datate nella storia statunitense. [Alessandro Pes]
BIDEN PRESIDENTE
Il 20 e il 21 gennaio 2017, cioè i giorni dell’inaugurazione della Presidenza Trump, ci avevano regalato immagini storiche. Prima la sorpresa di vedere Washington DC invasa da quelli che, un po’ impropriamente, verranno poi chiamati “antifa”, con tanto di pugno volante contro il neonazista Richard Spencer – proprio mentre spiegava a un network australiano che no, i nazisti lo odiano, ci mancherebbe, mica è uno di loro. E poi la Women’s March del giorno dopo, una manifestazione mai vista negli Stati Uniti, milioni di persone in piazza, strutture recettive piene mezzi di trasporto in tilt, la città piena di gente e di rabbia e entusiasmo accumulatisi nell’autunno precedente dopo la vittoria elettorale di Trump. Meno frizzante, nel bene e nel male, l’inaugurazione del quadriennio bideniano, complice la pandemia, ma pure complice il personaggio che suscita meno sentimenti, anche qui nel bene e nel male. E poi solo due settimane prima l’orda fascista aveva assaltato il Campidoglio, c’erano più ferite da leccarsi che cose da festeggiare.
Il 20 gennaio 2021 ci consegna però almeno tre immagini iconiche. La prima, e nostra preferita, è la memabilissima posa di Bernie Sanders con i suoi mittens, quei grandi guanti così poco standardarmente eleganti, così nonno. «Da noi in Vermont fa fretto, ci vestiamo con abiti caldi. Non ci interessa troppo la moda. Vogliamo stare al caldo. E questo ho fatto oggi», si è giustamente giustificato il compagno Bernie. E poi, due esibizioni estrapolate dalla non entusiasmante cerimonia: la poesia di Amanda Gorman, il suo vestito di cui si è parlato più che del discorso programmatico di Biden, le infinite polemiche seguite anche per le varie traduzioni (ne abbiamo scritto qui, intervistando Martina Testa); e Jennifer Lopez di bianco vestita che canta This land is your land di Woody Guthrie, con aggiunta di passaggio patriottico in spagnolo e un Let’s Get Loud gridato fortissimo. Di quest’ultima esibizione, passato quasi un anno e ancora non sappiamo bene cosa pensare. [Luca Peretti]
L’ITALIANO PIÙ FAMOSO AL MONDO
L’italiano più famoso al mondo è il giovane TikToker di origini senegalesi Khabane Lame. Classe 2000, cresciuto a Chivasso da quando aveva un anno, Khaby Lame ha conosciuto una popolarità inattesa a partire dal 2020, ma negli ultimi dodici mesi ha letteralmente scalato l’olimpo dei consensi e delle visualizzazioni superando vere e proprie social celebrities su scala globale (tra quelle nostrane, l’imprenditore edonista e danzereccio Gianluca Vacchi, che in qualche maniera è la sua nemesi). A dicembre 2021, nella classifica dei 25 contenuti più visualizzati di sempre su TikTok, otto sono suoi. I titoli dei video sono, ad esempio, “Sbucciare una banana”, “Aprire una porta”, “Aprire la portiera di un’auto”, e cose molto simili. Chi non ricorda il suo nome, è probabile che lo abbia comunque visto sullo schermo del proprio smartphone: senza dire mezza parola, Lame è entrato nell’immaginario collettivo smascherando l’insensatezza e il narcisismo degli altrui video, e in particolare di quelli dedicati a improbabilissimi life hacks, metodi consigliati per ottimizzare la risoluzione di compiti o problemi tutt’altro che complessi. Lame intuisce una cosa molto semplice e allo stesso tempo irrefrenabile: la sovrapproduzione di immagini sui social di tutto il mondo ne ha ormai di gran lunga doppiato il senso, trasformando questi contenitori in freak show privi di logica o per lo meno necessità, dove per sbucciare un cetriolo lo si percorre verticalmente con l’arcata superiore dei denti e per mangiare latte e cereali, piuttosto che trovare un cucchiaio, si preferisce chiudere le fessure di una forchetta con lo scotch. A metà tra una maschera del cinema muto e la prossemica dell’everyman di cui chiunque può riconoscere e apprezzare l’esasperato pragmatismo, Lame corregge in chiave parodica tutto quello che è già parodia di se stesso, cioè l’umanità che esprime non troppo segretamente la propria vocazione a estinguersi. Tutt’altro che esterno al gioco che vuole demolire – il suo è ormai un lavoro che ha permesso al suo patrimonio netto di arrivare ad aggirarsi oltre i due milioni di dollari –, Lame impone tuttavia anche allo spettatore più estraneo o attrezzato di riflettere sul perché voglia assolutamente vedere come egli “corregga” il mondo, in una sorta di resistenza alla sua progressiva derealizzazione. Anche per questo forse, nell’ultimo anno tante celebrità, dal circo del calcio a quello dello spettacolo, gli hanno con piacere fatto da spalla, amplificando ulteriormente il suo successo. Intellettuale malgrado se stesso? Genio dell’autoriflessività del medium? Immagine nazionale che supera confini e pregiudizi in nome di un disperato bisogno di buon senso? Nel frattempo, in Italia da tutta la vita, Khaby Lame figura naturalmente ancora come non italiano. [Marco Longo]
UNO SPLENDIDO (QUASI) SETTANTENNE
Lo si nota di più su Instagram o se resta in disparte? Il giorno prima di annunciare che Tre piani andrà a Cannes, Moretti pubblica un video in cui canta Soldi di Mahmood. Arriva per ultimo, come le vere star, dopo le attrici del film: calpesta il ritornello con la sua finta-vera stonatura, si esibisce allo specchio in versione pinguino elegante. Tornano in mente Apicella e Battiato, il canto della famiglia in automobile ne La stanza del figlio, ma anche Jennifer Beals e l’invidia del ballo (si noti la perfetta specularità tra Hollywood e cinema d’autore italiano: lì si deve saper recitare, cantare, ballare – qui si deve mostrare di non saperlo fare). Lo splendido quasi settantenne sbarca sui social; molti suoi blasonati colleghi, anche più giovani, mancano all’appello, o se ci sono, sono noiosi (si veda l’Instagram di Sorrentino). Da un lato la cinefilia, i Cahiers du cinéma, i girotondi, la minoranza. Dall’altro i like, i filtri, una piattaforma dominata da Cristiano Ronaldo con 379 milioni di follower. Metterli insieme è una scelta stridente, o un’operazione di svecchiamento pop?
Se il mezzo è il messaggio, allora conta esserci, apparire, far parlare di sé: poco importa che il Nanni degli ultimi tempi sia spesso ingrugnito e accigliato, come il protagonista di Tre piani, disperato dal suo non più raccapezzarsi nel mondo. Ecco allora, dopo Cannes, in perfetta continuità regista-attore-personaggio, la foto con gli occhi strabuzzati di fronte alla Palma d’oro per Titane e la didascalia: «Invecchiare di colpo. Succede. Soprattutto se un tuo film partecipa a un festival. E non vince. E invece vince un altro film, in cui la protagonista rimane incinta di una Cadillac». Nell’account social-autarchico, come su un profilo qualsiasi, Moretti mette le foto con gli amici: solo che i suoi si chiamano Tim Burton, Krzysztof Kieślowski, Luc Dardenne, per dire i primi tre capitati scrollando. E ultimamente pubblica molte clip con gli ospiti di Bimbi belli, la sua pluridecennale rassegna con gli esordienti del cinema italiano.Proprio in queste chiacchierate, il Moretti sorridente, arguto, ficcante, inebriato dall’inesauribile passione per il cinema sembra non invecchiare mai. In un patto alla Dorian Gray (per i suoi compleanni, si schermisce postando la foto da bambino) il Nanni-autore ingrigisce, il Nanni-animatore s’illumina. Eccolo che, in un altro video, risponde al telefono del Nuovo Sacher per raccontare che film danno e incoraggiare il pubblico a tornare in sala.
PS: Per onestà è doveroso rivelare a questo punto che ho canticchiato Soldi davanti al video di Moretti. E poi sono andato a vedere Tre piani, al Nuovo Sacher. Quindi funziona, ha ragione lui. E aveva ragione anche Monicelli, che con la sua bonaria cattiveria gli disse nel 1977 che era «il press agent più straordinario che ci sia nella gioventù italiana». [Valerio Coladonato]
IL MURALES DELL’INFINITO
Il murales di Mourinho con la sgasata; il murales di Sarri con la fumata. Una mano a mettere e una a togliere. Quindi ancora il murales di Mourinho con la sgasata; poi di nuovo il murales di Sarri con la fumata… E così all’infinito, in una progressione aritmetica la cui ragione non è calcistica, o almeno non solo quello – perché siamo in una città eterna che ha sempre bisogno di un nuovo pendolo che scandisca il tempo, perché ormai, e ditelo assieme a me, «questa città è un covo di bastardi». Quel murales, quei murales, ci possono dire tante cose, anche sotto sforzo di analisi dell’immagine, e ogni immagine presuppone sempre e comunque una cosa – l’identificazione. La mano romanista che fa, la mano laziale che toglie. Ma mentre tutti i tifosi di Roma e di Vetralla discutono del gesto, noi ci sentiamo come Andrej Rublëv che va a trovare Teofane il Greco e questi lo riprende dicendogli «Ma perché guardi me? Guarda là invece». Ecco, noi che non siamo romani né tantomeno di Vetralla guardiamo solo l’affresco di Teofane, cercando di afferrare, ottenere l’identificazione. Che passa dal 2004 del tuo primo anno di università quando fai la foto per la biblioteca sotto la metro Flaminio, mentre sei sulla via dell’Olimpico per un Roma-Palermo (1-1); o dall’agosto 2015, prima giornata di campionato (Verona-Roma, sempre 1-1), quando sei al Bar Basso di New York assieme agli altri e nell’intervallo tutti parlano del funerale di Vittorio Casamonica a Don Bosco. Guardare quel murales è rivedere tutti i riti etnografici di intensificazione e incorporamento a cui sei andato incontro tu che non sei di questa città ma di questa squadra – non sei romano ma neanche di Vetralla, quindi questa doppia negazione ti consente di diventare giallorosso. Ma anche ricordare come Bovalino e la Bovalinese, il paese e la squadra sullo Jonio da cui trasmigri, sono te e tutte le variazioni possibili di te – mio fratello che affitta casa ai due argentini che ci giocano, mio cugino che fa il dirigente. Di come vivere e tifare in quei posti sia la cosa più antistorica che ci sia, e quindi la più politica. E l’anno prossimo, quando il tempo passato nella Magna Grecia e quello nell’Urbe saranno allineati, guardando il murales di Mourinho/Sarri, quale identità liminale verrà fuori? Forse l’amaranto del passato si fonderà con il giallorosso del presente. Forse mi ritroverò a gracchiare ancora una volta i Replacements – «I used to live at home, now I stay at the house». [Luigi Coluccio]
GIORGIO SALVATORE DELLA PATRIA
All’ultimo minuto della finale dei campionati d’Europa di calcio, è meglio non fare stupidaggini. L’ultimo uomo da cui ci si aspetta una stupidaggine è Giorgio Chiellini, la definizione stessa di difensore, un uomo che pare nato per impedire agli avversari di fare gol. Pochi come lui hanno trasformato l’arte difensiva nella minimizzazione assoluta dell’errore, e in un istinto a tratti disperato e primordiale nel fermare gli avversari. Eppure, all’ultimo minuto della finale dei campionati d’Europa di calcio, tra Inghilterra e Italia, Chiellini commette un errore, il primo della partita. Calcola male un rimbalzo del pallone che sta per sfilare in rimessa laterale e, prima che possa finisci, Bukayo Saka, che ha 17 anni meno di Chiellini, lo controlla con la coscia in avanti.
A quel punto Saka potrebbe mangiarsi la metà campo dell’Italia e finire a tu per tu con Donnarumma. Mentre nella sua testa comincia a prendere corpo questa visione, Chiellini gli tira la maglia, rude e spicciolo. Saka non se l’aspetta, spalanca la bocca di stupore mentre gira la testa all’indietro e cade a terra. Ci sono immagini di una partita che riescono a rompere l’immaginario anche più di un gol e di Inghilterra-Italia ricordiamo più volentieri il fallo di Chiellini su Saka piuttosto che il gol confusionario di Bonucci, con cui abbiamo pareggiato e rimesso in piedi un risultato incartato. La celebrazione memetica ne è la conferma: Saka che viene fermato mentre tenta il suicidio; Saka che è l’ananas che sta per finire sulla pizza; Saka che non riesce a unirsi ai danzatori di Matisse. Saka che è “Coming home”, Chiellini che è “Coming Rome”. Nessuna immagine sintetizza meglio l’andamento della finale. La freschezza giovanile e un po’ naïve di Saka, fermata dall’astuzia cinica del vecchio Chiellini: il modo in cui l’Inghilterra piace vedersi – leale, custode dei valori sportivi – e il modo in cui l’Italia piace vedersi – in sostanza, più furba degli altri. L’Italia di Mancini ha costruito la vittoria su un coraggioso rinnovamento della propria identità tattica (che è sempre un’identità culturale), ma nei momenti di maggiore difficoltà ha saputo stringersi attorno ai propri valori eterni: la furbizia, il cinismo, l’arte difensiva, la capacità di resistere alle avversità. Il fallo di Chiellini ci ha offerto un’immagine efficace di come ci piace vederci, che in un mondo che cambia certe cose di noi rimangono in fondo sempre le stesse. [Emanuele Atturo]
AUTONARRAZIONI E AUTISMO SU INSTAGRAM
Instagram è il luogo delle autonarrazioni. E per alcuni questo è già insopportabile: schiere di influencer – o aspiranti tali – che si fotografano nelle peggiori pose dell’anno e che danno le loro opinioni mai richieste per ore di fronte alla telecamera del telefono. Bianche, magre, belle, perfette. Tutto già visto, niente di nuovo. Come vivere dentro una copertina di “Cioè” ventiquattro ore su ventiquattro. Allo stesso tempo questo è lo spazio dove tante voci escluse dai magazine e dai racconti televisivi ora possono esprimersi, in una pluralità dispersiva e difficile da seguire ma allo stesso incredibilmente ricca e differenziata. In questa palude social, le voci delle persone disabili sono delle gocce preziose e necessarie da seguire per le persone normodotate e probabilmente abiliste (anche senza saperlo). Sono pagine che ci pongono delle giuste domande e che invitano a spostare lo sguardo in punti di vista per noi sconosciuti (anche solo perché non abbiamo mai avuto problemi per prendere un autobus). Tra queste pagine instagram quelle che scelgono una lente transfemminista intersezionale oltrepassano ogni spettacolarizzazione, buonismo e patina caritatevole. Nella nostra classifica scegliamo di inserire un profilo non tra i più famosi, ma che ci ha colpito perché ci apre una finestra su mondi a noi sconosciuti, e lo fa distruggendo la finestra a colpi di sassate. @lunnylunnylunny è una persona autistica diagnosticata in età adulta che racconta la sua neuroatipicità. Non è un racconto buono, è difficile, stride con quello che (non) sappiamo dell’autismo e non chiede compassione.
A chi punta il dito contro l’attivismo digitale @lunnylunnylunny spiega: «Hai idea, compagna femminista e abilista, dell’importanza che hanno le piattaforme digitali per le persone autistiche, neurodivergenti, disabili?». Se solo in alcuni luoghi si svolge la lotta reale e dunque la vita vera, e in altri no, ci avverte: «praticamente stai squalificando la nostra esistenza». E come succede spesso questo racconto diventa una communita online che si riconosce nella stessa esperienza. Con @lunnylunnylunny interagiscono mamme, persone che chiedono informazioni e altre persone autistiche. Questo non è un punto di vista medico, né psicologico, ma una persona autistica informata e consapevole che racconta sé stessa, i suoi stati d’animo e le sue difficoltà in un mondo abilista che la discrimina. Corpo, sessualità, discriminazioni, senso di colpa, stereotipi, razzismo: questo racconto aiuta tutt_ a riflettere su sé stessi. Come spiega @lunnylunnylunny in un video sul perché sia importante parlare di autismo: «prima di tutto perché siamo una delle minoranze più numerose del mondo, eppure di noi non solo non si sa quasi nulla che vada oltre gli stereotipi, ma anche l’accesso alla diagnosi e al supporto è ancora oggi una nube di fumo. Abbiamo diritto di sapere chi siamo e come funzioniamo e dovremmo avere diritto a una rete di sicurezza adeguata, senza contare che in ballo c’è la liberazione e la legittimazione di diversi funzionamenti mentali, non è possibile che l’autismo rimanga fuori dal discorso sui diritti civili. Per quanto mi riguarda è un tema femminista ingiustamente trascurato, non solo perché le donne sono drammaticamente sottodiagnosticate, e questa è una conseguenza diretta del sistema patriarcale, ma perché se lottiamo per la liberazione dei corpi e delle identità come possiamo lasciare indietro le differenti condizioni del neurosviluppo?». [Vanessa Bilancetti]
MERAVIJOSO
«Cos’è Roma? Roma è un sogno…». Con questa asserzione surreale, e per certi versi visionaria, Enrico Michetti si presenta agli elettori il 29 luglio 2021 come aspirante sindaco della Capitale. In quei giorni, la città è tappezzata da manifesti con il faccione dell’avvocato romano su sfondo blu, accompagnato dalla scritta «Michetti chi?». Attraverso la circolazione virale del video del suo intervento, catturato in occasione di un confronto con gli altri candidati e rimontato in formidabili mash-up che invadono subito tutti i social, i romani possono finalmente farsi un’idea di chi sia il candidato scelto dal centro-destra (nello specifico, da Giorgia Meloni) per governare la città più ingovernabile d’Italia.
La campagna elettorale di Michetti, e di conseguenza la sua «visione» della città, è tutta in quel video. L’avvocato di Monteverde fa costantemente riferimento ai fasti della Roma imperiale, quella «civiltà romana» che ha dato al mondo intero «acquedotti, strade, bagni, tutto!», invitando i presenti a dare uno sguardo alle «arcate di quegli acquedotti: meravijose!». La romanità prima di tutto. Michetti è un concentrato post-moderno di decenni di macchiettismo romano visto al cinema e, quotidianamente, per le strade della città: il collettone ultra-rigido della camicia, rigorosamente sbottonata; la posa sbragata e il fare disinvolto di Angelo Bernabucci in Compagni di scuola. Il tutto mescolato con uno sguardo à la Clint Eastwood, con un occhio più chiuso dell’altro, teso verso l’orizzonte degli acquedotti, la nostra Monument Valley. L’esperienza da speaker a Radio Radio lo ha trasformato in un tribuno del populismo radiofonico, tanto da essere quasi credibile quando teorizza un’economia creativa fatta di «finanziamenti a valle», anziché «a monte». A un certo punto, nel bel mezzo di una civilissima discussione tra Gualtieri e Calenda, si alza e se ne va, dando vita all’ennesimo momento kafkiano, condito dal commento lapidario e un po’ stizzito: «eh no, la rissa no!». Un personaggio irresistibile, da commedia all’italiana, che sembra quasi scritto da Rodolfo Sonego per Alberto Sordi. Anche per questo, vincerà il primo turno con poco più di 300 mila voti, per poi essere doppiato da Gualtieri al secondo.
L’inclinazione alla gaffe (dagli ebrei che se la sono cercata ai «laconici» risultati del secondo turno) finisce per umanizzarlo, renderlo simpatico a tutti i costi, normalizzandone quel cameratismo di fondo in chiave prêt-à-porter. In un intervista a “Il Tempo” gli chiedono qual è l’angolo di Roma che gli piace di più. Lui risponde senza esitazioni: «Il Gianicolo! Perché era il posto che te aiutava tanto in certi momenti… tra er Fontanone e er Gianicolo potevi cambia’….eh, certo…». Più laconico di così. [Damiano Garofalo]
L’ULTIMO SOLDATO
L’ultimo soldato statunitense a lasciare l’Afghanistan è anche uno dei primi ad arrivarci. Christopher Todd Donahue – questo il nome del generale dell’82esima divisione “Airborne” che appare nella foto-simbolo della “disgregazione” americana a Kabul – è infatti impiegato nell’esercito dal 1992 e fin dal 2002 ha servito nelle guerre contro i “barbuti”, partecipando ad almeno quattro missioni. Lo vediamo “catturato” dalla camera a infrarossi del cargo su cui sta per salire e il cui decollo lascerà definitivamente campo libero ai talebani pronti a dichiarare «vittoria». Un’immagine che racconta la fine di un’epoca ma anche il suo eterno ritorno: qualcosa di iconograficamente molto distante dalle “pose plastiche” delle truppe sovietiche che lasciavano il campo nel 1989 e si offrivano consapevolmente all’obiettivo, eppure (per forza di cose) in continuità storica con quegli avvenimenti. Ma ancor di più in continuità le “guerre in diretta” inaugurate proprio dagli Usa con il loro impegno nel Golfo: l’immagine “snaturata” di Donahue, in cui colori e sfocature sono appiattiti su di un’unica frequenza cromatica, ricorda le riprese atone e asettiche del bombardamento di Baghdad del 17 gennaio 1991. Si tratta, d’altronde, dell’esemplificazione visiva di quei conflitti asimmetrici che – come annota Emanuele Giordana nel suo articolo Guerre asimmetriche del nuovo millennio per DINAMOprint – «tendono a trascinarsi: a iniziare ma non a terminare […], a farci abituare alla guerra come a una delle tante forme della quotidianità moderna». Uno scatto di guerra nell’era della sua riproducibilità tecnica, insomma, laddove “sua” si può riferire a piacimento sia al primo che al secondo termine. Così Christopher Todd Donahue è l’ultimo soldato statunitense a lasciare l’Afghanistan, l’ultimo per ora. [Francesco Brusa]
I VIROLOGHI CANTERINI
Sono ovunque. Di solito si presentano così: camice bianco, se maschi con cravatta sotto, collegamento dallo studio (meno spesso da casa), aria dura e linguaggio preciso, ma pure a tratti rassicurante. Ci sono eccezioni: Bassetti per esempio, che di solito si collega dal suo studio con tanto di gagliardetto dell’università di Yale in bella vista, lo si è visto di recente anche in una sorta di baita di montagna, girocollo bianco avorio elegantissimo, posa casual, look da uomochenondevechiederemai.
Hanno stili diversi, tanto che si stilano classifiche di gradimento, ci si schiera per l’una o per l’altro. Molti li abbiamo imparati a conoscere ora, altri arrivano da lontano – soprattutto Burioni, che ha ormai un suo neologismo, burionismo. Medici, virologi, epidemiologhi, esperti vari sono tra le presenze fisse (soprattutto televisive) di questi ultimi due anni. Capua, Cristanti, Galli, Palù, Pregliasco, Ricciardi, Bassetti, Zangrillo… non è la formazione dello scudetto, sono alcuni dei più noti. La loro presenza è importante, devono spiegare, aiutarci a capire. Il fatto è che non sempre conoscere la scienza e saper comunicare coincidono e la lista di gaffe e dichiarazioni affrettate è lunga e impietosa. E inevitabilmente, sono anche diventati delle star, con tanto di libri e trasmissioni TV a contenderseli. Non tutti, come succede al personaggio di Di Caprio in Don’t look up, interpretano benissimo questo nuovo ruolo pubblico – non stupisce che, secondo il Censis, circa la metà degli italiani ne farebbe volentieri a meno. Il punto più basso però lo si è raggiunto di recente, con la cringissima canzoncina sì sì vax sulle note di Jingle Bells. Eccoli, split screen e intonazione dubbia, Cristanti Pregliasco e Bassetti, «sì sì sì sì sì sì vax vacciniamoci, se tranquillo vuoi stare i nonni non baciare […] Il covid non ci sarà più se ci aiuti anche tu. Se vuoi andare al bar felice a festeggiar le dosi devi far». Sono disposto a pagare per parlare con una persona che è stata convinta a vaccinarsi da questo video. C’è già un remake, naturalmente molto più bello dell’originale: duetto Pregliasco-Jerry Calà dal salotto di Myrta Merlino su La7. Jerry Calà però farebbe questo di mestiere. [Luca Peretti]
CACCIARI FURIOSO
Nelle ultime settimane è tornato alla ribalta per la sua partecipazione alla Commissione “Dubbio e Precazione” insieme ad Agamben, Freccero e Mattei: Massimo Cacciari, professore emerito all’Università Vita-Salute San Raffaele, è noto ai più per essere un ospite ricorrente nelle trasmissioni di La7, ai meno per essere stato sindaco di Venezia per dodici anni (dal 1993 al 2000 e poi dal 2005 al 2010) e a un gruppo ancora più sparuto per i suoi contributi riguardanti la teoria operaista tra gli anni Sessanta e Settanta. In quanto filosofo di vaglia, Cacciari viene chiamato in televisione perché possa esprimere la propria visione del mondo, dalle predizioni sulle nuove forme di autoritarismo alle scelte politiche in campo epidemiologico. I toni con cui affronta simili temi afferiscono a uno schema ricorrente: si tratta di formule prosodiche che oscillano fra l’astenia depressiva di chi, in maniera rassegnata, propone da troppo tempo, senza venire ascoltato, soluzioni ai gravi problemi cha attanagliano il mondo contemporaneo e la reazione furiosa che turbina nel momento in cui, secondo la sua opinione, ciò che viene detto ha poco senso.
Al di là dei contenuti espressi, sono i tratti soprasegmentali a essere il messaggio nelle affermazioni di Cacciari, perché, nonostante l’allure da filosofo, egli è diventato ormai un personaggio televisivo dotato di un perfetto senso del timing: al momento giusto può affermare, con la tranquilla serenità di chi ha squarciato il velo di Maya, che, in merito alla diffusione del coronavirus o a qualsiasi altro fenomeno, «i fatti non esistono, capito? È l’ordine che dà i fatti, la gerarchia dei fatti, l’interpretazione dei fatti, non c’è nessun fatto senza interpretazione»; pochi minuti dopo, può essere ripreso dalle telecamere mentre urla contro un interlocutore togliendosi nervosamente auricolare e microfono. Lo spettro di reazioni a cui ci ha abituato è ormai estremo: esse appaiono in grado di mescolare un’aggressività “sgarbiana” a posizioni filosofiche complesse all’interno di un dibattito pubblico in cui le polarizzazioni pro/contro, bianco/nero e sì/no sono ormai centrali. Cacciari, a livello soprasegmentale, sembra adattarsi a un simile contesto, tenendo a sua volta una condotta “polarizzata” – dall’euforia all’astenia – mentre tenta di veicolare contenuti focali per il dibattito contemporaneo – si pensi al tema del rapporto fra fatto e interpretazione. A tal proposito, tuttavia, una domanda non può che emergere in tutta la sua forza: perché il filosofo veneziano continua a tingersi i capelli? [Diego Cavallotti]
DOMANDE DI UN RENATINO D’ESTATE
Quanto costerà un volo per Lisbona?
Sul sito RyanAir c’è scritto 45 euro.
Mi porta RyanAir dalla stazione all’aeroporto e viceversa all’andata e al ritorno?
Parigi tante volte schivata,
Chi altrettante mi ci vuole mandare?
Ma questi Amigos ci sono mai stati a Cuba?
Dove potrei andare in vacanza se mi mettono per un mese in cassa integrazione?
Il mare è pieno di gente ad agosto. Che idea è mandare in ferie tutti le stesse tre settimane?
La tredicesima me la pagheranno mai?
Anche nella leggendaria Indesit
Nel giorno che Merloni dichiarò di aver ceduto alla Whirpool,
licenziò dipendenti implorando il loro aiuto.
Il giovane Agnelli portò CR7 alla Juve.
Coi soldi delle magliette?
Draghi sconfisse il populismo. Senza le sue politiche sarebbe esistito?
Fornero pianse quando la sua legge venne approvata. Nessun altro pianse?
Conte vinse il Recovery Fund. Ci ripigliamo?
Ogni giorno un’ora di straordinario.
Chi me la paga? Ogni anno un incremento dell’utile.
Me lo rinnovano il contratto?
Tante vicende.
Tante domande. [Renato Brecht]
MIXTAPE
- La sessione di workout dell’insegnante di ginnastica birmana mentre dietro il golpe.
- LOL – Chi ride è fuori, il reality-webserie-game show con i comici italiani. Altissima produzione di meme, soprattutto “so’ Lillo”.
- Non ci sono solo i virologi canterini: This girl is on Pfizer ha rovinato i sonni di molte persone.
- Tra i tanti momenti, alcuni un po’ stucchevoli, dell’anno sportivo-patriottico italiano, l’abbraccio tra i due ori dell’atletica Marcell Jacobs e Gianmarco Tamberi.
- I cinghiali a Roma, video di tutti i tipi che ormai non fanno più notizia.
- Le immagini della Ever Given che blocca il canale di Suez e il traffico delle merci di mezzo mondo.
- L’assalto alla sede nazionale della CGIL.
- Tra le decine di profili Tiktok e Instagram emersi quest’anno, quello delle eterobasiche.
- L’assurdo video con Gesù che sconfigge il Coronavirus diventato improvvisamente virale.
- Due momenti del G20 a ottobre a Roma: i leader mondiali schierati che gettano la monetina nella fontana di Trevi (con tutto il centro storico della città blindato e deserto) e Mario Draghi che chiede a Boris Johnson «did you say Opium?»
In copertina: l’assalto al Campidoglio a Washington DC del 6 gennaio 2021. Wikimedia common.