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Nel regno del plusvalore
Recensione del libro “Morire per un i-phone” di Ngai, Chan e Selden: una inchiesta sul lavoro nelle fabbriche Foxconn in Cina, leggi qui l’introduzione). Una ricerca sociale su vasta scala sullo sfruttamento degli operai cinesi e la relazione tra capitale, corporations e istituzioni, pubblicata da Jaka Book, che verrà presentata venerdì 27 novembre ad ESC Atelier.
Morire per un iPhone scritto da Pun Ngai, Jenny Chan e Mark Selden per Jaka Book, a cura di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto è una ricerca collettiva iniziata da un gruppo di “sessanta docenti e studenti di venti università della Cina continentale, di Taiwan e Hong Kong”. Una ricerca sociale su vasta scala che si muove dentro l’esperienza storica pervasiva del lavoro globale, che si misura con gli eventi e le emergenze del presente. Mette in tensione alcuni degli assunti del fare ricerca oggi, come l’etica dell’accademia e l’uso delle istituzioni universitarie. Insomma, un lavoro ben al di là dell’accademismo impegnato: nell’esaminare la responsabilità della Apple e di altre imprese che subappaltano alla Foxconn, nel valutare il ruolo sia dello Stato cinese che delle organizzazioni sindacali nei confronti dello sfruttamento operaio vi è l’affondo alle deboli narrazioni e posizioni dei molti, anzi di troppi professori e ricercatori.
L’idea positivistica della neutralità delle scienze sociali è messa in crisi dal carattere parziale, dal posizionamento di questi ricercatori rispetto al fenomeno che indagano, rendendo evidente una loro sorta di impossibilità a trascendere l`oggetto di indagine. Per riprendere la teoria dell’indagine scientifica di Dewey, quel rapporto tra norme e prassi, tra teoria e prassi cessa di contrapporsi: l’una diventa la condizione di possibilità dell’altra e dove i confini disciplinari tendono a sfumare, nell’organizzazione dei saperi il criterio di efficacia si impone intrecciando in maniera virtuosa produzione di conoscenza e intervento. Una ricerca sociale e politica che si produce tra la soggettività del ricercatore e del nuovo lavoratore globale, protagonista di questo lavoro.
Morire per un Iphone infatti descrive le condizioni di operaie e operai nella grande fabbrica del mondo che è la Cina, dove si producono più del 50 per cento dell’elettronica mondiale. Se oggi la produzione manifatturiera classica si sta delocalizzando in paesi come Vietnam, Laos e Cambogia, dove i costi della manodopera sono più competitivi che in Cina e le restrizioni ambientali lasche, la produzione hi-tech si sta spostando verso l’interno del Regno di Mezzo abbandonando la costa del pacifico.
Chongquing, Chengdu, Zhengzhou sono le città delle provincie di Sichuan e dello Henan, situate nelle aree sud-occidentali e centrali: la nuova frontiera dove il capitale globale trova manodopera “giovane, abbondante, disciplinabile e mobilitabile entro i brevi tempi dettati dalla produzione” delle merci. Queste regioni dell’ovest sono le nuove Zone Economiche Speciali per i grandi marchi occidentali e le multinazionali subappaltatrici che sfruttano i bassi salari e la complicità delle autorità amministrative locali.
Tutto questo grazie alla differenziazione del minimo salariale: piuttosto che garanzia e protezione del lavoratore, su scala globale diventa lo strumento della spazializzazione dello sfruttamento. Infatti, come viene descritto bene in questo lavoro, è proprio “avvantaggiandosi dei differenziali salariali e del disuguale sviluppo territoriale della Cina che la direzione aziendale sposta operai da una località all’altra per rispondere ai bisogni dell’impresa”.
Un testo che fa luce sulla catena delle merci e della fornitura di prodotti hi-tech raccontata attraverso la grammatica del plusvalore assoluto degli operai che si logorano velocemente alla catena di montaggio, dequalificati nella separazione tra pianificazione e esecuzione del lavoro, comandati da una gerarchia interna organizzata lungo nette linee di comando. Tutto questo è il regno Foxconn: una gigantesca rete produttiva globale che impiega oltre un milione di lavoratori 24 ore su 24 nell’assemblare iPhone, iPad, Xbox.
Gettando luce sul lato oscuro della produzione elettronica, questo lavoro mette ben a fuoco il ruolo delle migrazioni interne e dei lavoratori privati della residenza urbana e dell’accesso al welfare e ai servizi. Altrettanto bene descrive la trasformazione del bacino di reclutamento di una forza lavoro sempre più istruita e scolarizzata. Un’inchiesta operaia come da molto tempo non se ne fanno e leggono aimè, realizzata lì dove la sociologia ha quell’intimo legame nel prendere la realtà per le corna: dopo le inchieste sull’esercito di formiche di Lian Si, questo nuovo importante contributo di Pun Ngai, Jenny Chan e Mark Selden è la riattualizzazione di un metodo che in Europa abbiamo, sbagliando, forse abbandonato.
Questo libro, che si propone di “vedere il mondo attraverso gli occhi dei lavoratori”, è arricchito dalle interviste dirette a studenti stagisti che lavorano, pardon studiano, da operai in produzione nei “campus” della Foxconn, come i manager chiamano le fabbriche. Il loro crescente numero tra le fila degli operai è uno degli aspetti più importanti di questo libro che mostra come la Cina abbia già ben imparato a sfruttare al meglio la nuova forza lavoro scolarizzata impigliata nelle trame dell’educazione. Un aspetto ben conosciuto nei paesi occidentali, e oggi sempre più a regime anche nel continente Cina, dove la “vendita di studenti” in nome del tirocinio fa impallidire gli stage non pagati agli studenti dei college americani o delle università europee. Ma l’orizzonte è il medesimo: abbassare il costo della manodopera, ridurre le garanzie sul lavoro e farne cittadini di seconda classe privi di diritti.
L’aspetto sicuramente più prezioso di questo volume è l’analisi delle lotte operaie nonostante il sindacato che, in Cina, è parte integrante della dirigenza aziendale. Lì dove “i dati sulla sindacalizzazione sono in contrasto rispetto a quelli di gran parte del mondo, inclusi Europa, Stati Uniti e Australia dove ormai da tempo l’iscrizione ai sindacati è in declino”, quando si tratta di contrattare su salario o la previdenza, la gran parte degli operai percepiscono queste istituzioni come inaffidabili o inutili. Qualcosa di famigliare per caso?
I lavoratori migranti e gli stagisti hanno organizzato le loro proteste dal 2010 scavalcando le vie legali: tutto questo oltre il sindacato ufficiale, che non ha nemmeno la possibilità di indire lo sciopero. Alla Foxconn ci si organizza da soli in modo segreto e informale, si improvvisano strategie di “sabotaggio creativo”, di rallentamento della produzione, minacce di suicidi di massa e negoziazione collettiva mentre le federazioni sindacali rimangono fedelmente dalla parte sbagliata, dalla parte dell’azienda. Le azioni dirette e collettive raccontate e descritte in questo libro sono la testimonianza di “una classe operaia emergente nella nuova economia politica”, che “ha compreso bene il proprio potere in alcuni punti chiave della produzione globale”, che “gioca la vulnerabilità delle fabbriche globali” obbligate a rispettare le richieste di velocità e qualità da parte di Apple, IBM, Sony, Microsoft.
È soltanto questione di tempo prima che le proteste riescano a formare movimenti ampi e durevoli? Gli operai cinesi stanno creando una nuova e ingente classe dotata del potenziale per plasmare la politica del movimento operaio a livello mondiale? Queste le domande al cuore di una ricerca da leggere soprattutto nella crisi che sta investendo la manifattura cinese, da cui forse emergeranno risposte appropriate a questi cruciali interrogativi.