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I Beni Comuni salveranno la Città
Appunti giuridici, e non solamento, sull’amministrazione di Roma, i bandi pubblici e Mafia Capitale: una riflessione su città e beni comuni nell’attualità romana.
1. Le due degenerazioni del sistema amministrativo
La questione di Mafia Capitale ha portato alla luce due polarizzazioni estreme dell’amministrazioen della città. Due eccessi. Dapprima, si è assistito ad un sistema fondato quasi esclusivamente sulle relazioni clientelari – o comunque di tipo personale e opportunistico – con personale amministrativo o politico. Un sistema, per così dire sostanzialistico, in cui le forme servono solo per legittimare delle decisioni già prese in base a relazioni personali e finanche a forme di corruzione. Poi, come reazione al primo, si è passati ad una sorta di feticcio del formalismo, che ha enfatizzato ogni seppur minima procedura e formalità, intesa come espressione di legalità e rispetto delle regole finalmente raggiunto.
La giunta Marino ha incarnato, anche dal punto di vista ideologico, quest’ultimo sistema, a partire dall’idea di scegliere gli assessori in base ai curriculum, per poi inciampare lui stesso proprio su scontrini, procedure e carte bollate. Ma mentre è facile comprendere i mali del primo sistema, va detto che anche l’eccesso di formalismo mina la vita democratica. Questo è ben visibile nella vicenda attinente alla gestione del patrimonio pubblico, in cui l’amministrazione ha deciso o di privatizzare, come è avvenuto con il patrimonio Atac, ovvero, di adottare dei bandi pubblici di assegnazione, e ciò del tutto a prescindere dai contesti in cui i beni si trovano, la natura dei territori e dei quartieri in cui insistono, le storie che li attraversano. L’eccesso di formalismo, lungi dall’essere il precipitato amministrativo del sistema democratico, rappresenta un argine all’accesso dei cittadini e dei lavoratori alla cosa pubblica.
2. I limiti strutturali del sistema amministrativo
In queste brevi note, vorrei provare a fare un piccolo passo indietro rispetto alla cronaca e alle seppur importanti questioni contingenti per provare ad analizzare alcune questioni di fondo, interrogate dalla polarizzazione di cui ho detto. Penso infatti che gli eccessi descritti rimandino a limiti strutturali del sistema amministrativo, che si presenta inidoneo a sostenere una idea matura di democrazia.
Per cogliere ciò, ci torna utile la categoria dei beni comuni. La struttura amministrativa dello Stato come la conosciamo oggi è relativamente recente e sorge con lo Stato moderno e con l’affermazione del principio della divisione dei poteri. Si tratta quindi di uno degli esiti della rivoluzione francese. Si afferma, in particolare, con l’emergere del potere esecutivo come apparato autonomo. Questo apparato, allora e oggi, si regge su due principi: Il principio di autorità e il principio della immedesimazione organica.
Il primo attiene alla relazione tra p.a. e cittadini, ponendo questi ultimi in una condizione di soggezione rispetto alla prima. Alla relazione orizzontale tra diritti e doveri che caratterizza il diritto civile, l’ordinamento amministrativo contrappone lo squilibrio della coppia potere amministrativo- interesse legittimo.
Il secondo, attiene alla esplicazione della funzione amministrativa, stabilendo che la persona fisica all’apice della p.a. – l’organo appunto – possa adottare gli atti amministrativi, imputandoli direttamente alla p.a.
Quindi la commistione tra i detti principi tratteggia il profilo del sistema amministrativo che affida a dei funzionari l’obiettivo del perseguimento dell’interesse pubblico escludendo i cittadini, degradati a meri spettatori – portatori non di diritti ma di interessi legittimi – della realizzazione del bene collettivo. Ovviamente non ignoro la presenza di disposizioni normative volte a mitigare le rigidità del sistema sopra descritto, quali ad esempio le norme sulla partecipazione dei cittadini al procedimento amministrativo ovvero il sistema di controllo sull’operato degli organi, il diritto di accesso ecc.
Va detto però che tali interventi non scardinano l’essenza del sistema. Questa la tesi: un sistema siffatto si presenta permeabile sia alla logica mafiosa, concentrando poteri sui funzionari all’infuori di un discorso condiviso, sia agli eccessi burocratici, mentre al contrario sbarra l’accesso alle istanze che provengono dal basso.
3. I beni comuni come nuovo modello di amministrazione
La categoria dei beni comuni presenta le potenzialità per immettere nel sistema, non solo dei correttivi, ma degli elementi di inversione della logica che lo anima. Si discute sulla definizione di beni comuni. E non sono certo io in grado di dirimere. In questa sede basta precisare che possono essere intesi come Beni Comuni solo quei beni, Pubblici e/o Privati, che vengono gestiti e curati direttamente da comunità di cittadini in vista di un interesse collettivo.
Il cittadino quindi dismette la posizione giuridica di interesse legittimo che lo estromette dalla gestione del bene e gli conferisce solo l’ interesse a che la cosa pubblica venga gestita correttamente dai funzionari pubblici per acquistare il potere diretto (ovvero la posizione giuridica tipica della P.A.) di gestire il bene pubblico. Si inverte quindi la sua posizione nel rapporto con la p.a. che, con riferimento al bene comune, da titolare di un potere gestionale, acquista la posizione di interessata alla correttezza della gestione. Una situazione di fatto, verificabile, trasparente e sempre collettiva, viene riconosciuta dall’ordinamento. Compare copernico all’orizzonte.
Vi è di più. Non solo i cittadini sono legittimati a gestire la cosa pubblica, ma addirittura “creano” i beni pubblici, nel senso che con la gestione collettiva e democratica e perseguendo l’interesse pubblico conferiscono al bene una natura pubblica –o meglio comune – che non necessariamente gli è intrinseca. Del resto tale conclusione , accolta di recente anche dalla giurisprudenza, si presenta come diretta conseguenza della struttura della categoria dei beni comuni, dove l’essenza pubblicistica deriva dalla gestione e non dalla titolarità che, al limite, può pure essere privata.
La categoria dei Beni Comuni, vista sotto il profilo delle sue implicazioni nella funzione amministrativa, è un detonatore alla struttura autoritaria del sistema, presentandosi – ovviamente non da solo né magicamente- come una antidoto alla clientela e alla burocratizzazione. Nei confronti della prima introduce un controllo comunitario e soprattutto il valori del rispetto della cosa pubblica che caratterizza la comunità “vicina” al bene, nei confronti della seconda conferisce rilevanza giuridica ad una situazione di fatto a cui imprime un giudizio di valore positivo. Pertanto, ogni qualvolta si difende uno spazio sociale, uno spazio verde ripulito dai cittadini, un’associazione culturale a rischio di sfratto, non si pone una questione particolaristica, ma un nodo di fondo del sistema.
4. Il fondamento costituzionale della gestione condivisa dell’amministrazione pubblica
Quanto ho affermato, a mio parere, non è una costruzione astratta per la cui affermazione occorre sovvertire il sistema normativo attuale. Credo che la modificazione di posizionamento tra cittadino e PA trova fondamento costituzionale, quantomeno in alcuni settori, contenga appigli di applicabilità nella legislazione vigente. Il fondamento costituzionale del diritto dei cittadini a divenire titolare del potere amministrativo si riscontra nel principio di sussidiarietà orizzontale introdotto nella costituzione con la riforma del 2001 e regolato dall’art. 118 cost.
Tale articolo recita che la p.a. a tutti i livelli favorisce “autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.” Tale principio, in particolare, attiene alla distribuzione dei compiti nello svolgimento della funzione amministrativa, conferendola, all’evidenza, anzitutto ai cittadini. La struttura amministrativa interviene solo dove i cittadini autorganizzati non possano realizzare autonomamente l’interesse pubblico. La norma dice questo e non ignoro di come, in chiave liberale, sia intesa come retrazione del pubblico dalle proprie responsabilità.
E’ noto però che la portata dei principi costituzionali, e la loro traduzione nella costituzione materiale, sia anche frutto dei rapporti sociali che li sostengono . E la sfida che abbiamo davanti è quella di dotare il principio di sussidiarietà delle gambe che lo facciano correre nella direzione auspicata, quella della legittimazione dei beni comuni come modello democratico di svolgimento della funzione amministrativa.
Va detto che fare affermare, nei Tribunali, nelle leggi, nella mentalità degli amministratori e nei cittadini, la portata del principio di sussidiarietà come sopra descritta rappresenta il contrario delle privatizzazioni. Queste trasformano i beni pubblici in beni privati, escludendo p.a. e cittadini. La sussidiarietà è una concezione della gestione dei beni pubblici, che rimangono e addirittura “divengono” tali se una comunità li “colora” come beni comuni.
Che la categoria dei beni comuni e il principio di sussidiarietà introducano nel sistema amministrativo l’accesso diretto de cittadini nello svolgimento della funzione amministrativa è confermato anche da alcune misure attuative di tale principio adottate dal legislatore ordinario. Timide per l’obiettivo di capovolgimento del sistema che ispira queste note, ma significative per aprire una breccia.
È il caso dell’art. 24 del decreto n. 133/2014, convertito con modificazioni in legge n. 164/2014 rubricato “Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio” il quale stabilisce che ” I comuni possono definire con apposita delibera i criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi su progetti presentati da cittadini singoli o associati, purche’ individuati in relazione al territorio da riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalita’ di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano.
Come si vede tale disciplina:
1. Ammette la realizzazione di interventi di recupero e riuso di aree e beni immobili inutilizzati senza fare ricorso ad un bando pubblico
2. E conferisce la legittimazione come soggetti atti a realizzare la cura dei beni e dell’interesse pubblico delle comunità locali senza fare riferimento a forme organizzative rigide;
Ripeto: si tratta di accenni e di normative che nella mente del legislatore hanno intenti di retrazione del pubblico, ma io ci vedo una occasione quantomeno di discussione. Non ignoro ovviamente che la democratizzazione del sistema attraverso la valorizzazione della categoria dei beni comuni sia un terreno di contesa, ottenibile solo imponendo la questione nel discorso pubblico. I fatti sono il lievito delle norme, non lo dimentico. Dico che è un terreno di battaglia imprescindibile.
Di certo le norme che ho citato valgono sicuramente per smentire una sorta di superiore legittimazione giuridica del bando pubblico di assegnazione del patrimonio. Ma, e concludo, la sfida è molto più ampia è consiste nel costruire una nuova idea di amministrazione delle città, e di Roma anzitutto, fondata sulla democrazie e la primazia dei cittadini sugli apparati e la classe politica.