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E se raccontassimo favole?

Il rapporto tra immaginazione, storytelling e politica: ne parliamo con Stephen Duncombe.

Uno dei tormentoni elettorali del leader del centrosinistra Pierluigi Bersani in questa campagna elettorale è stato “Noi non raccontiamo favole”. Quello slogan è l’indice di quanto i partiti che si oppongono a Berlusconi non riescano a comprendere il fenomeno-Grillo e abbiano difficoltà ad articolare il linguaggio delle storie. Esauritosi l’afflato della “narrazione” vendoliana, il rapporto tra immaginazione, storytelling e politica viene affidato ai due uomini televisivi per eccellenza di questa campagna elettorale: il magnate e il comico.

Il rapporto, complesso ma imprescindibile, tra il raccontare storie e la comunicazione politica è stato affrontato in questi anni da diversi autori e in diversi contesti. C’è il ragionamento attorno alla costruzione collettiva di miti e alla narrazione aperta e orizzontale che i Wu Ming portano avanti dalla loro nascita contribuendo assieme ad altri a riportare al centro del panorama culturale delle sinistre l’importante lavoro di Furio Jesi sulla cultura di destra e sull’uso dei miti. C’è, ancora, il lavoro di Henry Jenkins, anche questo “sponsorizzato” dall’interesse del collettivo dei Senza Nome, sul rapporto tra narrazioni e cultura partecipativa del web. Di questo e molto altro trovate traccia in Giap, blog dei Wu Ming, e nella raccolta ragionata della loro attività sul sito che trovate raccolta nell’ebook “L’archivio e la strada”, uscito giusto qualche giorno fa a cura di Tommaso De Lorenzis.

Insomma, se ne discuterà ancora, con ogni probabilità, in occasione dell’edizione italiana del libro di Yves Citton “Storytelling. Mitocrazia e immaginario della sinistra”, in uscita in primavera per le edizioni Alegre. (trovate qui un’ottima recensione che sintetizza bene l’approccio di questo volume).

Per dipanare questa matassa abbiamo raggiunto Stephen Duncombe, docente di cultura dei media alla New York University. Duncombe si inserisce perfettamente nella galassia di autori che “da sinistra” e soprattutto dalla prospettiva dei movimenti hanno ragionato di narrazione e politica, e della necessità di usare l’immaginazione e lavorare sull’immaginario per costruire conflitto e consenso. È stato autore, nel 2007, di “Dream”, un saggio che ha fatto molto discutere la sinistra americana e cheè stato elogiato da autori come Naomi Klein, SlavojZizek e Michael Hardt. In quel testo, Duncombe denuncia che proprio la generazione sessantottesca de “L’Immaginazione al potere” ha abbandonato i territori dell’immaginario per accomodarsi sul pragmatismo. Cita le Tute Bianche degli anni Novanta e gli inglesi della Rebel Clown Army, spiega alcune mosse dei movimenti del Lower East Side newyorchesde, ma utilizza esempi insospettabili come il videogioco “Grand Theft Auto” o la città-casinò di Las Vegas, per spiegare come si possa utilizzare l’immaginario del consumo e le narrazioni dominanti a proprio favore.

Nel nostro colloquio, che è stato anticipato lo scorso 16 febbraio dal Manifesto, Duncombe parte da questo paradosso: “Il problema deriva dalla realtà. I progressisti ci credono, i conservatori credono che questa si possa creare”. Per cominciare la nostra discussione, gli sottoponiamo lo slogan del leader della coalizione di centrosinistra. “’Non raccontiamo favole’ è la classica risposta di centrosinistra – argomenta Duncombe – Dietro questa frase c’è questo assunto: loro non hanno bisogno di raccontare favole perché dicono è la verità. Pare bello e buono. Ma anche molto ingenuo”.

Che intendi per ingenuo?

Noi prendiamo contatto con il mondo attraverso le storie che raccontiamo. La verità non è auto-evidente, non rivelerà mai se stessa. Dunque, questa posizione ha radici nel pensiero dell’Illuminismo, ma è sbagliata, almeno oggi è sbagliata. La verità ha bisogno di essere aiutata. Ha bisogno di “avere senso” per la gente, e ciò accade quando questa è inserita in una narrazione che spiega la sua importanza e la connette con la vita del resto delle persone. In breve, anche la sinistra ha bisogno di raccontare storie sulla verità. Voglio essere chiaro: abbiamo bisogno anche della verità. Una storia senza verità è una bugia, e credo che a questo si riferisca Bersani quando parla di “favole”: alla tendenza di Berlusconi e di altri a destra a raccontare storie divertenti su qualunque assurdità gli capita di sognare. Ma Bersani sbaglia, e questo è un errore tipico del centrosinistra, se pensa di mettere in contrapposizione il “narrare storie” con il mero dato di fatto. No, bisogna contrastare il racconto di storie false con la narrazione di storie vere.

Hai scritto “Dream” mentre Bush Jr. era al governo, spiegando come lui e il suo governo dicessero cose palesemente false eppure più convincenti delle “verità” dei democratici, come nel caso delle menzogne circa le “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein per giustificare la guerra all’Iraq. Poi qualcosa è cambiato.In che modo Barack Obama ha utilizzato politicamente l’immaginazione?

Spero soltanto che Obama possieda la capacità di raccontare storie e illudere che avevano Bush e la sua amministrazione. Obama ha dimostrato di essere molto bravo con queste cose, quando vuole: tutte e due le sue campagne presidenziali, particolarmente la prima del 2008, erano piene di visioni utopiche. Ma una volta giunto al potere, Obama ha smesso di maneggiare i sogni e ha cominciato a trafficare con gli affari. Non era più interessato, ad esempio, a raccontare una storia nella quale potessero entrarci le sue politiche sulla sanità, piuttosto si è messo a fare accordi coi repubblicani. Una tipica strategia da élite burocratica. L’ironia sta nel fatto che questa strategia ‘realista’ non ha funzionato. La destra non aveva interesse a fare accordi e cosìObama è stato lasciato senza una visione dalla quale attingere per ottenere poi il sostegno del popolo americano. Questa volta, sembra di capire che ha imparato la lezione. La proposta sul controllo delle armi, per esempio, è stata accompagnata da molte narrazioni e grandi sogni sul senso della comunità e della responsabilità.

Tornando all’Italia, stiamo sperimentando qualcosa che pare molto vicino alle tue tesi. Lenny Bruce aveva scritto un libro intitolato “Come parlare sporco e influenzare la gente”. Dopo venti anni di Berlusconi abbiamo uno strano partito fondato (e posseduto) da un comico, Beppe Grillo, e dal suo socio Gianroberto Casaleggio, che è un manager esperto di web-marketing. Hanno sottratto molti temi ai movimenti sociali, occupando gli spazi lasciati liberi dalla sinistra e utilizzando al tempo stesso le regole dello spettacolo per creare un’organizzazione ibrida e carismatica e il web per dare vita a gerarchie rigide ma di nuovo tipo. Se l’Italia è stata negli ultimi anni, come pensano molti, un laboratorio delle forme politiche a venire, come pensi che il cosiddetto grillismo possa espandersi oltre i confini nazionali?

La politica dell’assurdo è una risposta all’assurdità della politica. Negli Stati Uniti, la maggior parte dei giovani apprende le notizie politiche più da Jon Stewart, un comico, che da ogni altra fonte. Credo che ci siano due modi di guardare a questo fenomeno. La prima è l’orrore, per il fatto che ci siamo arresi al modo in cui la politica è diventata una specie di barzelletta, cercando una risata o sperando di essere intrattenuti piuttosto che aspirando al coinvolgimento e alla determinazione del nostro destino. Voglio dire, dopo tutto non è questa la storia di Berlusconi? Magari è un farabutto, ma almeno è divertente!

Il secondo modo di osservare tutto ciò è meno deprimente. I clown – i pagliacci coscienti del loro ruolo come Grillo o Stewart – nel corso degli anni sono stati in grado di dire cose al di fuori delle norme del discorso della politica ‘rispettabile’ e in questo modo ci consentono di espandere la possibilità di cosa la politica potrebbe essere. Ci danno la chiave per evadere dalla prigione del possibile e di immaginare e osare cose nuove e impossibili. E questa capacità di immaginare è necessaria per ogni cambiamento politico reale.

Scrivi che la capacità di utilizzare le storie non è soltanto una tattica ma un modo di pensare e agire la politica. Puoi spiegarci cosa vuoi dire?

Occorre comprendere i desideri e i bisogni della gente comune per dare vita ad una politica che abbia risonanza con la situazione in cui le persone si trovano, non con quella in cuivorremmo che fossero. Tuttavia, ciò non significa che si debba rinunciare a muovere le idee e le azioni della gente. Non sto sostenendo una specie di populismo conservatore che enfatizza il valore della saggezza dell’uomo qualunque. Si tratta di cambiare il modo in cui la gente pensa e si comporta, ma anche di riconoscere che ciò avviene quando si connettono più persone grazie ad un linguaggio che esse comprendono. Significa anche attingere ai sogni che magari si fanno ma che vengono pervertiti o addormentati nel consumismo. Me l’ha insegnato Antonio Gramsci.

Il tuo ultimo lavoro si occupa di indagare la relazione tra il punk e il tema della razza. In passato ti sei occupato della stampa underground. Dunque hai studiato anche le sottoculture e la vita spesso sotterranea dei movimenti radicali, il loro immaginario e le loro azioni. In Italia c’è un patrimonio inestimabile in termini di produzione culturale indipendente che solo in alcuni momenti riesce a organizzarsi e farsi valere in maniera autonoma. Questo patrimonio ci torna utile al fine di mettere insieme politica e sogni?

L’underground spesso articola e comunica politiche radicali, magari sotto forma di resistenza al potere o di sogno di come sarebbe una società migliori. Il punto è che lo fa adoperando un linguaggio che è accessibile ai settori più marginali della popolazione: giovani, omosessuali, migranti, minoranze etniche. È un linguaggio accessibile perché sono loro stessi a crearlo. Al contrario della sfera legale, politica, tecnica o educativa, con la loro formazione e le relative competenze, la cultura è un’arena aperta a chi agisce dal basso. E… potrebbe trattarsi di “politica” che rimane ingabbiata nella sfera culturale e resta così, in termini politici, senza conseguenze. Il rumore e il furore non significano nulla. Se cotanto radicalismo rimane nella sfera culturale il suo unico impatto politico è dannoso, è solo un modo per sfogarsi o il prossimo prodotto “ribelle” da impacchettare, mercificare e rivendere. La chiave – e questo è il vero lavoro politico da fare – è muovere dalla sfera culturalea quella politica, dalla parola all’azione. Devi saper sognare per costruire una nuova società. Ma se ti limiti a sognare, allora significa che stai dormendo.