ITALIA
«Senza Indymedia, sarebbe stata un’altra Genova». Intervista a Kyrara
Oltre a imporre una narrazione alternativa dei fatti del G8 di Genova, l’esperienza di Indymedia è stata anche un volano per la costruzione di comunità dissidenti e fluide, accomunate da una gestione totalmente orizzontale della comunicazione politica e della creazione di consenso
Il mediattivismo nasce da una forte volontà di riappropriazione della propria parola e dei mezzi per comunicarla, anche e soprattutto quelli tecnologici. Kyrara (nickname) ci racconta di come l’esperienza di Indymedia sia stata non solo un’esperienza di comunicazione politica, ma anche di cambiamento delle gerarchie politiche e della creazione di comunità di attivisti e attiviste.
Qual è stato il grande cambiamento apportato da Indymedia?
Indymedia ha rivoluzionato tutto. Improvvisamente, non c’era più bisogno di intermediazione, né con i vertici politici, né con i giornalisti, ma avevamo creato uno strumento nostro di cui potevamo disporre a piacimento. Indymedia era strutturata in due sezioni: la colonna centrale, la cosiddetta “feature”, in cui pubblicavamo contenuti attraverso un processo che era comunque di stampo editoriale, mentre a destra c’era il “newswire”, che ha rappresentato l’elemento più dirompente e rivoluzionario. In pratica era gestito in maniera totalmente aperta, per cui chiunque poteva scrivere dei post e commentare.
Si tratta di un’innovazione che nell’era dei social appare assolutamente scontata, ma all’epoca non c’era modo di fare una cosa del genere. Si dovevano pagare dei domini, prendere delle pagine web apposite. Invece Indymedia arriva sulla scena e apre tutto a tutti. Ovviamente avevamo posto dei paletti alla pubblicazione dei post: non ci dovevano essere contenuti di stampo fascista, razzista o sessista.
Nel momento in cui il nostro progetto è cresciuto e ha raggiunto un numero molto alto di utenti, proprio questa apertura ha iniziato a rappresentare un problema: avversari politici e “troll” hanno iniziato a prendere d’assalto la pagina. Ricordo che a un certo punto stavamo svegli di notte per riuscire a cancellare tutti i post offensivi. Ma, al di là di tutto, si è trattato di un’esperienza pazzesca: è stata una delle poche volte in cui, come movimento, siamo riusciti a stare un passo avanti rispetto al resto della società, ad arrivare per primi.
(La homepage di italy.indymedia.org, tornata accessibile dal 1 luglio 2021)
Come hanno reagito i canali di comunicazione “mainstream”?
A un certo punto, appena dopo Genova, avevamo più accessi di “Repubblica”, eravamo davvero diventati un punto di riferimento importante. Non solo i media tradizionali si sono dovuti accorgere della presenza di Indymedia, ma la usavano proprio come fonte per elaborare le proprie notizie, perché noi eravamo attivi sul territorio, mentre loro no. La comunità che ruotava attorno a Indymedia era diventata davvero vastissima: c’erano centinaia di persone iscritte alle mailing list. Tanto grande che a un certo punto abbiamo deciso di dividerla in nodi legati alle singole città e regioni, dandoci dunque una strutturazione a livello locale.
Dentro Indymedia non eravamo giornalisti, non eravamo una redazione, eravamo completamente immersi nel movimento, però riuscivamo a garantire una copertura su alcuni eventi davvero 24h su 24, come i grandi giornali all’epoca non riuscivano ancora a fare. Faccio un esempio: durante la seconda Intifada, a Pasqua del 2002, partono per la Palestina delle carovane internazionali di mediattivisti con l’obiettivo di attivare un nodo di Indymedia in quei territori. A un certo punto mi arriva una telefonata nel pieno della notte, da parte del gruppo che si trovava lì: «Ci stanno sparando addosso». L’esercito israeliano aveva deciso di sferrare un attacco e occupare le zone della provincia di Ramallah, e mediattivisti e mediattiviste si trovavano “nell’occhio del ciclone”.
Così, hanno agito da veri e propri corrispondenti: noi in Italia ci siamo trasferiti tutti a Radio Onda Rossa, che è diventato una sorta di media center come a Genova, mentre dalla Palestina ci mandavano informazioni in continuazione: interventi audio, note scritte, oppure video. A un certo punto uscì addirittura un lancio di agenzia dell’Ansa che ci ringraziava perché senza il lavoro di Indymedia e Onda Rossa non ci sarebbe stato nessun tipo di informazione nei territori. Eravamo gli unici giornalisti rimasti sul campo.
In questo senso, come interpretavate la vostra volontà di stare anche dentro ai movimenti?
L’importanza di Indymedia è legata alla storia del movimento. Credo che all’epoca non ci fosse nulla di così vivo e forte come i movimenti che si opponevano ai vertici delle potenze globali e proprio dentro a quelle esperienze era nata anche una forte esigenza di comunicare. Qualcosa che arrivava dalla lotta zapatista, che fu la prima a utilizzare i video e a porsi in un’ottica di orizzontalità. Allo stesso tempo, stava anche esplodendo la “rete”, che offriva una possibilità inaudita per mettere in pratica queste istanze. Le grandi multinazionali ancora non se ne erano appropriate come oggi, mentre ora i movimenti passano giocoforza per Twitter o simili (basti pensare alle primavere arabe).
(foto tratta dal Libro Bianco sul G8 di Genova, 2002)
Noi ci sentivamo come se avessimo avuto diverse “casacche”, ne levavi una e te ne rimettevi un’altra, ma nel momento in cui scendevi in piazza per coprire le manifestazioni, le coprivi. Ciò non escludeva ovviamente che molti di noi potessero stare anche dentro i percorsi di organizzazione dei movimenti. Anzi, questo garantiva tutto un altro livello di agibilità: a Genova è stata una delle prime volte in cui stavamo con le telecamere in mano durante le mobilitazioni, quindi all’inizio c’era anche una certa diffidenza. Il fatto di essere riconoscibili da chi stava in piazza chiaramente aiutava a farsi accettare.
Come viene ricordato quel contesto?
A un certo punto l’esperienza di Indymedia si è chiusa ed è come se non avessimo lasciato nessuna traccia dietro a noi. Proprio in questo periodo, a vent’anni da Genova, stiamo provando allora a riannodarne i fili, per lasciare almeno una sorta di “cassetta degli attrezzi”, del materiale su cui riflettere. Quello che mi piacerebbe tramandare è il fatto che eravamo una comunità pazzesca. Eravamo un insieme di persone completamente differenti fra loro, capaci di “scazzare a bestia” nelle mailing list, di “prenderci a pancate” anche in modo pesante, ma che si sono sapute amare profondamente.
È strano ripensarci oggi, dopo la pandemia: ci confrontavamo in un ambiente totalmente virtuale, nelle chat e nelle mailing list, e magari passavano gli anni prima che ci si vedesse dal vivo e ci si potesse toccare, però stringevamo delle relazioni fortissime. Inoltre, tutti e tutte usavano uno pseudonimo, quindi i nostri scambi si svolgevano in un contesto di estrema fluidità e indeterminatezza di genere.
Eravamo proprio belli e belle, scalmanate, andavamo in giro a costruire dei media center dovunqueci trovavamo. E questo non sarebbe stato possibile se non ci fosse stata un’unione profonda tra la comunità hacker, che era tendenzialmente più timida e chiusa, con le persone che venivano dai movimenti, sempre telecamera in mano, smaniose di comunicare…
E oggi?
Noi eravamo in un processo di continua sperimentazione, in un’ottica di riappropriazione dei software. Adesso l’aspetto più pericoloso è che forse si danno per scontate un sacco di cose, che non c’è più quell’approccio a un uso consapevole della tecnologia che era quello che in qualche modo proponevamo noi. Non c’è nemmeno quella attitudine a “metterci le mani dentro”, che proveniva dalla filosofia hacker…
(foto tratta dal Libro Bianco sul G8 di Genova, 2002)
Io credo che, se non ci fosse stata Indymedia, Genova sarebbe stata raccontata in un altro modo. Sarebbe passata la narrazione ufficiale, che è poi quella che hanno cercato di riscrivere nelle aule di tribunale. Supporto Legale, il gruppo che è nato all’interno di Indymedia e che poi si è staccato nel momento in cui gli avvocati del Genoa Social Forum ci hanno chiesto una mano per la consulenza tecnica nei processi, ha utilizzato i video girati durante le mobilitazioni come prova.
Il rifiuto dell’intermediazione derivava dalla volontà di non avere leader, ma anche di non dover sottostare a narrazioni eterodirette delle proprie azioni. Con Indymedia eravamo noi a raccontare ciò che vedevamo, e perciò il pensiero di ciascuno aveva pari dignità rispetto al pensiero degli altri.
Immagine di copertina di Gabrio Mucchi