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ROMA
«Ma ti rendi conto in che quartiere ti trovi?!»
La retorica giornalistica e politica sul quartiere di San Lorenzo è sempre più improntata su una retorica securitaria, basata sull’oppossizione fra “malamovida” e “buona movida”. Occorre ripensare la nostra socialità
«Ma ti rendi conto in che quartiere ti trovi?!» Andrea sorride incredulo per quella domanda rivoltagli dal suo collega rider. Senza scomporsi, risponde «Beh, sì! Ho abitato qui per sei anni e tutt’oggi continuo a frequentarlo e a farci attivismo». «Stai attento, qua succede il panico!», conclude l’altro, in tono apprensivo. Andrea non aveva fatto niente di sconsiderato. Semplicemente, mentre aspettava che la pizzeria gli desse le pizze da consegnare per quella sera, aveva lasciato il motorino parcheggiato due metri più in là con le chiavi ancora inserite.
Questo gesto apparentemente incauto ha evocato nella immaginazione del collega rider ogni genere di mostro raffigurato nei bestiari della stampa locale: ladri, ricettatori, tossici in cerca di soldi per una dose, vandali nichilistici che vogliono soltanto vedere bruciare il mondo, e quant’altro. Ed è stato questo terrore che ha portato il rider a mettere in guardia Andrea sui pericoli del quartiere.
Il quartiere di cui si sta parlando è San Lorenzo, Roma, divenuto tristemente noto nelle ultime settimane per il gran numero di articoli negativi che lo vedono protagonista.
In questi articoli ubriacature moleste, cestini straripanti di spazzatura ed episodi violenti vengono mescolati in un unico calderone per restituire un quadro complessivo di degrado e disagio. Si punta sempre più spesso il dito contro la “malamovida”, neologismo di questi giorni che si dovrebbe contrapporre alla “buona movida”, cioè quella che rientra perfettamente negli spazi e nei tempi del consumo stabiliti dai privati.
La malamovida è un termine scatolone definibile all’occorrenza; è il ponte che la stampa e le amministrazioni locali stavano cercando per connettere tutte le deviazioni urbane che fanno storcere il naso al ceto medio votante: spazzatura, schiamazzi, disagio psichico e sociale; ma soprattutto la malamovida è l’agente del degrado, forza uguale ed opposta del decoro.
Poco importa cercare di capire quali sono le logiche di consumo e speculazione che hanno portato San Lorenzo allo stato attuale, né tantomeno restituire un quadro onesto di quei giovani che con troppa paternale supponenza si fanno rientrare nella “malamovida”, ma che nei fatti sono stati tra i protagonisti delle attività di mutuo soccorso durante la pandemia, come la spesa solidale o le aule studio autogestite, o che hanno dovuto farsi carico delle conseguenze sociali e individuali della malagestione della pandemia, tra i silenzi assordanti delle istituzioni.
Dietro agli articoli di questi giorni si nasconde una realtà ben più complessa di quel che potrebbe apparire. La storia di San Lorenzo non è una eccezione italiana; ciò che il quartiere sta attraversando ha caratteristiche generali riscontrabili in tantissime altre storie di tantissimi altri quartieri di tantissime altre città italiane.
Fare luce su come agiscono questi meccanismi, partendo dal caso di San Lorenzo, può aiutarci a individuare strategie per poter essere incisivi sul piano cittadino e sottrarre le nostre città dalle mani di quegli speculatori che vorrebbero usarle per ricavarci profitto, noncuranti del deserto sociale ed economico che si lasciano dietro.
La coppia decoro-degrado è un dispositivo di occultamento
Nel suo libro La buona educazione degli oppressi Wolf Bukowski mostra come è insidiosa la definizione della coppia decoro-degrado. In sostanza, per Bukowski, il degrado viene comunemente inteso come «mancanza di decoro», e a sua volta il decoro viene descritto come «mancanza di degrado». Nella circolarità logica delle due definizioni, che rende di fatto i due concetti inscindibili l’uno dall’altro, c’è nascosta tutta l’arbitrarietà degli stessi. I confini di uno (e quindi inevitabilmente dell’altro) sono a totale discrezionalità delle amministrazioni locali che promettono di risolvere il problema, o della stampa che ha deciso di raccontarlo.
La coppia si fonda sul terreno cangiante degli umori perbenisti del ceto medio di una società intrinsecamente razzista, eteropatriarcale, classista e legalista.
Non a caso negli anni abbiamo visto rientrare sotto la definizione di degrado gli elementi più disparati: cassonetti stracolmi, rifiuti per terra, persone migranti ferme ai semafori, questuanti, campi rom, pride, macchine in doppia fila, vestiti appariscenti o succinti, graffiti, crimini violenti contro la persona o la proprietà, e via discorrendo. Lo scopo principale della coppia decoro-degrado è generare un senso diffuso di incertezza così da far richiedere alla cittadinanza intimorita interventi muscolari e securitari laddove a ragion veduta non ce n’è alcun bisogno.
Così facendo le amministrazioni locali possono evitare di fare i conti con le loro gravi deficienze e di proporre cambiamenti strutturali nel modo di gestire lo spazio urbano. Ecco così che vediamo trasformarsi in problemi di ordine pubblico problemi che in realtà richiederebbero semplicemente l’intervento della nettezza urbana, come nel caso del parco di largo Passamonti, che per svariate sere è rimasto chiuso al pubblico per via degli ingestibili ammassi di spazzatura che col tempo si sono accumulati al suo interno.
Circoscrivere tutto alla retorica del degrado ci impedisce anche di analizzare con lucidità come lo stato sociale sia stato ridotto a brandelli nel corso degli anni e di come così facendo migliaia di persone sono state abbandonate a loro stesse.
Anche episodi gravi, come il recente omicidio di un padre da parte del figlio per motivi di droga, acquistano nuovo significato se analizzati sotto quest’ottica. Invece di derubricare questa vicenda a una ordinaria storia di contesti degradati forse dovremmo cominciare a vedere questi episodi come la triste e evitabile conseguenza di un lungo percorso fatto di mancanza territoriale di presidi medici sanitari contro le dipendenze e forte abbandono psicologico e sociale, quest’ultimo particolarmente acuito dalla pandemia.
Inoltre, riducendo tutti i fenomeni umani al comportamento del singolo, la diretta conseguenza della coppia decoro-degrado l’eliminazione della dimensione di classe dei problemi, per cui si assiste sempre più da parte del singolo cittadino a una criminalizzazione del senzatetto che dorme sulla panchina, del migrante lavavetri o dell’emarginato che beve fino a notte tarda. Si punta il dito sdegnati senza però mai domandarsi quali sono le cause sistemiche che spingono una persona a dormire su una panchina, chiedere qualche spicciolo davanti a un semaforo o passare tutta la vita a bere.
Infine, va segnalato come nell’ultimo periodo la retorica del degrado sia stata usata per giustificare l’eliminazione di quel minimo livello di welfare rimasto, come testimoniano i numerosi articoli e post social di politici di destra e di sinistra che vedono nel reddito di cittadinanza il motivo della disoccupazione giovanile e della nullafacenza alcolica dei giovani studenti.
Forse, prima ancora di invocare la legge marziale e farci paralizzare dalla paura di una città “fuori controllo”, dovremmo chiederci cosa stanno facendo le amministrazioni e gli enti locali per rendere veramente vivibili i nostri spazi, quali meccanismi di tutela dell’individuo sono stati messi in campo, cosa si sta facendo per i soggetti a rischio che vivono ai margini della società, quali sono le strategie di recupero e reinserimento in società per i soggetti più fragili.
E nel caso molto probabile in cui le risposte a queste domande siano “poco o niente”, allora dobbiamo immaginare piani di gestione e vivibilità urbana che mettano al centro la dignità e la salute della persona, la salubrità degli spazi collettivi, il lavoro sicuro, dignitoso e volto al bene comune, la valorizzazione delle esperienze locali di autogestione. Sono progetti radicali che richiedono un ripensamento strutturale del modo in cui viviamo in società, capaci di mettere al centro la cura individuale e collettiva, eliminando così la paura e il sospetto promosse dalle politiche securitarie che negli ultimi anni sono state proposte sia dalla destra che dalla sinistra. Per quanto ci riguarda, il manganello non potrà mai essere una risposta.
San Lorenzo, tra residenti e studenti
San Lorenzo è un quartiere dalla forte identità storica. Quartiere che resistette ai bombardamenti e ai fascisti, centro dell’autonomia operaia romana degli anni ’70, ha sempre vantato una tradizione antifascista e genuinamente di sinistra. La vicinanza con le sedi della Sapienza lo rendono anche un quartiere universitario, abitato e animato da giovani studenti provenienti da varie parti d’Italia. Nel corso degli anni manovre di speculazione hanno profondamente modificato il tessuto sociale del quartiere.
Col passare degli anni san Lorenzo si è tramutato sempre più in un “bar a cielo aperto”, in cui alcol a poco prezzo viene smerciato ad ogni angolo di strada. Questo ha reso l’intero quartiere una sorta di “divertimentificio”, un polo attrattivo della vita notturna e giovanile romana e, a sua volta, questa trasformazione ha agito come un meccanismo a feedback positivo, attirando ulteriori speculatori, desiderosi di accaparrarsi una fetta del remunerativo business del sabato sera.
Gli investitori privati esterni sono stati accolti dalle amministrazioni locali con gioia, nell’illusione che i loro commerci avrebbero dato nuova linfa economica al quartiere, arricchendo gli abitanti in maniera trasversale.
Come testimoniano oltre 40 anni di neoliberismo, la teoria del trickle down, ovvero che le ricchezze, lasciate in mano ai ricchi, col tempo sgocciolino sui ceti sottostanti, è una trappola, e non fa eccezioni neanche per San Lorenzo. La cannibalizzazione dello spazio urbano ha soltanto portato affitti più alti, chiusura di attività storiche e ulteriori colate di cemento in quartiere di per sé già povero di verde.
In questo fondale vanno aggiunti gli effetti della pandemia, che hanno ridotto sensibilmente la disponibilità dello spazio pubblico, tra normative anti-assembramento e locali che con le riaperture all’aperto hanno occupato quel poco di suolo rimasto. Gli spazi sociali che da sempre hanno provato ad offrire una alternativa culturale e di socialità all’interno del quartiere sono sempre più sotto attacco, basti pensare allo sgombero del Cinema Palazzo, uno dei punti di riferimento per la vita artistica della zona.
L’appiattimento delle offerte ricreative al solo consumo di alcolici, il coprifuoco che impone la chiusura dei negozi e il rientro a casa a un dato orario, le leggi del decoro che vietano il consumo per strada, le piazze transennate hanno creato un mix esplosivo in cui le opportunità di divertimento risultano essere ipercompresse sia nei tempi che nei luoghi.
In un simile scenario è inevitabile che la situazione precipiti in quelle azioni che nell’ultimo periodo hanno occupato i titoli della cronaca locale. I residenti esasperati chiedono il pugno di ferro, nella speranza che un intervento repressivo possa ristabilire la normalità, senza però rendersi conto che le cause reali dell’invivibilità del quartiere affondano molto più in profondità e il giovane con lo spritz è soltanto la punta dell’iceberg. Viene a più riprese riproposto uno scontro tra residenti storici e giovani, i quali avrebbero rivendicazioni antitetiche tra loro: il diritto al riposo e alla pulizia per i primi, il diritto al consumo e al divertimento chiassoso per i secondi. Anche qui c’è un fraintendimento.
Come detto prima, un quartiere complesso e sfaccettato è stato reso irriconoscibile dal desiderio di arricchimento di pochi privati, senza che la maggioranza delle persone che lo vive (residenti storici o studenti fuorisede che siano) avesse potuto dire la sua. La verità è che noi viviamo in quartieri che non abbiamo scelto, siamo totalmente alienati nei loro confronti. Subiamo le conseguenze di una politica miope che vede nel commercio l’unica salvezza a scapito di altri servizi e utenze, e degli appetiti insaziabili di gruppi privati che devastano il tessuto sociale di intere città e lo rimodellano per ingrassare le loro entrate.
La messa a profitto dei nostri quartieri apre una partita importantissima sul diritto alla città e alla deliberazione democratica sulle sorti dello spazio urbano.
Lo scontro reale non è tra il riposo e il divertimento, ma su quanto potere hanno le persone che vivono i quartieri di poterne determinare l’evoluzione, la distribuzione dei luoghi di produzione e riproduzione, l’organizzazione di attività collettive volte all’arricchimento sociale e su come immaginare strategie di deliberazione collettiva capaci di coinvolgere le persone in maniera trasversale.
Queste battaglie devono necessariamente connettersi con quelle già esistenti della lotta per la casa, per opporsi così in maniera efficace alla speculazione immobiliare, agli affitti astronomici e alla gentrificazione. Rimettere al centro la questione democratica del vivere comune potrebbe essere la strada giusta per provare ad arginare il capitale predatorio che sta distruggendo le nostre città.
Ti stai divertendo?
Il divertimentificio San Lorenzo si è imposto nell’immaginario romano come mecca del divertimento alcolico a basso prezzo e del turismo alternativo mordi e fuggi. Sono due settori altamente remunerativi in quanto vedono un grande ritorno economico con spese davvero basse. Per tal motivo negli anni speculatori esterni ci hanno investito, consegnandoci un modello di socialità e divertimento basato sul consumo e l’ubriachezza molesta. È giusto chiedersi se è davvero questo un modello auspicabile dello stare insieme e passare una bella serata, oppure se non è altro che un bisogno indotto dalla mancanza di alternative e da un futuro sempre più incerto e ansiogeno.
Ultimamente, in seguito anche al grave impatto della pandemia sulla salute mentale, la questione psicologica è tornata al centro di molti dibattiti politici nella sinistra di movimento.
I disagi psichici sono in generale aumento da decenni ma nell’ultimo anno hanno subito una forte accelerazione, soprattutto tra i giovani, i quali risentono sempre più di disturbi legati all’ansia e di un tendenziale calo del tono dell’umore che spesso sfocia in un vero e proprio disturbo depressivo maggiore. Per stessa ammissione dei diretti interessati, alcol e droghe sono tra le strategie di elezione per la gestione della tensione e delle ansie.
Il sabato sera è sempre più inteso come lo sfogatoio dello stress accumulato nei giorni scorsi, l’ora d’aria settimanale di quella prigione che è diventata la nostra vita. Ma ci stiamo davvero divertendo? È una domanda che dovremmo cominciare a farci più spesso. A quanto pare la nostra rigenerazione come individui che devono affrontare gli ingranaggi del capitalismo passa inevitabilmente per l’autodistruzione. Una strategia escapista, di fuga individuale da un disagio che ha profonde radici sociali.
Queste radici affondano nella precarietà esistenziale cui si è ridotta la nostra vita, nella mancanza di prospettive future, nella riduzione di ogni rapporto a forme economicistiche di relazione, nella profonda solitudine in cui l’individualismo neoliberista ci ha relegato, nell’aziendalizzazione di scuole, università, ospedali, nei tagli alla cultura, all’arte, alla scienza, nell’eliminazione di luoghi alternativi di socialità e condivisione, nell’esclusione dalla gestione democratica delle nostre vite e dei nostri luoghi.
Un copione già visto: il capitalismo dapprima crea le condizioni per una crisi, per poi vendere in un secondo momento le sue soluzioni. Infatti, questo disagio si è rivelato una prospettiva ghiotta per molti investitori e commercianti, che hanno fatto dello stordimento a basso costo la loro fortuna.
Ci sono anche commercianti che camuffano i loro locali come “circoli culturali” solo per avere agevolazioni fiscali, ma che nei fatti sono dei veri e propri pub con offerta culturale assente. Spesso, gli esercizi commerciali sono legati da fili nascosti a fenomeni mafiosi di spaccio, così da soddisfare pienamente la domanda di alterazione. In un simile scenario il consumo (che spesso sfocia in abuso) di alcol e sostanze non può essere inteso ancora come neutrale.
Sorge spontanea la domanda: ci si può divertire senza ricorrere al divertentismo sfrenato e autodistruttivo? Spesso nei nostri spazi si ricorre alla grande festa come modo per far cassa tramite il bar e sostenere le spese della nostra attività politica. Ma non è forse questo una riproposizione delle stesse logiche descritte poco sopra, che fanno leva su un desiderio di fuga immediato e al ribasso? Non dovremmo forse rompere con questo modello, che a quanto pare abbiamo interiorizzato?
Nei nostri spazi dovremmo provare a costruire nuove forme di socialità, capaci di mettere al centro le verità etiche ed emotive della solidarietà, della scoperta reciproca, dei legami interpersonali, del vivere comune.
In un periodo storico in cui mai come ora ci sentiamo solə, questa sfida appare più pressante che mai. Forse rifiutando le definizioni narcisistiche e individuali di felicità e divertimento, volgarmente intese come “assenza di dolore e massimizzazione del piacere subitaneo”, e restituendo loro una dimensione sociale e collettiva, potremmo costruire quel nucleo di resistenza umana contro il nulla che avanza di cui abbiamo tanto bisogno.
Giovedì 1 luglio Communia organizzerà una discussione su questi temi con Sarah Gainsforth e Giuliano Santoro. Qui tutte le informazioni sull’evento
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