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Al palo della morte
Pubblichiamo un estratto del libro “Al Palo della Morte” di Giuliano Santoro, dal 3 dicembre in libreria […] : un racconto del Quinto Tipo che a partire dall’omicidio del giovane pakistano Shahzad, avvenuto a Tor Pignattara, nella periferia sudorientale romana, ricostruisce la storia del rapporto tra centro e periferia e trova un punto di osservazione della crisi e dei dispositivi economici mediatici, urbanistici e militari della guerra ai poveri che essa dichiara. Pubblichiamo in anteprima le prime pagine del libro.
Questo libro racconta la morte di un uomo pakistano di nome Shahzad. Tutto ciò che leggerete si basa su fatti reali. Cui ho assistito con i miei occhi. O li ho raccolti da testimoni fidati, gente che c’era e che ha visto. Oppure li ho letti su libri, ritrovati in fotografie, scovati in filmati, reperiti in articoli. Tutte fonti che valuto essere attendibili. Questa non è una requisitoria. Mi interessa ragionare sul rilievo sociale e sul significato simbolico di questo evento. Per questo motivo, ove indicato, attribuirò alle persone direttamente coinvolte nell’omicidio adopero nomi di fantasia. Considero che la riconoscibilità non abbia nessuna importanza ai fini di questo racconto. Utilizzo soltanto un nome reale: quello di Shahzad, il tragico e incolpevole protagonista di questa vicenda.
Colui il quale merita di essere ricordato.
Cominciamo dall’accaduto. Potrei cavarmela in 343 caratteri, spazi inclusi.
A via Ludovico Pavoni, alla periferia sudest di Roma, un pakistano di 28 anni è stato ucciso da un ragazzo. Pare che l’extracomunitario fosse ubriaco e si fosse rivolto in modo provocatorio, sputando in faccia ad un minorenne romano e causandone l’esplosione di rabbia. Lo straniero è stato colpito dal giovane. È caduto per terra ed è morto.
Detto così, come lo leggiamo nelle brevi di cronaca e ce lo raccontiamo al bar, il fatto pare lineare, essenziale, impeccabile. Una notizia fredda, forse spietata ma non tendenziosa. Eppure, tra le pieghe delle parole si nascondono trappole retoriche, automatismi linguistici e tic culturali che partecipano alla costruzione del nemico. Ci sono quattro artifici retorici, sottili e ricorrenti, che vengono usati in questo genere di notizie. Prima regola: usare più aggettivi che sostantivi. Seconda regola: prediligere il linguaggio astratto. Terza regola: meglio i verbi passivi. Quarta regola: scegliere la metafora giusta.
Si comincia dal luogo. La tragedia si è consumata nella notte tra il 18 e il 19 settembre del 2014 nel quartiere romano di Tor Pignattara. È periferia, Tor Pignattara? Si e no. Si situa al crocevia tra la gentrification del Pigneto e l’inizio del quartiere Casilino. È un quartiere che prende il nome da una via che inizia con una Torre. La battuta che circola nei quartieri-bene, per delimitare gli spazi e marchiare le zone di Roma, è questa: «Non bisogna andare a vivere in un quartiere che confina con una Torre». Lo stigma cade su Torre Maura, Tor Bella Monaca, Tor Fiscale, Tor Marancia, Tor Tre Teste, Tor Pignattara. Si sarebbe portati a ritenere che nella giungla delle torri può accadere che ci si debba far giustizia da sé. E che questo comporti dei rischi e degli eccessi.
Del resto, la vittima è solo un pakistano. Non ha un nome. La nazionalità viene specificata con più solerzia quando si tratta di uno straniero proveniente da paesi poveri o d’emigrazione. La nazionalità della persona coinvolta in un episodio che passa dai lanci di un’agenzia stampa alle colonne di un giornale è essenziale? La provenienza di una persona costituisce di per sé una notizia? Se il riferimento al paese di origine si usa come sostantivo («un rumeno») invece che come aggettivo («un ragazzo rumeno») si conferisce implicitamente maggior peso alla nazionalità come dimensione determinante di una persona, come parte essenziale del suo carattere. È molto diverso. Gli aggettivi indicano una singola proprietà di un soggetto. I nomi tendono a definire un insieme, a generalizzare. Marcano una differenza tra noi e loro. Un aggettivo aggiunge un dettaglio. Un sostantivo traccia un confine. E la nostra storia è fatta di confini invisibili e arbitrari. Riverso sull’asfalto a Tor Pignattara c’è un pakistano. L’aggressore è un ragazzo.
La vittima forse se l’è andata a cercare? Il pakistano è ubriaco e provocatorio. Il ragazzo lo ha colpito. La posizione dell’extracomunitario già di per sé pare fornire un’attenuante all’aggressore italico. Viene descritta con linguaggio astratto, cioè con due aggettivi. L’azione del giovane romano è narrata concretamente, con verbi descrittivi. Il pakistano è provocatorio, il ragazzo lo colpisce. Nel primo caso, ancora una volta, il racconto di una vicenda tende ad allontanarci dal contesto e a generalizzare e definire categorie (gli stranieri tendono ad essere «provocatori»). Nel secondo caso, i verbi descrittivi si riferiscono all’azione precisa, delimitano il campo. È stata un’azione circoscritta che non ha a che fare con la natura di chi l’ha compiuta.
Per di più, forse lo avrete notato, il verbo è impiegato in forma passiva: «Lo straniero è stato colpito dal giovane». Tra forma attiva e forma passiva c’è molta differenza. Dicendo «Uno uomo ha stuprato una donna» o «La donna è stata stuprata» esprimiamo lo stesso concetto, ma nel caso della forma passiva si sottintende, più o meno consapevolmente, che la donna condivida una qualche «responsabilità» della vittima. La forma passiva viene utilizzata più di frequente quando l’autore del reato è italiano, dicono gli studi sul linguaggio dei media.
Ci sono metafore che nascondono una visione del mondo e dei suoi rapporti gerarchici. Per i migranti viene utilizzata più spesso quella della «bestia» che ha l’effetto di disumanizzare, di alludere all’essere sub-umano del diverso: «L’africano ha attaccato come una belva inferocita». Accade anche in articoli che ad una lettura superficiale vorrebbero essere pezzi di denuncia: «Dentro quella casa gli immigrati vivono ammassati come bestie». Per gli italiani si parla più spesso di «esplosione» di un litigio, di un raptus, della violenza improvvisa e imprevedibile. Nel primo caso si tratta di una tendenza naturale, a maggior ragione ripetibile in quanto attinente alla «natura» del carnefice. Il raptus è invece al di fuori del controllo di chi lo compie, non interroga la responsabilità del carnefice ma allude ad un episodio o a circostanze particolari che hanno indotto l’aggressore a comportarsi in un certo modo. Nel maggio del 2015 una tassista romana viene stuprata da un cliente. Gli ingredienti per un pezzo in cronaca nera ben condito ci sono tutti: c’è la città che al calare della sera cade in preda al terrore, c’è la donna che lavora di notte e che viene aggredita, c’è la caccia all’orco con tanto di identikit, con l’uomo che si aggira per le strade e che potrebbe colpire ancora. Poi si scopre che l’aggressore è un trentenne romano dall’apparenza normale, con faccia da bravo ragazzo e famiglia a casa. E viene automatico descriverlo in termini accomodanti, umani invece che belluini. «Agli inquirenti è apparso lucido e pacato, con un carattere quasi remissivo», scrive qualcuno. C’è spazio anche per la mamma dell’aggressore, che racconta tra le lacrime ai cronisti «È un ragazzo che ha sofferto», «Non è cattivo». Lui ha dato la colpa ai disservizi del trasporto pubblico e ha detto la parola magica, quella che rimanda ad un’eccezione spiacevole invece che ad una violenza inaccettabile: «Stavo aspettando l’autobus che non arrivava. Era un pezzo che stavo lì. Ho visto quel taxi e l’ho fermato. Volevo tornare a casa. Quando siamo arrivati, ho fatto un balzo in avanti con la scusa di controllare il tassametro. Non so cosa mi sia preso. È stato un raptus».
La manipolazione del contesto aumenta la diffidenza verso colui il quale viene descritto come diverso. Alcuni studi di psicologia sociale hanno provato a misurare quella zona grigia che si nasconde tra le parole e gli sguardi, che corre lungo pensieri sfuggiti dal lato oscuro della nostra coscienza e che affonda in secoli di diffidenza verso l’altro da noi. L’esperimento funziona così: ai partecipanti viene proposto di collaborare ad un esperimento relativo al funzionamento neuronale, Dapprima, si fa leggere loro un testo. Il contenuto non viene scelto a caso. Si tratta notizia di cronaca nera scelta ad hoc, cioè scritta con un linguaggio che nasconde pregiudizi. Le stesse persone vengono poi sottoposte al weapon paradigm. Viene cioè chiesto loro di osservare le immagini che scorrono su uno schermo. Ancora una volta si tratta di sequenze casuali, che però nascondono oggetti di diverso tipo. Nello specifico, viene assegnato ai partecipanti il compito di distinguere il più velocemente possibile tra armi da fuoco e oggetti inoffensivi. Nel frattempo, volti di neri oppure di bianchi si alternano a immagini di asciugacapelli e revolver. Ne deriva che la manipolazione del contesto è fondamentale per attivare uno stereotipo negativo: i partecipanti che hanno letto la notizia di un crimine commesso da un immigrato riconoscono più velocemente le armi quando sono precedute dal volto di un nero. Il volto dell’altro da sé produce diffidenza, predispone all’allarme, produce pregiudizi e facilita stereotipi, ci mette in attesa di un oggetto offensivo. Qualcuno dirà che si tratta di un esperimento con cavie umane da laboratorio, di un test costruito con condizioni artificiali e stimoli preordinati. Ma non viviamo forse una specie di weapon paradigm costante scorrendo i messaggi sui social network, passando il rassegna l’ordinario razzismo quotidiano dei nostri contatti Facebook, ruminando notizie, immagini, commenti e allarmi?
Per raccontare questa storia, dunque, abbiamo bisogno di comprendere cosa è successo senza isolare i fatti dal contesto in cui sono accaduti. Per ricostruire il contesto, bisogna spostarsi nello spazio e nel tempo. Bisogna annotare cosa accade nel frattempo, mentre Shahzad perde la vita. Bisogna scandagliare i dintorni, descrivere luoghi e pescare parole apparentemente innocue, provare a decifrarle e quando è il caso disinnescarle. È necessario ricostruire la catena degli eventi che ha portato a quella morte e che ha modificato quel frattempo.