OPINIONI
«Andare incontro a tutti»
Della gratitudine per Genova. Per farla finita con la retorica sullo Stato di eccezione, col vittimismo in cerca di protagonismo e con l’idea che il passato vada commemorato come fosse un museo delle cere
Le uniche parole importanti pronunciate a Genova nei giorni scorsi, oltre quelle del padre di Carlo Giuliani («un gesto di difesa»), sono state quelle di Manu Chao: «Grazie, Genova». Parole di cui dar conto, mentre in troppi, anche tanti che non c’erano in quei giorni del 2001, o comunque non erano in via Tolemaide quel pomeriggio torrido di lacrimogeni e rabbia, ripetono la litania della «notte della Repubblica», della sovrana violenza, del Leviatano senza freni, della crisi dello Stato di diritto.
Sgomberiamo subito il tavolo, iniziando con alcune «banalità di base». Stato è, in primo luogo, monopolio «legittimo» della violenza. Il perimetro della legittimità, anche i bambini lo sanno, è assai flessibile, esito di rapporti di forza. Certo, costituzioni e diritto mitigano lo scontro, ma è il conflitto sociale, Machiavelli parlerebbe di «umori», a fondare le istituzioni, sempre; queste ultime a fondare il diritto. Lo Stato, che non è l’unica istituzione che c’è, che è fenomeno storicamente determinato e da almeno un secolo fortemente in crisi, esiste perché la società è molteplice, l’interesse non è mai generale, il popolo – ovvero ciò che Hobbes definiva «un che di uno» (De cive) – è una finzione. Proviamo orrore e collera per quanto abbiamo vissuto e visto nei giorni di Genova, vent’anni fa, ma è opportuno farla finita con l’ossessione per lo Stato d’eccezione.
La lunga crisi nella quale siamo immersi da più di un decennio, anticipata da quella della Net Economy che incrocia l’insorgenza di Seattle (30 novembre 1999) e dei lunghi mesi a seguire, esibisce i tratti normalmente eccezionali ed eccezionalmente normali dell’accumulazione capitalistica. Se Marx vi annoia, con lui quelli che come me sono marxisti non pentiti, perlomeno leggete Naomi Klein.
Lo Stato neoliberale svuota le costituzioni «più belle del mondo» da un trentennio e più, con conseguenze drammaticamente note: tra tutte, la crisi sanitaria in risposta alla pandemia di SARS-CoV-2, generata anche (e ovviamente non solo) dal de-finanziamento della Sanità pubblica, dall’espansione a dismisura di quella privata, dall’impoverimento della medicina territoriale, dai maledetti brevetti che recintano vaccini prodotti con risorse comuni.
Vero, lo Stato di diritto, a Genova, è stato calpestato. Calpestati e torturati i corpi, vero. Ma cosa era accaduto a Goteborg, appena un mese prima? Era in corso un vertice UE, la polizia sparò non poco e colpì un manifestante. E a Napoli, nel mese di marzo dello stesso anno, quando ancora non governava Silvio Berlusconi? Governi diversi, paesi diversi, eppure… In alcun modo alleggerisco la condanna dei responsabili della mattanza se mi permetto di ricordare che a Genova si concentra, con violenza rara in assenza di guerra, la risposta della globalizzazione capitalistica al movimento che pretendeva un’altra globalizzazione, della solidarietà e della democrazia.
«Movimento dei movimenti», che senz’altro fu incapace di consolidare un pluralismo politico ostile alla rappresentanza e per questo, non per la repressione, si è inabissato; ma movimento anticapitalista, perché democrazia dei molti e capitalismo non sono sinonimi, sono nemici. Se anche in questo caso non vi fidate dell’affermazione, o la ritenete troppo forte, rileggete con un po’ di attenzione lo studio della Commissione Trilaterale del 1975 o le dichiarazioni di Hayek, economista ispiratore di Margaret Thatcher e non solo, a sostegno di Pinochet.
Foto di Manuel Vignati
A Genova 2001 occorre essere grati. Quelle giornate, potenti e terribili, hanno cambiato il modo di sentire la vita e il mondo di tante e tanti. I movimenti, quando esplodono, passano sotto la pelle, sprigionano forze che non sapevamo di avere, moltiplicano gli incontri e le combinazioni, generano affetti impersonali, fanno brillare la singolarità di ciascuno. Esatto, la singolarità brilla solo quando affetti impersonali ci attraversano, smobilitando quella parolina, fonte della violenza di Stato e non solo, che è il pronome personale ‘Io’. Immanuel Kant, amato dal fervore cosmopolitico degli amanti dello Stato di diritto, così iniziava la sua Antropologia pragmatica:
«Il fatto di avere fra le proprie rappresentazioni anche quella dell’Io eleva l’essere umano infinitamente al di sopra di tutti gli altri essere viventi sulla terra. È questo che ne fa una persona […] cioè un essere del tutto differente per rango e dignità dalle cose, quali sono gli animali privi di ragione, di cui si può disporre a piacimento».
Non è superfluo ricordare che, tra le «cose», per qualche millennio ci sono state le donne e gli schiavi, i bambini e i pazzi. «Destituire il potere di dire ‘Io’» (Blanchot), ciò che accade quando i movimenti conquistano la scena, significa farla finita col «ragionevole» dominio del mercato e dello Stato, con la «naturale» e dunque necessaria distinzione tra governanti e governati, padroni e servi. Democrazia dei molti è autogoverno.
Chi era a Genova, nel 2001, non è stato un eroe. L’eroe è la «bella individualità», superiore di rango, persona fino al midollo, utile per la storiografia liberale e il museo delle cere – patinato, ma museo. Eroi no, ma donne e uomini liberi sì. La libertà è desiderio di vita contro la tristezza e la morte, contro la povertà; ciò in primo luogo. È misericordia per gli oppressi e indignazione contro l’oppressione, in secondo. È diritto di resistenza contro chi colpisce la vita dei molti. Chi si difende come può con un estintore da una pistola che vuole morte è un essere libero.
Ricordando Carlo, che per la mia generazione è un «lago di nulla» nel cuore che non passerà mai, è bene non dimenticare che la libertà comune va difesa, sempre. Ricordando la mattanza, bene sapere che il passato oppresso lo riscattano le lotte del presente, quelle da fare e che verranno. Il resto è celebrazione, appunto, con l’idea che nulla è davvero cambiato, che nulla possa cambiare.
La libertà è gratitudine (Etica, Parte quarta, proposizione 71): così insegnava un ebreo ateo che molava le lenti e viveva in stanze ammobiliate, sempre braccato dall’autorità politica e religiosa. Sono grato ai visi, a migliaia visti in quei giorni, e che magari non ho visto più. Perché poi le vite si dividono, le combinazioni si corrompono, le gioie vanno smarrite. E non è cattiveria, non è semplicemente tradimento, è che la precarietà a volte strappa via il sonno, tormenta il cervello con ansie senza tempo, affanna gli amori che vanno e vengono – spiegaglielo, a chi faceva cento riunioni a settimana del Forum Sociale, perché figlio di un’altra epoca, di un altro welfare, di altri contratti di lavoro…
Genova ha perso – ammesso che tutto, nella storia, possa spiegarsi come fosse una guerra tra Stati sovrani – ma i movimenti ritornano, sempre diversi, lo hanno fatto spesso negli ultimi vent’anni e lo faranno ancora; il cuore non smette di battere. Senz’altro il problema è capire quando, prevedere, organizzare, distinguere l’importante da ciò che importante non è, combattere la solitudine, radicare i contropoteri, inventare nuove istituzioni, ecc.
«Sto aspettando l’onda | Navigando nell’asfalto | Lento gocciola il sole | Che sapore ha la libertà» (Assalti Frontali): il ritornello “antico” da tenere a mente. Organizzare la vita comune contro la precarietà del lavoro, la condivisione contro i recinti della proprietà, la cooperazione intelligente contro la competizione: la sfida non più rinviabile.
Un poeta di generazioni passate ma vicine, dimenticato perché troppo attento all’angoscia («metropolitana») che di frequente ci tormenta, cantava: «bisogna andare incontro a tutti quelli che oggi come noi | Voglion rischiare di essere distrutti piuttosto di ritrovarsi poi | In una famiglia senza persone, come tra i muri di una prigione» (Lolli). No, non si tratta di nichilismo, di avventurismo irresponsabile. Sono piuttosto le parole che rinnovano il desiderio di non essere oppressi da chi solo opprimere desidera, di fondare un mondo mai visto ancora, nonostante tutto; di vivere un’altra vita.
In copertina, foto di Manuel Vignati